di David W. Ellwood
Il risultato del referendum su Brexit aggiunge un’altra fonte di complessità alla già movimenta scena politicascozzese. È difficile ricordare una fase nella storia politica britannica contemporanea nella quale tanti equilibri consolidati nel tempo sono stati sconvolti così bruscamente. Nel Parlamento di Londra eletto nel 2010 il Partito nazionale scozzese (Snp) poteva contare su 6 deputati: ora ne ha 56. All’epoca i laburisti – a lungo egemoni in Scozia – disponevano di 41 deputati: ora ne hanno uno solo.
La legge elettorale ideata per il rinato Parlamento scozzese del 1999 – un misto di proporzionale e maggioritario – venne pensata per impedire che un solo partito potesse arrivare alla maggioranza assoluta, ma nel 2011 lo Snp ha superato questa soglia.
La legge elettorale ideata per il rinato Parlamento scozzese del 1999 – un misto di proporzionale e maggioritario – venne pensata per impedire che un solo partito potesse arrivare alla maggioranza assoluta, ma nel 2011 lo Snp ha superato questa soglia.
Dal momento che da molti anni ormai il Partito conservatore manda un solo deputato dalla Scozia a Westminster, il grande sconfitto di questa fase storica è il Partito laburista. I suoi elettori non gli hanno perdonato il sostegno senza riserve alla campagna per mantenere l’unità del Regno Unito nel referendum sull’indipendenza del 2014. Ma hanno constatato anche che, nonostante i laburisti storicamente non siano mai riusciti a formare una maggioranza a Westminster senza i suoi deputati scozzesi, e malgrado sia stato un governo laburista a far rinascere un Parlamento ad Edimburgo dopo quasi 300 anni (dal, 1707, l’anno dell’Unione delle corone inglesi e scozzesi), i leader del partito hanno sempre pensato prima di tutto alla scena londinese (e ai sui media), piuttosto che alle vicende delle terre a nord del Vallo di Adriano. Inoltre la lunga storia del malgoverno delle città e paesi dove il Labour ha sempre amministrato – Glasgow e dintorni soprattutto – ha fatto il resto.
Il «nazionalismo» del partito di Nicola Sturgeon è di tipo civico, piuttosto che etnico, nonostante tutti gli anni e dibattiti dedicati a far rinascere un’idea forte di identità scozzese. Politicamente lo Snp si presenta come un tipico partito socialdemocratico in senso britannico: quindi tanto Welfare State – sanità, scuola, pensioni – e controllo dall’alto, tecnocratico, pragmatico, tendenzialmente burocratico. Le sue idee di governance non hanno niente di originale, e la pratica quotidiana nei settori di competenza del governo scozzese- Welfare, scuola, trasporti, polizia, agricoltura, turismo - ha creato più scontenti che contenti fino ad ora. La signora Sturgeon si difende dando l’impressione che tutto quel che fa è limitato, provvisorio, in attesa della magica giornata in cui la Scozia avrà la piena indipendenza. Ma i sondaggi indicano chiaramente che pochi vogliono rivivere l’esperienza del 2014 nel prossimo futuro. Il grande freno rimane comunque la realtà rappresentata dallo stato dell’economia scozzese.
I conti emersi durante l’estate indicano un buco nel bilancio nazionale di 15 miliardi di sterline. I ricavi dal petrolio del Mare del Nord sono crollati del 97%; migliaia di posti di lavoro in questo settore sono stati persi. La crescita di quest’anno è poco sopra lo zero. Il deficit sarebbe 9.5% del Pil, il peggiore di tutti gli Stati dell’Ue, compresa la Grecia.
I nazionalisti insistono che, liberi dai lacci del Regno Unito, e pienamente inserita nell’Unione europea, la Scozia potrebbe essere un’altra Repubblica irlandese, o un’altra Danimarca o Finlandia. Ma queste nazioni non possiedono un buco nero economico delle dimensioni di Glasgow e dintorni, un’area che comprende 8 su 10 delle zone più disastrate del Paese. Edimburgo è l’unica zona florida, grazie al suo settore finanziario, le sue università, il turismo e il suo ruolo di capitale.
Tutti principali partiti scozzesi senza eccezione si sono dichiarati a favore del Remain nel referendum Brexit. Ogni circoscrizione del Paese ha prodotto la conferma delle ragioni di questa scelta. Una maggioranza più esile – 56% contro 44- ha contraddistinto il risultato nell’Irlanda del Nord. Tutto ciò pone dei problemi di tipo costituzionale molto seri per la classe dirigente di Londra, che si è rivelata del tutto impreparata ad affrontare la situazione. Radicalmente avversa da sempre a mettere in discussione l’eredità costituzionale dei secoli, essa ha pensato che le concessioni offerte dal primo ministro Gordon Brown – compreso il rinato Parlamento locale – dovevano bastare per placare gli animi in Scozia, dove vige da sempre un sistema giuridico, educativo e monetario particolare.
Per conto loro, i nazionalisti hanno pensato che il contrasto così netto tra i risultati del referendum in Inghilterra e in Scozia avrebbe senz’altro rilanciato la causa dell’indipendenza di quest’ultima. Per ora non è così, o almeno questo dicono i sondaggi. Ma siamo solo agli inizi di questa sofferta stagione di ridefinizione dell’identità nazionale britannica.
Quello che è sicuro è che la voce dell’abile leader nazionalista, la signora Sturgeon, non potrà essere ignorata nei confronti nazionali e internazionali a venire.
Fonte: Rivista Il Mulino
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