di Marica Di Pierri
La profonda, drammatica incompatibilità tra limiti ecologici del pianeta e modello di produzione e consumo è uno degli elementi non più rimandabili su cui da tempo èavviata una complessa riflessione da parte di quegli intellettuali, attivisti, sindacalisti, lavoratori, amministratori e imprenditori che hanno scelto, in maniera lungimirante, di non cedere alle semplificazioni dettate dal mantra: «èil capitalismo, bellezza». Una riflessione la cui necessitàèdimostrata da decine di indicatori e da enormi quantità di dati, studi, ricerche, statistiche e allarmi, lanciati nel vuoto, con pervicacia, dalla comunità scientifica e da analisti economici e politici non allineati.
Tra gli indicatori maggiormente emblematici figura l’Earth Over-shoot Day. Calcolato dal Global Footprint Network, individua anno per anno il giorno in cui, misurando la relazione tra consumo di risorse e capacità bio-riproduttive, iniziamo ad accumulare l’unico debito che realmente conta: quello con il pianeta Terra.
Pur essendo basato su calcoli statistici e indicatori scientifici, l’Over-shoot Day èuna stima orientativa dotata di grande valore simbolico. In più ha l’enorme merito di riassumere in sé tutta l’evidenza dell’impellente necessità di transitare, a tappe forzate, verso modelli differenti di gestione delle risorse e verso politiche industriali radicalmente alternative a quelle attuali.
Il perché è presto detto: nel 2015 l’Overshoot Day è caduto il 19 agosto. Nel 2003, il 22 settembre. Dieci anni prima, nel 1993, cadeva il 21 ottobre. Questa galoppata progressiva è sintomo di una corsa cieca e all’apparenza inesorabile verso il depauperamento irreversibile delle risorse del pianeta.
Stando a questi dati, a livello globale consumiamo in 7 mesi e mezzo tutto quello che il pianeta è in grado di rigenerare. Per i restanti mesi dell’anno ci dedichiamo ad intaccare risorse che non si riprodurranno e che dovrebbero, al contrario, essere mantenute intatte.
Se guardiamo all’Italia la situazione èancora peggiore: nel 2015 l’Overshoot Day è caduto il 6 aprile. Un dato che deve far riflettere sull’insostenibilità ambientale, ma anche sociale ed economica, del nostro sistema produttivo, capace di sperperare in soli tre mesi tutto quanto suoli, sottosuoli e acque saranno in grado di produrre nell’arco dell’intero anno. Per continuare a sostenere l’attuale livello di produzione e di consumi, avremmo dunque necessitàdi un paese quattro volte più grande.
Ripercorrere la mappa e la storia dello sviluppo industriale italiano aiuta a mettere a fuoco le conseguenze di politiche estrattive e produttive che hanno lasciato sul campo, nel corso dei decenni, poco sviluppo socio-economico a fronte di un’enorme devastazione ambientale e della diffusione di profonde crisi occupazionali dal Nord al Sud del paese. In Italia la maggior parte dei 57 SIN, Siti di Interesse Nazionale per le Bonifiche esistenti (poi ridotti a 39 nel 2013) sono poli industriali – in parte dismessi, in parte ancora attivi. Lo studio epidemiologico SENTIERI, portato avanti dall’Istituto Superiore di Sanità in 44 dei 57 SIN, ha rilevato una maggiore incidenza di mortalità e malattie che riguarda non solo i lavoratori di questi poli, ma anche le comunità che risiedono nelle vicinanze. Da tali dati affiora l’evidenza di un’emergenza generalizzata, che va ben oltre il clamore mediatico riservato alla tragedia sociale ed ambientale dell’ILVA di Taranto, in cui lavoro e salute sono alternative tra cui scegliere, in base ad un odioso e ormai diffuso ricatto che subordina il diritto alla salute al bisogno di un lavoro.
Per affrontare seriamente e in maniera integrata crisi economico-occupazionale e crisi ambientale sarebbe in primo luogo necessario affrontare la questione delle delocalizzazioni delle produzioni garantendo la sostenibilità ambientale e sociale dell’intero processo di filiera e ponendo alle imprese vincoli stringenti abbinati a rigidi controlli non solo a livello nazionale. Si hanno effetti perversi in termini ambientali e sociali non soltanto decidendo di delocalizzare le produzioni in paesi lontani e meno forniti di sistemi a garanzia dei diritti e di stringenti normative ambientali. Lo stesso avviene anche da noi, in centinaia di zone più o meno remote del paese, sacrificate alle esternalità ambientali negative dei processi di produzione.
Queste zone testimoniano l’esistenza di dinamiche di «razzismo ambientale», che ha a vedere tanto con la giustizia distributiva (ini- qua distribuzione delle risorse naturali e dei servizi ambientali primari: acqua, aria, cibo non contaminati, ecc.), quanto con la giusti- zia partecipativa. Spesso infatti chi subisce danni ambientali non è in alcun modo coinvolto nelle decisioni riguardanti il proprio territorio.
La categoria del «razzismo ambientale» viene dagli Stati Uniti, dove già dagli anni ottanta venne utilizzata per sottolineare come gli effetti «collaterali» dell’industrializzazione (ad esempio l’inquina- mento da rifiuti) e la discriminazione razziale fossero spesso collega- ti. Nei paesi del Nord del mondo, più che razziale, la discriminazione assume carattere socio-economico: èproprio nei luoghi già svantaggiati da questo punto di vista che vengono concentrati anche fattori di rischio ambientale. Lo stesso sovracitato studio SENTIERI ha confermato tale evidenza affermando che in Italia il 60% della popolazione residente nel perimetro dei SIN appartiene a fasce socioeconomiche svantaggiate.
Altro tema ineludibile per ragionare dell’inevitabilità di un cambio di rotta del modello economico affinché si adatti agli evidenti limiti fisici del pianeta è fornito dalla sfida posta dai cambiamenti climatici. Secondo i dati contenuti nel Report annuale 2014 della WMO - World Meteorological Organization, la concentrazione di Co2 in atmosfera èstata nel 2013 piùalta del 142% rispetto al 1750, prima della rivoluzione industriale: le parti per milione (ppm) di anidride carbonica sono arrivate a 396. Dal 2012 al 2013 la CO2 èaumentata di ben 2,9 ppm, l’aumento annuale maggiore registrato nel periodo 1984-2013. Anche il metano atmosferico nel 2013 ha fatto registrare un nuovo record con concentrazioni di 1824 parti per miliardo (ppb), mentre il protossido di azoto ha raggiunto le 325,9 ppb, a causa soprattutto del massiccio uso di fertilizzanti e dell’implementazione selvaggia delle biomasse.
Fa il paio con tali evidenze il contenuto del V rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), pubblicato nel novembre 2014, che ha riaffermato che la temperatura globale è aumentata di 0,85°C nella bassa atmosfera terrestre dalla fine del XIX secolo e il livello degli oceani è salito di 19 cm. L’impegno necessario a far fronte a questa emergenza non è contrattabile: per provare ad invertire la rotta c’èbisogno, secondo l’IPCC, di ridurre le emissioni globali a effetto serra tra il 40 e il 70 per cento entro il 2050 rispetto al 2010, e scomparire totalmente entro il 2100. Nel 2100 inoltre l’energia da fonti fossili dovrà essere eliminata completamente investendo gradualmente tutte le risorse per incentivare l’uso delle energie rinnovabili.
Questa indicazione cozza con l’esistenza, ancora oggi, di circa 5,3 trilioni di dollari di incentivi alle fonti fossili (pari a 10 milioni di dollari di incentivi al minuto e al 6,5% del PIL mondiale) contro un trilione appena dedicato alla promozione delle energie rinnovabili.
Ma pianificare azioni per rispondere alla sfida climatica riconvertendo l’economia in senso ecologico vuol dire non soltanto agire sul piano ambientale ma anche su quello economico. Secondo il rap- porto diffuso nel 2014 dalla Global Commission on the Economy and Climate, presieduta da Nicholas Stern, economista britannico già capo economista della Banca Mondiale (autore del famoso Rap- porto Stern che nel 2006 calcològli impatti economici del cambiamento climatico avvertendo che avrebbero comportato danni per l’economia globale equivalenti a una perdita complessiva del 20% del PIL), la sfida al clima si può vincere non rinunciando alla crescita. Il rapporto afferma che per un’azione efficace occorrerebbe anzi- tutto azzerare i sopra citati sussidi alle fonti fossili. Allo stesso modo, occorrerebbe pensare le infrastrutture previste nei prossimi 15 anni, per un totale stimato di 90.000 miliardi di dollari di investimenti, in un’ottica low carbon. Questo comporterebbe una spesa di circa 270 miliardi di dollari in più l’anno, che sarebbero però compensati dalla minor dipendenza dai fossili oltre che dal risparmio in sanità pubblica. La percentuale di PIL che i 15 paesi che emettono più CO2 spendono per i danni sanitari causati dall’inquinamento atmosferico èinfatti pari a ben il 4%.
Entrando nello specifico dei settori economici più rilevanti, tra le principali cause degli stravolgimenti climatici compaiono cementificazione, produzione di energia da fonti fossili e modello agroalimentare intensivo.
Sul primo fronte, l’ultimo rapporto ISPRA sul consumo di suolo denuncia che nel corso del 2014 l’Italia ha perso 21 mila km quadrati di terreno per via della cementificazione, che in soli 5 anni hanno causato l’emissione di 5 milioni di tonnellate di carbonio oltre che gravi conseguenze in termini di dissesto iidrogeologico.
Sul secondo fronte, l’apertura e l’ampliamento di nuove frontiere estrattive, off shore e in shore, l’utilizzo ancora tutt’altro che residuale del carbone e la centralità del gas nel mix energetico denotano, in Italia come altrove, un insufficiente impegno nella lotta ai cambiamenti climatici e, di pari passo, nel percorso verso un’economia low carbon. Confermando la linea indicata nella SEN - Strategia Energetica Nazionale 2012 di Passera e Clini, anche gli ultimi provvedimenti governativi, tra cui spicca il decreto Sblocca Italia, poi convertito in legge con doppio voto di fiducia, non segnano alcuna discontinuità rispetto al passato. Raddoppiare i livelli estrattivi di idrocarburi; aprire nuovi fronti petroliferi in zone di altissimo valore naturalistico e turistico; implementare tecniche estrattive non convenzionali; puntellare il paese da nord a sud di imponenti e impattanti infrastrutture energetiche come oleodotti, gasdotti, elettrodotti spesso in aree ecologicamente preziose o altamente sismiche è il cuore della strategia energetica del Bel Paese e non va certo nella direzione del superamento delle fonti fossili.
Per quanto riguarda l’agricoltura, i processi di produzione industriale (allevamenti intensivi e generi alimentari per la grande distribuzione) sono responsabili a livello globale di una grande fetta delle emissioni totali di gas serra, stimata tra il 43 e il 57% (dati UNCTAD 2013). Di tale percentuale il settore agricolo in senso stretto copre il 15% mentre il resto è da imputare alla deforestazione necessaria ai metodi di produzione intensiva oltre che a trasformazione industriale, trasporto e vendita dei prodotti. In Italia la situazione èmigliore rispetto ai dati UE: con 814 tonnellate per ogni milione di euro prodotto dal settore, il sistema agricolo nazionale emette il 35% di gas serra in meno della media UE (dati Coldiretti). Tuttavia, molto ancora può essere fatto per rendere l’agricoltura non solo meno impattante, ma centrale nel presidio ambientale dei territori e nel disegno di orizzonti di reale conversione ecologica. Contrastare i modelli di produzione intensiva e le monocolture, evitare il più possibile l’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti, sostenere pratiche agricole tradizionali e biologiche, dimensionare la filiera sul livello locale sono ricette universalmente riconosciute per una efficace azione in tal senso.
Tema a sé stante riguarda gli sprechi alimentari: tra prodotti agri- coli non raccolti (1,4 milioni di tonnellate), sprechi durante i pro- cessi di trasformazione (2 milioni di tonnellate) e spreco nella distribuzione commerciale (300 mila tonnellate) il bilancio nazionale segna un punto nero. Nel documento «Perdite e sprechi alimentari.
I numeri del fenomeno» il sito del Ministero per l’Ambiente riporta i consumi energetici e le emissioni di gas serra dovuti a tali sprechi: «il 15% del consumo totale di energia èimputabile alla filiera agro- alimentare. Allo stesso tempo altra energia viene utilizzata per smaltire ingenti quantità di rifiuti, scarti e sprechi. Secondo Il libro verde degli sprechi alimentari in Italia circa il 3% dei consumi finali di energia (l’equivalente dei consumi finali di 1.650.000 italiani) è attribuibile allo spreco alimentare dal campo alla tavola. In Italia lo spreco alimentare dal campo alla tavola corrisponde a circa 3,6 milioni di tonnellate all’anno (dati LMM, 2011) e comporta l’emissione di circa 3,4 milioni di tonnellate di CO2eq (oltre 5 considerando anche le emissioni legate allo smaltimento dei relativi rifiuti)» (elaborazione dati: Università di Bologna).
Oltre al dato ecologico ed economico (nel 2013 in fumo l’1,19% del PIL), sprecare tale quantità di alimenti in una fase di profonda crisi economica caratterizzata da un ricorso progressivamente maggiore agli enti caritatevoli da parte delle fasce più vulnerabili della popolazione, dimostra come ormai le questioni sottese alle grandi battaglie ambientali e la rivendicazione di equità e giustizia sociale siano divenute inscindibili.
Ulteriore argomentazione da approfondire nella ricerca di una prospettiva di conversione economica di lungo periodo, è la critica al green washing ampiamente utilizzato da molte imprese. Poiché green non vuol dire automaticamente «giusto», da un punto di vista ambientale la riconversione dovrebbe misurare il grado di giustizia ambientale e sociale presente tanto nel processo come nel prodotto.
Per questa ragione, la transizione ecologica va pianificata in ogni fase della filiera produttiva. Ogni filiera generalmente presenta quattro fasi: la produzione, la distribuzione, il consumo, lo smaltimento. Se èvero che un prodotto può considerarsi «ecologicamente sostenibile», non possiamo sempre dire lo stesso del processo, che in ogni sua fase può presentare gravi contraddizioni ambientali, a partire dall’approvvigionamento della materia prima.
Oltre a ciò, molto spesso dietro l’implementazione di progetti etichettati come «economia verde» si nascondono le stesse logiche di accaparramento e accumulazione di profitto che sono alla base delle sperequazioni causate dal modello capitalista. Molti di questi pro- getti non apportano alcun beneficio economico o sociale alle comunità coinvolte, ma anzi contribuiscono spesso a compromettere ulteriormente la qualità della vita e il futuro del territorio. Un esempio su tutti è fornito dall’invasione di migliaia di ettari di terreni agri- coli in Salento (Puglia), zona a vocazione turistica ed agricola, con mega impianti di pannelli fotovoltaici in assenza della benché minima pianificazione energetica. I risultati: vaste aree di terreno sottratto all’agricoltura, nessun beneficio economico, nessuna redistribuzione del reddito che invece potrebbe (e dovrebbe) essere alla base di una conversione energetica fondata sullo stravolgimento dei modelli di produzione verso la generazione distribuita e non accentrata, oltre che sul cambiamento delle fonti di approvvigionamento. Questi meccanismi sono agevolati spesso da sistemi incentivali pensati per favorire i grossi gruppi economici anziché il raggiungimento altri obiettivi come, ad esempio, l’autoproduzione di energia per usi domestici.
Delle crisi sin qui delineate che ci troviamo congiuntamente ad affrontare, soltanto una è al centro delle preoccupazioni e del dibattito politico: quella economico-finanziaria. Mantra conseguente ed inevitabile: la necessità di riprendere la dorata via della crescita. Ne parlano politici, associazioni di categoria, imprese, banche e istituzioni europee, sottolineando che èirrinunciabile garantire competitività alle aziende, non importa se a costo dei diritti dei lavoratori e di impatti ambientali per nulla trascurabili. Del tutto assenti dal dibattito politico sono, invece, le preoccupazioni circa la palese incompatibilità ambientale del sistema economico e le sue conseguenze.
Di fronte a questa colpevole incapacità e all’enormità di queste sfide, è palese la necessitàdi mettere in campo una risposta complessiva, in grado di rispondere non ad una soltanto, ma alle diverse esigenze che lo scenario pone. In tal senso, il quadro di riferimento cui orientare politiche industriali ed energetiche non può che essere quello, complesso e strutturato, della conversione ecologica, in cui giustizia sociale e ambientale devono essere, come accennato, addendi inscindibili verso la costruzione di un modello economico e sociale sostenibile, redistributivo, equo e fondato sui diritti.
Investire nella riconversione ecologica del modello vuol dire implementare strumenti (normativi, finanziari e tecnologici) in grado di sostenere una transizione concreta che investa tutti gli aspetti del ciclo produttivo: dall’approvvigionamento energetico a cosa pro- durre, dai cicli di produzione alla catena di forniture, dal trasporto alla scelta del bacino dei consumatori.
Vuol dire riterritorializzare le produzioni, sostenere le economie locali, accorciare le distanze tra produzione e consumo, aiutare le pic- cole e medie imprese a ridurre il loro impatto senza essere penalizzate da costi di produzione non competitivi. Vuol dire, ancora, for- mare permanentemente i lavoratori, recuperare gli spazi in ddegrado a fini produttivi o di fornitura di servizi alla cittadinanza, valorizzare le esperienze di transizione esistenti, metterle a sistema, incentivare canali per creare domanda su beni prodotti senza impronta devastante sull’ambiente.
Resta chiaro che, pur di fronte all’evidenza di un cambio di modello necessario, impostare scenari di transizione ecologica rimane questione di volontà politica. E, per farlo, come direbbe Langer, occorre procedere attraverso «utopie concrete» che mettono insieme l’idea della trasformazione radicale con la coerenza e la concretezza delle situazioni che man mano andiamo ad incontrare.
Fonte: Ecologia politica
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