di Michele Dantini
Ecco che finalmente ci viene incontro il libro su Lonzi che da tempo attendevamo, nutrito dei risultati di innumerevoli ricerche parziali e al tempo stesso capace di fare ordine in una biografia tanto illustre quanto lacunosa. Un margine che sfugge di Iamurri ha meriti meticolosi e molteplici: rivela quell’assiduità di ricerca e documentazione che Lonzi stessa confidava di apprezzare sopra ogni altra cosa in una lettera a Marisa Volpi del settembre 1956.
Da dove iniziare? Un’acquisizione tra le più importanti del libro è quella relativa al contributo che Longhi dà all’attività critica di Lonzi. Non mi riferisco qui alla semplice e prevedibile constatazione di un’«influenza» del maestro sull’allieva ma a impulsi specifici, che Iamurri ricostruisce con precisione. Strumenti d’indagine, lessico e dizionario: per Lonzi la critica d’arte è in primo luogo la messa a punto di una lingua duttile e perspicace, chiara, aderente ai documenti figurativi. Come non riconoscere, dietro questo precoce assioma lonziano, l’insegnamento delle Proposte per una critica d’arte di Longhi, e in particolare la rivendicazione della critica come «attività letteraria»? D’altra parte Lonzi sa bene che per Longhi l’«attività letteraria» non è alcunché di belletristico, ma un’autodisciplina linguistica orientata a una migliore comprensione delle opere d’arte, o per meglio dire alla traduzione «acconcia» del visivo nel verbale. È un’euristica: non un esercizio di stile.
Una seconda circostanza su cui Iamurri si sofferma utilmente è quella relativa alla fortuna italiana di Duchamp: un artista che per Lonzi diviene via via più esemplare a partire dal 1960, e l’aiuta a comprendere in profondità le motivazioni che spingono gli artisti a distaccarsi dalle tecniche tradizionali. L’interesse per Duchamp non si accompagna in Lonzi a un futile culto della derisione o del «tradimento», ma la conferma invece nei propositi di «autenticità»: la «vita» prende per lei adesso il posto dell’«opera» e dissolve la necessità del «mestiere» - così di artista come di critico o di curatore «professionale». Sul finire del decennio, al momento di prendere congedo dalla critica d’arte, Lonzi sembra rispecchiarsi ancora una volta nella vicenda biografica di Duchamp, lei stessa associata a un clamoroso rifiuto (della pittura) e a quella «smitizzazione» del mito patriarcale del «genio» che le sta più a cuore.Potremmo persino pensare che l’Autoritratto apparso nel 1969 non sia altro, agli occhi dell’autrice, che una vasta e ambiziosa opera d’arte community-oriented, documento «immateriale» di «relazioni» redente dal Dominio, etiche e estetiche insieme. A questa data ormai Lonzi sa bene che le parole, intese come pegno di «autenticità», possono sostituirsi alle immagini o, come in Giulio Paolini, generarne esse stesse.
Se l’antagonismo tra visivo e verbale caratterizza la prima fase dell’attività di Lonzi, un secondo antagonismo si dispiega invece attorno alla metà degli anni Sessanta: l’oralità scende in battaglia contro la scrittura. In modo del tutto convincente, Iamurri rinvia all’etnomusicologia contemporanea – e implicitamente a protocolli scientifici postcoloniali, distintivi della ricerca sulle comunità subalterne – per spiegare l’origine della registrazione con il magnetofono. Registrazione che poi, trascritta e montata, dà vita a quel particolare tipo di testo rapsodico e asintattico che troviamo nei Discorsipubblicati su Marcatré e in Autoritratto. Pressoché superfluo osservare che la preferenza accordata al parlato ha qui per Lonzi pungenti implicazioni critico-istituzionali. «Homo sanza lettere», nell’ironica autodefinizione di Leonardo, l’artista parla adesso per così dire in presa diretta, senza necessità di «traduzione».
«Autenticità» è una parola chiave in Lonzi, con «coscienza» e «relazione»; e forse più di queste. È in nome dell’autenticità che Lonzi abbandona la critica d’arte, dopo avere riconosciuto che tra artista e interprete prevalgono relazioni strumentali. Lonzi usa il termine, che ha remote origini heideggeriane, in modi sostanzialistici, quasi come un articolo di fede: e non c’è dubbio che questa sua radicalità, per così dire etico-religiosa, attende di essere indagata nei presupposti taciti.
Non meno cruciale dell’apprendistato esistenzialista si rivela l’antimarxismo di Lonzi, che subentra presto a un’iniziale disponibilità alla «vita di sezione». Questa disposizione ideologica dell’autrice di Autoritratto non è frutto di perplessità o riserve momentanee, come Fossati coglie bene, su NAC, alcuni anni dopo, sia pure al colmo dell’irritazione. Al contrario. Il rifiuto lonziano del «parlare sociologico» è la chiave per comprendere prese di polemiche altrimenti destinate a rimanere semplici aneddoti, a partire ovviamente dalla contestazione di Argan nel 1963 per giungere alla clamorosa damnatio memoriæ di Celant e dell’Arte povera in Autoritratto(evidente che agli occhi di Lonzi la «strategia» celantiana dev’essere sembrata tutt’altro che «eccellente», come pure Iamurri la definisce) e alla proposta,paradossale perché rivolta a un editore impegnato come De Donato, di illustrareAutoritratto con l’immagine di Teresa di Lisieux. Il rapporto tra storia dell’arte e storia pragmatica, «morfologia» e «cultura», immagini e «secolo» non è per niente semplice né pacificato in Lonzi: e occorre forse riconoscere qui una fedeltà di lungo periodo a Longhi, al di là e malgrado contrapposizioni generazionali, politico-culturali e di gender.
Fonte: Alfabeta2.it
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