La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 11 febbraio 2016

Le tante Americhe che non sappiamo vedere







di Tiziano Bonazzi
L’America. Ne parliamo sempre al singolare, la way of life dell’America, il bellicismo dell’America, il consumismo dell’America; ma non c’è nulla più delle primarie che ci aiuti a capire quanto gli Stati Uniti (guarda caso un plurale!) siano diversificati e disomogenei: un geyser eruttivo che a brevi intervalli esplode. Se sembra il contrario è che a contenere quel subbuglio vi è un nazionalismo messianico, vera religione in cui hanno riparo tutti gli interessi di un capitalismo radicale. Nazionalismo e capitalismo paiono rendere uno un Paese che è tutto tranne che uniforme.
Le primarie sono democrazia dal basso, però retta da un intrico di leggi statali diverse fra loro e di regolamenti di partito mai uguali. In alcuni Stati occorre dichiararsi in anticipo elettori di un partito, in altri si può scegliere il giorno stesso dell’elezione, i delegati dello Stato alla Convenzione nazionale possono andare tutti al vincitore o essere divisi in proporzione ai voti presi dai candidati.
Poi ci sono i caucus, come in Iowa, dove gli elettori di un partito si riuniscono in una miriade di sedi, discutono e votano; ma in quelli Democratici dell’Iowa non si vota, ci si divide in gruppi di sostenitori e con un complicato sistema vengono assegnati ai candidati non voti, ma cifre di «delegati equivalenti». Vi è anche un livello nazionale tutto mediatico, spasmodicamente attento alle tambureggianti public opinion polls e a ogni mossa dei candidati, esaltati o abbattuti come in una speculazione di borsa al rialzo o al ribasso. Ne deriva che le primarie di piccoli Stati come lo Iowa (3.000.000 circa di abitanti) o il New Hampshire (neppure 1.500.000) assumono un’importanza politica al di là del numero di delegati nazionali in gioco; mentre le loro peculiarità – gli evangelici del primo, gli indipendenti del secondo – diventano anticipazioni di come si potranno muovere i grandi blocchi etnici, geografici, di classe, di genere, di età del paese.
I risultati di Iowa e New Hampshire indicano che il geyser americano si è rimesso in moto. Era già successo nel 1980 e si era ripetuto nel 2000 con la rivoluzione neoconservatrice di Reagan e quella del conservatorismo compassionevole di Bush jr., aiutate dal trionfale ritorno sulla scena politica dei cristiani evangelici. Una rivoluzione che aveva seppellito gli anni Sessanta ed esaltato il capitalismo liberista; ma il cui fervore fideistico era stato virato dalle classi dirigenti dei partiti a favore, con accenti diversi, degli interessi delle rispettive élite, l’establishment. I due candidati che si impongono oggi all’attenzione, Donald Trump e Bernie Sanders, sono, si sa, dueinsurgents, espressione della rivolta contro l’establishment accusato di corruzione, quindi di avere gestito a favore delle élite la crisi economica e, infine, di aver tradito la grandezza dell’America con guerre come quella dell’Iraq o con l’incapacità di far fronte a Putin e al radicalismo islamico.
Trump e Sanders cercano la nomination dei due partiti storici chiamandosi al tempo stesso fuori dalla loro classe dirigente e intendono esprimere le istanze contraddittorie che ribollono nella pancia del Paese. Socialista l’uno, conservatore l’altro, in realtà newdealista il primo e per nulla conservatore agli occhi degli ideologi repubblicani il secondo. Li si definisce populisti, un termine che sta fra lo stupido e il romantico, ma che indica qualcosa di pericoloso. E il pericolo esiste. È nella rivolta dei tanti giovani chiusi in lavori sottoremunerati e schiacciati dai debiti contratti per poter studiare. È nelle masse di lavoratori part-time non solo delle minoranze etniche che con due o tre impieghi vanno avanti a stento. È in una classe media che non ce la fa a mantenere gli standard di vita di un tempo e le cui fasce più deboli rischiano di precipitare nella povertà. È nei latino, arrabbiati per l’emarginazione e la minaccia di espulsione di milioni di illegali; ma anche nei tanti fra le tute blu e gli anziani che temono la contaminazione etnica e culturale dell’America bianca. È nei molti che vedono il baratro della corruzione morale nell’accettazione dei gay, dell’aborto o della crescente visione laica della vita. È nei nazionalisti profetici che temono l’America diventi una nazione come le altre, incerta, divisa, incapace di imporre la sua libertà a un mondo asservito. Tutti sono in rivolta contro le classi dirigenti.
È per questa rivolta che Hillary Clinton pare falsa, manovriera, legata ai peggiori interessi e ai supponenti wine Democrats intellettuali sia da tante donne che dai beer Democrats, i lavoratori che votavano Obama. Così come non sfondano i candidati dell’establishment repubblicano quale Jeb Bush. Sfondano, invece, i candidati che appaiono «veri», che sfidano il politically correct di entrambi i partiti. Sanders osa dirsi «socialista», una bestemmia quasi da sempre, Trump afferma che potrebbe sparare a qualcuno in mezzo alla Quinta Strada senza perdere un voto perché lui è true, autentico. E al momento non ne perde, come non ne perde Sanders. Probabilmente l’establishment riprenderà il controllo quando si passerà agli stati più rappresentativi, forse la Clinton e un Kasich o un Rubio riusciranno ad agganciare alcune delle istanze della pancia del Paese. Quel che appare certo è che gli Stati Uniti sono spaccati perché sono nel vortice di trasformazioni epocali e a queste – accettandole o domandole – le elezioni presidenziali dovranno dare risposta.

Fonte: Rivista Il Mulino 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.