La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 7 ottobre 2016

Ancora tagli ai dottorati, ma lo spot di Renzi è sui cinquecento “Superprof”

di Roberto Ciccarelli 
Dal 2014 a oggi il governo Renzi ha tagliato il 18% dei dottorati di ricerca, il primo passo per iniziare una carriera di ricercatore in Italia. Il taglio è stato provocato dalle linee guida per l’accreditamento che hanno imposto un vincolo del 75% delle borse di studio, si è aggiunto a quello ben più cospicuo provocato dal taglio lineare al fondo di finanziamento ordinario degli atenei voluto dal governo Berlusconi nel quadro della dismissione programmatica dell’istruzione e della ricerca in Italia: dal 2008 la scuola ha perso 8,4 miliardi e l’università 1,1. In quel caso i dottorati sono crollati del 16%.
NEGLI ULTIMI DIECI ANNI il nostro paese ha perso il 44,5% dei posti, passando dai 15.733 del 2006 agli 8.737 del 2016. La fotografia, impietosa e realistica, della ricerca scattata dall’Associazione dottorandi di ricerca italiani (Adi) nella VI indagine presentata ieri alla Camera è un’occasione per riflettere anche sulla strategia adottata dall’esecutivo per reagire alla sostanziale liquidazione del settore. Basta un dato: a fronte dei circa 1800 pensionamenti annui dei docenti in cattedra, meno di mille ricercatori dovrebbero andare in ruolo. Anche nella prossima legge di bilancio dovrebbe esserci spazio per i «ricercatori di tipo B», non ancora «strutturati» dunque ma con qualche speranza di essere assunti. Per esserlo dovrebbero esserci però i fondi che sono stati tagliati, e non più rifinanziati dal governo.
CHI OGGI ha una speranza di «entrare in ruolo» tra gli assegnisti di ricerca (un grado superiore di precariato rispetto al dottorato) sono 6 persone su 10. Bloccato a monte e a valle il sistema della ricerca ha subìto una «compressione selettiva» e ha rafforzato la sperequazione territoriale tra gli atenei. Solo dieci atenei, otto sono al Nord, chiamano il 42% dei dottorati residui in tutto il paese. A Sud, invece, continua la riduzione: dal 27,7% al 21,7%. Solo la Federico II di Napoli sembra ancora resistere. Ulteriore sperequazione è stata registrata sulla concentrazione territoriale dei ricercatori a tempo determinato – nel gergo universitario definiti «di tipo A»: il 50,3% lavora in cinque regioni: Lazio, Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Toscana. Nei fatti, è la liquidazione dell sogno costituzionale di un’istruzione pubblica, e di massa, universale e la cristallizzazione delle divisioni del paese.
L’INDAGINE DELL’ADI si sofferma anche sulla condizione paradossale del dottorando: per una solida tradizione idealistica, e classista, questa attività – come tutte quelle di ricerca precaria – non è mai stata considerata come un lavoro (al contrario di quanto accade in altri paesi). Questo significa che quando un ricercatore finisce la sua borsa non ha diritto alla disoccupazione, anche se ha versato i suoi contributi alla gestione separata dell’Inps. Nel 28,3% dei dottorandi con borsa esiste l’incompatibilità con altre attività retribuite. Spetta al coordinatore decidere caso per caso. Poi c’è lo scandalo, tutto italiano, dei dottorati senza borsa: chi vince il concorso è costretto a pagarsi gli studi.Nonostante le proteste che si sono intensificate negli ultimi tempi con uno “sciopero alla rovescia”, al legislatore non è mai passato per la testa che l’autonomia della ricerca passa dal suo riconoscimento come lavoro e da quello dei diritti sociali dei ricercatori. Per chi sostiene, anche gratuitamente, le attività didattiche e di laboratorio è un segnale chiaro: chi fa ricerca se lo deve permettere e la precarietà la paga la famiglia.
IL GOVERNO HA AGGIRATO IL PROBLEMA dando fondo alla retorica della meritocrazia di Stato: procederà alla chiamata diretta di 500 docenti e garantirà 1,5 miliardi di euro in dieci anni allo «Human Technopole» di Milano, un progetto definito «improvvisato» dalla senatrice a vita Elena Cattaneo. Il dado è tratto: liquidare l’università pubblica, la ricerca di base, premiare i poli di «eccellenza» in maniera arbitraria.


Fonte: Il manifesto 

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