di Michele Martelli
L’autorevole giudizio di Scalfari su “Repubblica” del 2 Ottobre scorso, che nel match televisivo Renzi-Zagrebelsky assegna la vittoria a Renzi per 2-0, proprio perché autorevole, quindi influente sull’opinione pubblica, merita qualche riflessione. Debbo dire in via preliminare che l’applicazione di una metafora sportivo-calcistica ad un dibattito che concerne la riforma costituzionale, dunque non la squadra del cuore, ma i fondamenti stessi della nostra convivenza politica e civile, nata dalla Resistenza, mi lascia a dir poco perplesso. Mi meraviglia che anche un giornalista e scrittore del calibro di Scalfari ne faccia uso.
La metafora sportiva è in questo caso, a mio parere, inappropriata, se non fuorviante, perché la vittoria della squadra per cui si tifa non sposta ovviamente di una virgola i rapporti di potere politici, economici e sociali vigenti, la vittoria del “sì” o del “no” ad un referendum costituzionale invece sì, eccome!
La metafora sportiva è in questo caso, a mio parere, inappropriata, se non fuorviante, perché la vittoria della squadra per cui si tifa non sposta ovviamente di una virgola i rapporti di potere politici, economici e sociali vigenti, la vittoria del “sì” o del “no” ad un referendum costituzionale invece sì, eccome!
E veniamo al dunque!
I due punti favorevoli a Renzi riguarderebbero l’Europa e il rapporto tra democrazia e oligarchia. Sorvolo sul primo punto. Basta dire che l’Europa di Renzi è quella dell’austerità e della distruzione del welfare, la stessa di Monti, Fornero e Passera. Ovvero della Troika e dei poteri forti. L’attacco alle pensioni minime e l’abolizione dello Statuto dei lavoratori ne sono forse il simbolo principale, e più drammatico. Per non parlare dello smantellamento graduale della scuola e della sanità pubblica (vedi, tra l’altro, le condizioni penose dei Pronto soccorso e delle guardie mediche). Se quella di Renzi è una politica europeistica, è anche incostituzionale: l’europeismo austeritario e neoliberista si oppone infatti frontalmente alla nostra Costituzione democratica del ’48, che non a caso Renzi vuole (contro)riformare.
Sul secondo punto, l’ex presidente della Corte costituzionale avrebbe perso per essere incorso in un imperdonabile errore teorico e storico. Una roba da matita rossa! Ha accusato la riforma renziana di rischio di deriva oligarchica, ignorando che: A) «l’oligarchia è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono salvo la cosiddetta democrazia diretta», quella oggi invano sognata dai 5 Stelle; insomma, «oligarchia e democrazia sono la stessa cosa»; B) «l’oligarchia è la classe dirigente, a tutti i livelli e in tutte le epoche»; perciò, conclude Scalfari, «caro Zagrebelsky, ti sbagli quando dici che non ti piace Renzi perché è oligarchico. Magari lo fosse ma ancora non lo è»; e non lo è perché non ha ancora intorno a sé una vera «classe dirigente», cioè oligarchica.
Scalfari accenna in apertura alle sue meditate letture dei grandi classici della politica. Ora, per quanto riguarda il punto A), oltre qualche classico, mi son preso la briga di consultare sull’argomento gli scritti teorico-politici di Norberto Bobbio, ma di quell’identificazione non trovo traccia. Nemmeno nella Treccani. Tra i due termini, trovo invece solo differenza e opposizione, sotto l’aspetto sia quantitativo, numerico sia qualitativo, valoriale. In Platone, Aristotele e Polibio oligarchia è non solo «governo dei pochi», ma «della ricchezza e della corruzione», in contrapposto a democrazia «governo dei molti», ma anche «dei poveri e non possidenti»: comunque giudicata sul piano valutativo, la democrazia non è oligarchia.
Nel pensiero politico moderno, l’oligarchia, quando raramente compare, ha sempre l’accezione negativa di cattiva forma di governo, autoritaria e autoreferenziale, senza base popolare. In Kelsen, che oppone potere dall’alto e potere dal basso, autocrazia e democrazia, l’oligarchia non è che una manifestazione di autocrazia, cioè l’opposto di democrazia, diretta o rappresentativa che sia. Ma poiché la democrazia, finché è diretta, richiede la partecipazione di tutti, e perciò non può essere oligarchia, dove il potere è di pochi, l’equivalenza scalfariana si riferisce dunque alla democrazia rappresentativa?
Eccoci al punto B). Non c’è dubbio che ogni forma di rappresentanza esige una delega, ridotta e temporanea, di poteri dai molti ai pochi. Se i pochi servono gli interessi dei molti, o del popolo, di cui sono servitori (questo vuol dire la parola ministro, amministratore, delegato, deputato), allora si resta nella sfera della democrazia, dove il potere appartiene ai molti, ovvero dove, come dice la nostra Costituzione, la sovranità appartiene al popolo. Se invece i pochi si contrappongono ai molti, al popolo, allora e solo allora si trasformano in oligarchi, ossia, come hanno chiarito gli antichi, in difensori e portatori degli interessi dei ricchi e dei corrotti, dei quali diventano parte integrante. L’equivoco sta nella famosa «legge ferrea dell’oligarchia», teorizzata da Robert Michels nel 1911, nonché nelle teorie dell’elitismo di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, che potrebbero essere gli impliciti punti di richiamo di Scalfari.
Ma è proprio vero che gli eletti, i rappresentanti, i governanti, i gruppi dirigenti ad ogni livello e in ogni epoca degenerano inevitabilmente in èlites staccate e contrapposte ai propri elettori, rappresentati, governati, diretti? O non si tratta forse di teorie, peraltro ideologicamente reazionarie, legate alla loro epoca, in cui le masse non erano ancora sufficientemente analfabetizzate, acculturate, politicizzate? Di «ferreo», cioè di inevitabile e assoluto, in politica come nella storia, non c’è nulla.
Stiamo certamente vivendo oggi, da Berlusconi in poi in Italia, ma con altri torvi protagonisti anche altrove, a causa della perdurante crisi economica e del trionfo del neoliberismo selvaggio, un’epoca di aspro conflitto tra la democrazia e l’oligarchia. La democrazia, il potere dal basso, l’autonomia e il principio di rappresentatività degli organismi legislativi, malvisti e osteggiati dalla Troika, dal grande capitale e dalla finanza internazionale, appaiono sempre più limitati, ridotti, svuotati e se possibile sostituiti da forme di potere dall’alto, elitario e autoritario, oligarchico per l’appunto.
Di questo conflitto, che vede ovunque i sistemi democratici arretrare sotto l’attacco delle nuove cricche oligarchiche del finanzcapitalismo globale, l’Italicum e la controriforma costituzionale renziana sono oggi in Italia anelli importanti. Se Renzi vince, è il popolo che perde.
Fonte: Micromega online
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