di Fulvio Scaglione
Per i non americani, ovvero per il mondo, la parabola politica di Barack Obama è compresa tra due discorsi. Quello svolto al Cairo il 4 giugno 2009, pochi mesi dopo essere entrato alla Casa Bianca, e quello svolto all'assemblea generale delle Nazioni Unite, il 20 settembre 2016, pochi mesi prima di uscire dalla Casa Bianca. Al centro dei due discorsi, non a caso, il Medio Oriente, che è stato l'oggetto delle maggiori preoccupazioni del 44° presidente degli Stati Uniti, come dimostrano anche i più recenti eventi: per esempio, la legge detta Jasta (Justice against Sponsors of Terrorism Act) che il Congresso ha approvato dopo un anno di lavori. Consente a chi ha subito un danno fisico o patrimoniale o la morte di un parente per atti di terrorismo di portare in tribunale lo Stato ritenuto responsabile.
Obama ha posto il veto, temendo che la legge generi una sequela di cause contro l'Arabia Saudita per gli attentati dell'11 settembre. Il Congresso, con una maggioranza schiacciante (97 voti contro 1 al Senato, 348 contro 77 alla Camera), ha votato per annullare il veto presidenziale.
Obama ha posto il veto, temendo che la legge generi una sequela di cause contro l'Arabia Saudita per gli attentati dell'11 settembre. Il Congresso, con una maggioranza schiacciante (97 voti contro 1 al Senato, 348 contro 77 alla Camera), ha votato per annullare il veto presidenziale.
Medio Oriente e affini, dunque, nel destino di Obama. Destino che si è rivelato impari alle forse troppo grandi aspettative. Per cominciare, Obama ha ereditato due situazioni delicate e complesse come quelle dell'Afghanistan e dell'Iraq. Le ha gestite in maniera opposta: nel 2011 ha decretato il ritiro immediato delle truppe americane dall'Iraq, nel 2016 (ma con una decisione maturata già nel 2015) si è rassegnato a prolungare la permanenza delle truppe in Afghanistan.
Nell'uno come nell'altro caso, il bilancio è disastroso. L'esercito iracheno, addestrato appunto dagli americani, si è sbandato in un attimo di fronte all'Isis e solo ora, due anni dopo, sta faticosamente recuperando terreno grazie all'appoggio aereo occidentale e alle milizie popolari addestrate e dirette dagli iraniani. L'Afghanistan ha ingoiato migliaia e migliaia di vite, anche di soldati Usa, ma i talebani sono più forti che mai e il primo semestre di quest'anno, secondo i dati Onu, ha fatto segnare il record di civili morti (tra i quali un migliaio tra donne e bambini) a causa di atti di violenza.
Il 2011 è anche l'anno in cui la Casa Bianca di Obama si è lasciata coinvolgere nella guerra contro la Libia di Muhammar Gheddafi lanciata dalla Francia di Nicolas Sarkozy e dalla Gran Bretagna di David Cameron. Gli effetti di quel conflitto sconsiderato sotto tuttora sotto gli occhi di tutti, in forma di conflitti tra le diverse fazioni e tribù, tracollo del Paese, ondate incontrollate di migranti verso l'Europa. Nella primavera di quest'anno, in una famosa intervista all'Atlantic, Obama ha confessato di ritenere l'attacco alla Libia il suo “peggior errore”, commesso per essersi troppo fidato appunto di Francia e Gran Bretagna. Ma che una potenza come quella americana vada in guerra “sulla fiducia” è poco credibile.
Quello è anche il periodo delle Primavere Arabe, è anche qui il dossier di Obama è almeno controverso. In Egitto la sua amministrazione ha appoggiato la scalata (pur democratica) al potere dei Fratelli Musulmani, subendo politicamente le nuove proteste di piazza e il “ritorno” dei militari; in Bahrein, al contrario, ha appoggiato la repressione della casata Al Khalifa e l'intervento dell'esercito dell'Arabia Saudita, che ha soffocato nel sangue le proteste di chi chiedeva più democrazia.
Per la Primavera della Siria, invece, Obama ha scelto una terza via: ostilità immediata alla reazione violenta di Bashar al-Assad, via libera alle manovre delle petro-monarchie del Golfo Persico e ai finanziatori dell'Isis, copertura totale a Erdogan e alla Turchia nemica del Governo siriano, pragmatismo in Iraq dove l'influenza dell'Iran era diventata evidente. La speranza, nemmeno nascosta, era che i ribelli siriani di ogni genere abbattessero il regime di Assad, avviando la Siria a una spartizione tra regimi amici degli Usa o tra nuove entità comunque controllabili e influenzabili. L'intervento militare della Russia, alleata dell'Iran e dell'Hezbollah libanese, ha fatto saltare il piano. E Obama non è più riuscito a recuperare l'iniziativa, né sul piani militare né su quello politico.
Il bombardamento con cui le forze aeree americane, dopo il raggiungimento di un accordo di tregua con la Russia, hanno colpito “per errore” una guarnigione siriana invece delle milizie dell'Isis nell'area di Deir Ezzor, ha fatto pensare che il Presidente uscente debba ormai confrontarsi anche con una silente insubordinazione dei suoi generali. Sensazione accresciuta dalle ammissioni del segretario di Stato John Kerry, che ha “confessato” di essere stato a favore di un'escalation militare americana in Siria, bloccata invece dal Presidente.
Nessun risultato, peraltro, sul fronte di Palestina e Israele. Nel 2009, al CairoObama disse: “L'unica soluzione per le legittime aspirazioni delle due parti è la costituzione di due Stati in cui israeliani e palestinesi possano vivere in pace e sicurezza. E' nell'interesse di Israele, della Palestina, dell'America. Per questo intendo perseguire questo obiettivo con tutta la pazienza che esso richiede”. Oggi la soluzione dei due Stati è più lontana che mai e nel suo ultimo discorso all'Onu Obama ha quasi evitato l'argomento, limitandosi a poche righe di prammatica. Memore forse di essere stato pubblicamente umiliato dal premier israeliano Bibi Netanyahu, che nel marzo del 2015, in un estremo tentativo di sabotare l'accordo con l'Iran, andò al Congresso ad attaccare la Casa Bianca.
La grande vittoria in Medio Oriente, l'unica, di Obama, è stata appunto il raggiungimento dell'accordo con l'Iran sul programma nucleare nel 2015. Oltre a disinnescare un pericoloso focolaio di tensione, l'accordo ha riportato sulla scena del mondo un Paese come l'Iran che, nel bene e nel male, può esercitare una forte influenza su tutta la regione. Vittoria che Obama ha però pagato a caro prezzo. Il rapporto con Israele, che ha preteso di essere “risarcito”, si è ulteriormente sbilanciato. Gli Usa fanno oggi da bancomat al broncio dello Stato ebraico.
Per non parlare di quello con l'Arabia Saudita, altro Paese che ha fortemente criticato l'accordo con l'Iran. Non è un caso se Obama, forse anche nel tentativo di proteggere la futura presidenza democratica di Hillary Clinton, ha chiuso il suo secondo mandato combattendo una battaglia disperata pro sauditi, anche se non v'è politico o studioso serio che non sappia quanto da decenni essi fanno per promuovere il radicalismo islamico e il terrorismo sunnita.
D'altra parte l'amministrazione Obama ha venduto ai Paesi del Medio Oriente, soprattutto ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, più del doppio delle armi che furono vendute all'epoca della presidenza Bush. Un dato meno palese ma non meno importante per giudicare l'azione del Presidente in una regione del mondo che, con lui alla Casa Bianca, ha ulteriormente peggiorato la propria condizione.
Fonte: Micromega online
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