di Luca Nivarra
1. Si parla molto di “democrazia” (per lo più in relazione alla sua “crisi”), senza che, però, gli innumerevoli partecipanti a questo dibattito globale riescano a proporre un uso univoco e costante della parola. Certo, “democrazia” è un termine “grasso”, grasso come la prosa degli scrittori che non piacevano a Tomasi di Lampedusa, e questo di per sé agevola, o perfino, rende inevitabile, una certa ambiguità. Oggi, però, il fenomeno si presenta aggravato dalla circostanza che, in linea di massima, dovremmo avere un’idea di ciò che nominiamo quando parliamo di “democrazia”, dal momento che, qui, nel mitico “Occidente”, veniamo da una storia che, sia pure con vicende alterne, si protrae da più di un secolo all’insegna, appunto, della democrazia.
L’obiettivo del mio articolo non è certo quello di avanzare una nuova definizione di “democrazia”, e neppure quello di selezionare tutti i modi in cui oggi la parola viene usata (imprese entrambe impossibili o, comunque, al di fuori delle mie capacità): molto più semplicemente, vorrei andare a vedere cosa si nasconde dietro una (presunta) crisi che, ancora prima della cosa, è del nome, di cui si fa un uso che, semplificando al massimo, rimanda ad uno spazio concettuale vuoto (o, almeno, molto povero) una volta per eccesso di regole e difetto di contenuti, una volta per difetto di regole ed eccesso di contenuti.
2. A metà degli anni ’70, nel vivo del dibattito sullo stato che ebbe come protagonisti Bobbio, da un lato, e una folta schiera di intellettuali e politici comunisti (nel senso di P.C.I.) ([1]), il Maestro torinese formulò, con la chiarezza e l’incisività che tutti gli riconoscono, le sei famose regole che, a suo dire, individuavano non la democrazia borghese (come alcuni dei suoi interlocutori, sia pure con sempre minore convinzione, si ostinavano a chiamarla), ma la democrazia tout court ([2]). Esattamente come aveva fatto cinquanta anni prima Kelsen, Bobbio avanzava con molta determinazione la tesi secondo cui le sei regolette rappresentavano un contenitore capace di riempirsi di contenuti assai diversi, ivi inclusi un’economia e una società di tipo socialista. Infatti Bobbio, in quel dibattito, non assumeva una posizione conservatrice e accoglieva la sfida dei comunisti per la costruzione di una democrazia più avanzata, posto che, dal suo punto di vista, l’osservanza di quelle regole era la condizione necessaria, ma non sufficiente, perché una società potesse dirsi democratica.
L’idea che la democrazia fosse un work in progress, sia pure ancorato ad un “minimo” istituzionale, discendeva dal ruolo propulsivo che le socialdemocrazie europee (incluso il P.C.I., nonostante i suoi contorcimenti terminologici) assegnavano alle Costituzioni del secondo dopoguerra che avevano provveduto ad integrare quel “minimo” attraverso un robusto ricostituente (è proprio il caso di dire) a base di diritti sociali e partecipazione alla vita politica e sociale affidata ad organizzazioni di massa (partiti e sindacati), alcune delle quali investite del compito di rappresentare e promuovere gli interessi dei ceti subalterni. Quelle Costituzioni erano, più o meno in eguale misura, il frutto delle lotte del movimento operaio e del disegno di allargamento delle basi di consenso, e di consumo, del capitalismo. A differenza di quanto teorizzato da molti giuristi di area P.C.I., esse non avrebbero mai potuto apprestare una via d’accesso al socialismo: esse, tuttavia, rappresentavano una formidabile fonte di legittimazione dell’antagonismo operaio (il caso italiano fine anni ’60, prima metà degli anni ’70 è emblematico), che significava più salario sociale, più salario reale, erosione dei profitti, crescita della spesa pubblica (questo al netto dei costi di gestione clientelare del sistema politico). Dunque, una democrazia più ricca di quella fotografata dalla silhouette kelseniano-bobbiano: una democrazia progressiva, non nel senso che il percorrere fino in fondo la strada indicata dalla Costituzione conducesse al socialismo, ma nel senso che un progressivo miglioramento delle condizioni di vita materiale delle classi subalterne avrebbe implicato un parallelo arricchimento delle istituzioni (dei modi di essere) della democrazia, secondo il disegno proposto dall’art.3, comma 2 Cost.
Trascorsi quarant’anni, il quadro è completamente mutato. In una battuta, si può dire che quelle che per Bobbio erano le condizioni necessarie ma non sufficienti perché una società si potesse dire democratica, per i suoi eredi (che poi, non a caso, sono anche gli eredi del P.C.I.), esse sono rimaste necessarie ma sono diventate anche sufficienti. La socialdemocrazia europea, infatti, ha assecondato con entusiasmo crescente la controrivoluzione liberista, per la quale il bottino più grande sono stati i diritti sociali e la soggettività antagonista che trovava espressione nelle organizzazioni storiche del movimento operaio. La fine del partito politico, nelle forme conosciute nel corso del ‘900, con la sua trasformazione in una miserabile accozzaglia di notabili e di clientele, e il tramonto perfino più cupo dei sindacati di classe, degradati a patetici questuanti dei pochi spiccioli di anno in anno messi a disposizione dai governi dell’austerity (chi può dimenticare la foto, tristissima, della Camusso in terza fila dietro l’allora Presidente di Confindustria, in occasione del pellegrinaggio delle “forze sociali” nell’estate del 2012 per ottenere da Napolitano la cacciata di Berlusconi e la sua sostituzione con il “tecnico” salvatore della patria dall’imminente default), sono la diretta conseguenza della rimozione del conflitto sociale quale ingrediente fondamentale della democrazia così come immaginata dalle costituzioni del secondo dopoguerra. Espressione tipica, a sinistra (?), di questa riconfigurazione minimalista della democrazia è la New Left preconizzata da Giddens e attuata da Blair (e dai suoi emulatori più o meno fortunati, da Clinton a D’Alema, da Schröeder a Renzi, passando per i vari Gonzales, Hollande, Valls ecc.), per la quale la diseguaglianza sociale non discende da un assetto asimmetrico dei rapporti di produzione, ma dai fallimenti del mercato del lavoro: sicché, mentre i diritti sociali costituzionali, almeno nella loro interpretazione più hard, rappresentavano uno strumento di riequilibrio strutturale di quella, parimenti strutturale, asimmetria, le politiche di Welfare della “Terza Via” si propongono come unico obiettivo quello di riallocare sul mercato la forza del lavoro che, temporaneamente, ne sia stata espulsa a causa di un blocco del flusso informativo (da notare la totale subalternità ai paradigmi dell’economia neoclassica, che è quanto dire la totale subalternità alla Weltanschauung della destra). Da questo punto di vista, è fuori dubbio che, come dice Giddens, la coppia destra/sinistra abbia perduto di senso: in effetti, come anche il modo in cui i governi europei hanno affrontato la crisi iniziata nel 2008, conservatori e socialdemocratici condividono l’idea secondo cui prosperità e benessere di una società dipendono dall’efficiente funzionamento del mercato, dividendosi, al massimo, sul quantum di regolazione somministrabile dallo stato (antitrust, tutela del consumatore e politiche attive per il lavoro rispondono, tutte, alla medesima esigenza di regolare e correggere).
Di quanta democrazia ha bisogno una società di mercato? Poca, tutto sommato: e, in ogni caso, le sei regolette sono più che sufficienti. Nella sua declinazione neoliberista la democrazia regredisce allo stadio iniziale, di pura tecnica di prevenzione delle possibili degenerazioni in senso autocratico del potere (la democrazia come complemento sistemico della libertà), smarrendo quella vocazione performativa delle relazioni sociali che essa, viceversa, aveva assunto a partire dal momento in cui il movimento operaio era riuscito ad imporre l’antagonismo di classe come ingrediente fondamentale della costituzione politica. In definitiva, se il conflitto sociale, come moderna incarnazione della diade amico/nemico, bisognoso, quindi, di istituzioni specificamente deputate alla sua regolazione e al suo contenimento, scompare, la democrazia si riduce a qualcosa di appena un po’ più significativo di un regolamento di condominio, utile a dirimere controversie settoriali (vuoi il nucleare oppure no, vuoi il matrimonio per gli omosessuali oppure no: le c.d. issues) rilevantissime, beninteso, ma certo sideralmente lontane dall’orizzonte di uno scontro per l’egemonia ([3]). Tutto questo sarebbe perfino accettabile (e forse inevitabile) se la realtà fosse quella descritta dal pensiero dominante, di una società libera dallo sfruttamento: ma in una società nella quale lo sfruttamento permane, e si aggrava, pur assumendo connotati diversi, la democrazia formato tascabile soddisfa una duplice finalità, quella di rafforzare la narrazione egemone (in questo senso essa è ideologia allo stato puro), e quella di bollare come autentici rigurgiti dell’irrazionale qualsiasi insorgenza sociale che, anche flebilmente e indirettamente, rimetta all’ordine del giorno il punto di un riequilibrio nei rapporti tra capitale e lavoro (si pensi all’uso indiscriminato, e spregiativo, del termine “populismo” riservato sia ai più acerrimi avversari dell’UE, sia a Syriza o a Podemos).
Nel suo piccolo (in tutti i sensi di “piccolo”: per l’impatto che avrebbe sugli equilibri locali, nonostante l’interessato allarmismo del mainstream indigeno e internazionale; per il livello del dibattito che l’ha accompagnata e preceduta; per la sua fattura tecnica, veramente mediocre), la riforma costituzionale italiana offre un esemplare spaccato di quanto detto sin qui. In primo luogo, il brutale intreccio di ciclo politico ordinario e (ri)scrittura della Costituzione, a cui stiamo assistendo da qualche mese a questa parte, è un indice chiarissimo della perdita di senso della costituzione: non soltanto della Costituzione del 1948, ma dell’idea stessa di costituzione, almeno per il modo in cui tale idea si era venuta delineando, come detto, a partire dal secondo dopoguerra. Queste costituzioni erano non solo un insieme di regole destinate a disciplinare i rapporti tra i poteri dello stato, ma individuavano anche una serie di obiettivi funzionali all’incremento di potenza democratica della società. Le regole erano il recinto entro il quale le forze politiche e sociali si disputavano la misura di attuazione del telos: venuto meno il telos, le regole sono state declassate al rango di mere procedure, valutabili secondo un parametro di efficienza (la “governabilità”) ricavato da un algoritmo dipendente dal tasso di semplificazione delle procedure medesime. Insomma, come è agevole costatare, torna a fare capolino il fantasma del regolamento condominiale a cui si riduce l’odierna democrazia liberista: e, in effetti, che il Senato ci sia o non ci sia o che il partito di maggioranza, almeno per cinque anni, si aggiudichi tutto, o quasi, il bottino in palio, sono cose ancora compatibili con il catalogo bobbiano.
Ecco perché il modo in cui il “NO” ha impostato la sua campagna elettorale risulta del tutto anacronistico. Il discorso non riguarda ovviamente il “merito” della riforma, a proposito del quale vengono formulate molte, giuste e condivisibili, censure; quanto, piuttosto, l’ossatura politico-culturale della campagna, tutta incentrata sulla difesa della Costituzione. In realtà, come si è visto, una Costituzione da difendere non esiste più, se per Costituzione si intende quel progetto di potenziamento democratico della società destinato ad attuarsi, secondo la previsione dell’art.3,comma 2, mediante il combinato disposto di partecipazione politica e diritti sociali delle classi lavoratrici. Questa Costituzione è stata letteralmente cancellata dal successo riportato dalle strategie neoliberiste di delocalizzazione e riposizionamento di un potere (de)costituente occulto, quello annidato nelle norme dei Trattati e nel ruolo esorbitante assunto dalla Corte di Giustizia (e dalla Cedu): un processo che, nel caso italiano, è stato reso possibile da quella interpretazione estensiva dell’Art.11 Cost. di cui la nostra Corte, sedotta dalle sirene della costruzione europea, si è fatta infaticabile promotrice ([4]). Il carattere qualitativo della rottura consumatasi in tal modo rende improponibile qualsiasi ragionamento in termini di tutela e rilancio dell’originario disegno costituzionale, anche se, mi rendo conto, che, nel fuoco di una battaglia elettorale, è giocoforza affidarsi ad argomenti emotivi, non puramente tecnici, in grado di fare appello ai sentimenti dei cittadini: resta il fatto che, ove mai il “NO” dovesse prevalere, sarà perché gli italiani non ne possono più di Renzi e non perché improvvisamente scopertisi “sentinelle in piedi” della Carta del ’48.
In campo, dunque, restano solo la grande, e opaca, governance europea, tutta sbilanciata dal lato dell’esecutivo, e le piccole democrazie nazionali, che, come in Italia, con la riforma Boschi, provano, là dove è necessario, ad accorciare le distanze da quel modello. Piccole democrazie nazionali, del tutto conformi agli interessi delle classi dominanti e del mediocre funzionariato politico che è loro espressione, il quale, tramite esse, ricava quel po’di residua legittimazione che ne consente la sopravvivenza. E, tuttavia, bisogna pur ammetterlo, la minidemocrazia liberista è l’unica forma di democrazia oggi in campo (almeno in Occidente e su una scala territoriale significativa) a cui, peraltro, viene affidato l’importante compito di accreditare la tesi della superiorità delle nostre società su quelle di provenienza dei migranti e dei rifugiati (donde una particolare declinazione dell’idea di integrazione come sostanziale assimilazione di “loro” a “noi”). In altre parole, una democrazia pocket se riguardata dal lato interno, ed una democrazia assorbente/escludente se riguardata dal lato esterno: ma pur sempre una democrazia.
3. Lo spazio concettuale corrispondente al modello che ho descritto più sopra non è vuoto ma è molto povero: esso, l’ho già detto, soffre di un eccesso di regole e di un grave difetto di contenuti. In realtà, le forme borghesi di regolazione della politica sono, come è noto, intrise di contenuti: esse sono contenuto nel momento stesso in cui sembrano esaurirsi in mere procedure (storicamente: la legge e il contratto). Anche oggi questo è, in una certa misura, vero: basti pensare all’uso della “democrazia” come dispositivo retorico impiegato al fine di assicurare una sia pure minima base di legittimazione ai ceti politici nazionali chiamati ad applicare le misure di austerity, o per giustificare una lettura in chiave eminentemente securitaria del fenomeno migratorio. Tuttavia, si assiste qui ad un chiaro regresso dal feticismo all’ideologia: nel senso che, mentre la democrazia dei “moderni”, pur occultando dietro il velo dell’eguaglianza formale le differenze di classe, in effetti disegnava una nuova geografia del potere rispetto a quella dell’antico regime (dunque, era e, contemporaneamente, non era ciò che appariva, come si conviene ad ogni epifania del feticismo che si rispetti), la democrazia odierna, che pure condivide con l’antesignana la netta prevalenza della forma, è, al contrario di essa, non la risultante di un arricchimento della potenza del sociale, ma di un suo vistoso impoverimento (consumatosi ai danni di quel modello intermedio di democrazia che potremmo denominare democrazia delle costituzioni): e questo spiega perché essa brandita come una clava, da classi dirigenti sempre più isteriche, è ormai ridotta ad arma puramente ideologica.
Se spostiamo l’asse dell’analisi dallo schieramento dominante (che si tiene ben stretta la sua democrazia mignon) ai movimenti, alle forze sociali e alle residue forze politiche che, in vario modo, si oppongono al neoliberismo, il quadro che ci si presenta è, per fortuna, molto diverso. Da questo lato, infatti, il fenomeno del quale mi sto occupando (il progressivo esaurimento dell’idea di democrazia) si manifesta sotto la specie di un eccesso di contenuti e di un difetto di regole. In altre parole, quando riesce ad emergere e ad assumere un minimo di consistenza e di continuità, l’antagonismo di oggi (esattamente come quello di ieri) è, in primo luogo, rivendicazione di potere dei subalterni e degli sfruttati per i quali la democrazia a) è sempre un mezzo e mai un fine; b) e, per conseguenza, essa è anche sempre l’equivalente di un regolamento condominiale. Del resto, nella storia del movimento operaio il richiamo alla democrazia, volendo semplificare al massimo, si presenta in una duplice veste: o, ed è il caso dell’ultimo Engels e del primo Kautsky, come modalità privilegiata di conquista del potere, molto più sicura ed “economica” di una rivoluzione violenta (qui la democrazia di cui si parla è quella borghese-parlamentare), oppure, ed è il caso dei Consigli, come modalità di organizzazione del nuovo potere proletario, una volta portata a termine con successo l’insurrezione armata (qui la democrazia di cui si parla è quella diretta). È interessante notare che, nella prima versione, la democrazia è uno strumento di lotta politica, mentre nella seconda versione, radicalmente diversa dall’altra, la democrazia esprime i nuovi rapporti di forza all’interno della società ().
Quei due precedenti, pure così diversi nei presupposti e negli esiti, mettono in luce con chiarezza che, per le classi subalterne, la lotta politica è sempre, in primo luogo, una lotta per l’egemonia, nella quale la posta in gioco è rappresentata dalla radicale messa in discussione non delle sei regolette bobbiane, ma degli assetti di potere reale (ieri il controllo sulla forza-lavoro attraverso il sistema di fabbrica, oggi l’estrazione di plusvalore attraverso il controllo della finanza e della tecnologia) di cui le regolette sono la foglia di fico, a pallore crescente. Si potrebbe obiettare che questo è stato vero anche per la borghesia impegnata nella battaglia contro l’antico regime: un’osservazione ineccepibile, se non fosse che qui la rivendicazione di egemonia assunse immediatamente le forme di una nuova organizzazione giuridica dello stato e del mercato, in linea con le esigenze di funzionamento del nuovo modo di produzione. Il punto meriterebbe di essere approfondito (esso evoca almeno due questioni cruciali: la prima, riconducibile al rapporto privilegiato che, nell’organizzazione capitalistica della società, il diritto intrattiene con l’economia, già intuito da Marx fin dagli esordi del Libro I del “Capitale” e poi definitivamente chiarito da Pašukanis; la seconda, relativa alle forme che la transizione da un modo di produzione all’altro può assumere, e che, in ragione della variabile temporale, finiscono per assegnare al problema dello stato una collocazione, nella dinamica del mutamento, assai diversa): tuttavia, ciò che mi sembra di poter dire, in sintesi, è che quella della democrazia non è (ed è bene che non sia) una priorità (non lo è stata storicamente e non lo è neanche oggi) dell’ampio e variegato fronte di opposizione al neoliberismo.
Da questo punto di vista, la recente parabola dei beni comuni contiene alcuni importanti insegnamenti. Essa presenta una molteplicità di volti, ma là dove il conflitto innestato dal movimento per i beni comuni ha fatto segnare il punto più alto (le occupazioni), è apparso chiaro che la posta in gioco non era un nuovo assetto giuridico per una certa (dai confini alquanto opachi) tipologia di beni, quanto, piuttosto, il loro controllo, ovvero la loro sottrazione al dominio della proprietà (cioè, al valore di scambio) e la loro attribuzione al dominio del valore d’uso. Solo in un secondo momento, solo una volta conseguito questo obiettivo, ovvero guadagnato il potere, si è posto il problema della individuazione di regole che garantissero una gestione democratica di quelle risorse da parte di collettività più o meno ampie.
Il succo di questo discorso è che, a ben vedere, non esiste alcuna crisi della democrazia e che, anzi, se considerato con il necessario disincanto, il discorso su di essa rappresenta un’autentica trappola retorica presupponendo un’immagine della democrazia come ideale suscettibile di un consenso universale, in grado, ancora una volta, di annullare, nel senso di occultare, le differenze di classe. Il piagnisteo sulla crisi della democrazia va lasciato ai tardi, e tristi, epigoni della stagione socialdemocratica (alcuni dei quali certamente in buona fede). Come abbiamo visto, la democrazia neoliberale, spuntata fuori da sotto le macerie della democrazia delle costituzioni, gode di ottima salute; mentre, per chi si oppone, le urgenze ben altre, perché soltanto quando il conflitto avrà recuperato la sua dimensione costituzionale (nel senso che sarà tornato ad occupare lo spazio di faglia del corpo sociale) sarà possibile tornare a discutere di democrazia: fino a quel momento, accettare questo terreno equivarrà a vestire i panni dei difensori della Costituzione “più bella del mondo” ovvero quelli, non meno impropri per chi il mondo lo vuole cambiare, di ideatori di ordinamenti democratici, più giusti, più equi, più aperti, tanto suggestivi quanto ininfluenti.
[1] Dibattito che ho ricostruito in L.NIVARRA, La grande illusione. Come nacque e come morì il marxismo giuridico in Italia, Torino, 2015, 45 s.
[2] Queste le sei regole. 1.Tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, debbono godere dei diritti politici, cioè ciascuno deve godere del diritto di esprimere la propria opinione o di scegliere chi la esprime per lui; 2. il voto di tutti i cittadini deve avere peso uguale; 3. tutti coloro che godono dei diritti politici debbono essere liberi di poter votare secondo la propria opinione formatasi quanto più è possibile liberamente, cioè in una libera gara tra gruppi politici organizzati in concorrenza fra loro; 4. debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti in condizione di scegliere tra soluzioni diverse, cioè tra partiti che abbiano programmi diversi e alternativi; 5. sia per le elezioni, sia per le decisioni collettive, deve valere la regola della maggioranza numerica, nel senso che si consideri eletto il candidato, o si consideri valida la decisione, che ha ottenuto il maggior numero di voti; 6.nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, particolarmente il diritto di diventare maggioranza a parità di condizioni. In questa versione il catalogo appare nel saggio dal titolo Dall’ideologia democratica agli universali procedurali, in Teoria generale della politica, Torino, 1999, 381. Con alcune minime variazioni lessicali esso era già stato formulato, appunto, in Quale socialismo (il volumetto einaudiano che raccoglie gli interventi di Bobbio nel dibattito menzionato nel testo), all’interno del saggio su Quali alternative alla democrazia rappresentativa, Torino, 1976, 42-43.
[3] C.MOUFFE, On the Political, London, New York, 2005.
[4] La vicenda è ben ricostruita in C. SALVI, Capitalismo e diritto civile, Bologna, 2015.
Fonte: Euronomade.info
Originale: http://www.euronomade.info/?p=8116
1. Si parla molto di “democrazia” (per lo più in relazione alla sua “crisi”), senza che, però, gli innumerevoli partecipanti a questo dibattito globale riescano a proporre un uso univoco e costante della parola. Certo, “democrazia” è un termine “grasso”, grasso come la prosa degli scrittori che non piacevano a Tomasi di Lampedusa, e questo di per sé agevola, o perfino, rende inevitabile, una certa ambiguità. Oggi, però, il fenomeno si presenta aggravato dalla circostanza che, in linea di massima, dovremmo avere un’idea di ciò che nominiamo quando parliamo di “democrazia”, dal momento che, qui, nel mitico “Occidente”, veniamo da una storia che, sia pure con vicende alterne, si protrae da più di un secolo all’insegna, appunto, della democrazia.
L’obiettivo del mio articolo non è certo quello di avanzare una nuova definizione di “democrazia”, e neppure quello di selezionare tutti i modi in cui oggi la parola viene usata (imprese entrambe impossibili o, comunque, al di fuori delle mie capacità): molto più semplicemente, vorrei andare a vedere cosa si nasconde dietro una (presunta) crisi che, ancora prima della cosa, è del nome, di cui si fa un uso che, semplificando al massimo, rimanda ad uno spazio concettuale vuoto (o, almeno, molto povero) una volta per eccesso di regole e difetto di contenuti, una volta per difetto di regole ed eccesso di contenuti.
2. A metà degli anni ’70, nel vivo del dibattito sullo stato che ebbe come protagonisti Bobbio, da un lato, e una folta schiera di intellettuali e politici comunisti (nel senso di P.C.I.) ([1]), il Maestro torinese formulò, con la chiarezza e l’incisività che tutti gli riconoscono, le sei famose regole che, a suo dire, individuavano non la democrazia borghese (come alcuni dei suoi interlocutori, sia pure con sempre minore convinzione, si ostinavano a chiamarla), ma la democrazia tout court ([2]). Esattamente come aveva fatto cinquanta anni prima Kelsen, Bobbio avanzava con molta determinazione la tesi secondo cui le sei regolette rappresentavano un contenitore capace di riempirsi di contenuti assai diversi, ivi inclusi un’economia e una società di tipo socialista. Infatti Bobbio, in quel dibattito, non assumeva una posizione conservatrice e accoglieva la sfida dei comunisti per la costruzione di una democrazia più avanzata, posto che, dal suo punto di vista, l’osservanza di quelle regole era la condizione necessaria, ma non sufficiente, perché una società potesse dirsi democratica.
L’idea che la democrazia fosse un work in progress, sia pure ancorato ad un “minimo” istituzionale, discendeva dal ruolo propulsivo che le socialdemocrazie europee (incluso il P.C.I., nonostante i suoi contorcimenti terminologici) assegnavano alle Costituzioni del secondo dopoguerra che avevano provveduto ad integrare quel “minimo” attraverso un robusto ricostituente (è proprio il caso di dire) a base di diritti sociali e partecipazione alla vita politica e sociale affidata ad organizzazioni di massa (partiti e sindacati), alcune delle quali investite del compito di rappresentare e promuovere gli interessi dei ceti subalterni. Quelle Costituzioni erano, più o meno in eguale misura, il frutto delle lotte del movimento operaio e del disegno di allargamento delle basi di consenso, e di consumo, del capitalismo. A differenza di quanto teorizzato da molti giuristi di area P.C.I., esse non avrebbero mai potuto apprestare una via d’accesso al socialismo: esse, tuttavia, rappresentavano una formidabile fonte di legittimazione dell’antagonismo operaio (il caso italiano fine anni ’60, prima metà degli anni ’70 è emblematico), che significava più salario sociale, più salario reale, erosione dei profitti, crescita della spesa pubblica (questo al netto dei costi di gestione clientelare del sistema politico). Dunque, una democrazia più ricca di quella fotografata dalla silhouette kelseniano-bobbiano: una democrazia progressiva, non nel senso che il percorrere fino in fondo la strada indicata dalla Costituzione conducesse al socialismo, ma nel senso che un progressivo miglioramento delle condizioni di vita materiale delle classi subalterne avrebbe implicato un parallelo arricchimento delle istituzioni (dei modi di essere) della democrazia, secondo il disegno proposto dall’art.3, comma 2 Cost.
Trascorsi quarant’anni, il quadro è completamente mutato. In una battuta, si può dire che quelle che per Bobbio erano le condizioni necessarie ma non sufficienti perché una società si potesse dire democratica, per i suoi eredi (che poi, non a caso, sono anche gli eredi del P.C.I.), esse sono rimaste necessarie ma sono diventate anche sufficienti. La socialdemocrazia europea, infatti, ha assecondato con entusiasmo crescente la controrivoluzione liberista, per la quale il bottino più grande sono stati i diritti sociali e la soggettività antagonista che trovava espressione nelle organizzazioni storiche del movimento operaio. La fine del partito politico, nelle forme conosciute nel corso del ‘900, con la sua trasformazione in una miserabile accozzaglia di notabili e di clientele, e il tramonto perfino più cupo dei sindacati di classe, degradati a patetici questuanti dei pochi spiccioli di anno in anno messi a disposizione dai governi dell’austerity (chi può dimenticare la foto, tristissima, della Camusso in terza fila dietro l’allora Presidente di Confindustria, in occasione del pellegrinaggio delle “forze sociali” nell’estate del 2012 per ottenere da Napolitano la cacciata di Berlusconi e la sua sostituzione con il “tecnico” salvatore della patria dall’imminente default), sono la diretta conseguenza della rimozione del conflitto sociale quale ingrediente fondamentale della democrazia così come immaginata dalle costituzioni del secondo dopoguerra. Espressione tipica, a sinistra (?), di questa riconfigurazione minimalista della democrazia è la New Left preconizzata da Giddens e attuata da Blair (e dai suoi emulatori più o meno fortunati, da Clinton a D’Alema, da Schröeder a Renzi, passando per i vari Gonzales, Hollande, Valls ecc.), per la quale la diseguaglianza sociale non discende da un assetto asimmetrico dei rapporti di produzione, ma dai fallimenti del mercato del lavoro: sicché, mentre i diritti sociali costituzionali, almeno nella loro interpretazione più hard, rappresentavano uno strumento di riequilibrio strutturale di quella, parimenti strutturale, asimmetria, le politiche di Welfare della “Terza Via” si propongono come unico obiettivo quello di riallocare sul mercato la forza del lavoro che, temporaneamente, ne sia stata espulsa a causa di un blocco del flusso informativo (da notare la totale subalternità ai paradigmi dell’economia neoclassica, che è quanto dire la totale subalternità alla Weltanschauung della destra). Da questo punto di vista, è fuori dubbio che, come dice Giddens, la coppia destra/sinistra abbia perduto di senso: in effetti, come anche il modo in cui i governi europei hanno affrontato la crisi iniziata nel 2008, conservatori e socialdemocratici condividono l’idea secondo cui prosperità e benessere di una società dipendono dall’efficiente funzionamento del mercato, dividendosi, al massimo, sul quantum di regolazione somministrabile dallo stato (antitrust, tutela del consumatore e politiche attive per il lavoro rispondono, tutte, alla medesima esigenza di regolare e correggere).
Di quanta democrazia ha bisogno una società di mercato? Poca, tutto sommato: e, in ogni caso, le sei regolette sono più che sufficienti. Nella sua declinazione neoliberista la democrazia regredisce allo stadio iniziale, di pura tecnica di prevenzione delle possibili degenerazioni in senso autocratico del potere (la democrazia come complemento sistemico della libertà), smarrendo quella vocazione performativa delle relazioni sociali che essa, viceversa, aveva assunto a partire dal momento in cui il movimento operaio era riuscito ad imporre l’antagonismo di classe come ingrediente fondamentale della costituzione politica. In definitiva, se il conflitto sociale, come moderna incarnazione della diade amico/nemico, bisognoso, quindi, di istituzioni specificamente deputate alla sua regolazione e al suo contenimento, scompare, la democrazia si riduce a qualcosa di appena un po’ più significativo di un regolamento di condominio, utile a dirimere controversie settoriali (vuoi il nucleare oppure no, vuoi il matrimonio per gli omosessuali oppure no: le c.d. issues) rilevantissime, beninteso, ma certo sideralmente lontane dall’orizzonte di uno scontro per l’egemonia ([3]). Tutto questo sarebbe perfino accettabile (e forse inevitabile) se la realtà fosse quella descritta dal pensiero dominante, di una società libera dallo sfruttamento: ma in una società nella quale lo sfruttamento permane, e si aggrava, pur assumendo connotati diversi, la democrazia formato tascabile soddisfa una duplice finalità, quella di rafforzare la narrazione egemone (in questo senso essa è ideologia allo stato puro), e quella di bollare come autentici rigurgiti dell’irrazionale qualsiasi insorgenza sociale che, anche flebilmente e indirettamente, rimetta all’ordine del giorno il punto di un riequilibrio nei rapporti tra capitale e lavoro (si pensi all’uso indiscriminato, e spregiativo, del termine “populismo” riservato sia ai più acerrimi avversari dell’UE, sia a Syriza o a Podemos).
Nel suo piccolo (in tutti i sensi di “piccolo”: per l’impatto che avrebbe sugli equilibri locali, nonostante l’interessato allarmismo del mainstream indigeno e internazionale; per il livello del dibattito che l’ha accompagnata e preceduta; per la sua fattura tecnica, veramente mediocre), la riforma costituzionale italiana offre un esemplare spaccato di quanto detto sin qui. In primo luogo, il brutale intreccio di ciclo politico ordinario e (ri)scrittura della Costituzione, a cui stiamo assistendo da qualche mese a questa parte, è un indice chiarissimo della perdita di senso della costituzione: non soltanto della Costituzione del 1948, ma dell’idea stessa di costituzione, almeno per il modo in cui tale idea si era venuta delineando, come detto, a partire dal secondo dopoguerra. Queste costituzioni erano non solo un insieme di regole destinate a disciplinare i rapporti tra i poteri dello stato, ma individuavano anche una serie di obiettivi funzionali all’incremento di potenza democratica della società. Le regole erano il recinto entro il quale le forze politiche e sociali si disputavano la misura di attuazione del telos: venuto meno il telos, le regole sono state declassate al rango di mere procedure, valutabili secondo un parametro di efficienza (la “governabilità”) ricavato da un algoritmo dipendente dal tasso di semplificazione delle procedure medesime. Insomma, come è agevole costatare, torna a fare capolino il fantasma del regolamento condominiale a cui si riduce l’odierna democrazia liberista: e, in effetti, che il Senato ci sia o non ci sia o che il partito di maggioranza, almeno per cinque anni, si aggiudichi tutto, o quasi, il bottino in palio, sono cose ancora compatibili con il catalogo bobbiano.
Ecco perché il modo in cui il “NO” ha impostato la sua campagna elettorale risulta del tutto anacronistico. Il discorso non riguarda ovviamente il “merito” della riforma, a proposito del quale vengono formulate molte, giuste e condivisibili, censure; quanto, piuttosto, l’ossatura politico-culturale della campagna, tutta incentrata sulla difesa della Costituzione. In realtà, come si è visto, una Costituzione da difendere non esiste più, se per Costituzione si intende quel progetto di potenziamento democratico della società destinato ad attuarsi, secondo la previsione dell’art.3,comma 2, mediante il combinato disposto di partecipazione politica e diritti sociali delle classi lavoratrici. Questa Costituzione è stata letteralmente cancellata dal successo riportato dalle strategie neoliberiste di delocalizzazione e riposizionamento di un potere (de)costituente occulto, quello annidato nelle norme dei Trattati e nel ruolo esorbitante assunto dalla Corte di Giustizia (e dalla Cedu): un processo che, nel caso italiano, è stato reso possibile da quella interpretazione estensiva dell’Art.11 Cost. di cui la nostra Corte, sedotta dalle sirene della costruzione europea, si è fatta infaticabile promotrice ([4]). Il carattere qualitativo della rottura consumatasi in tal modo rende improponibile qualsiasi ragionamento in termini di tutela e rilancio dell’originario disegno costituzionale, anche se, mi rendo conto, che, nel fuoco di una battaglia elettorale, è giocoforza affidarsi ad argomenti emotivi, non puramente tecnici, in grado di fare appello ai sentimenti dei cittadini: resta il fatto che, ove mai il “NO” dovesse prevalere, sarà perché gli italiani non ne possono più di Renzi e non perché improvvisamente scopertisi “sentinelle in piedi” della Carta del ’48.
In campo, dunque, restano solo la grande, e opaca, governance europea, tutta sbilanciata dal lato dell’esecutivo, e le piccole democrazie nazionali, che, come in Italia, con la riforma Boschi, provano, là dove è necessario, ad accorciare le distanze da quel modello. Piccole democrazie nazionali, del tutto conformi agli interessi delle classi dominanti e del mediocre funzionariato politico che è loro espressione, il quale, tramite esse, ricava quel po’di residua legittimazione che ne consente la sopravvivenza. E, tuttavia, bisogna pur ammetterlo, la minidemocrazia liberista è l’unica forma di democrazia oggi in campo (almeno in Occidente e su una scala territoriale significativa) a cui, peraltro, viene affidato l’importante compito di accreditare la tesi della superiorità delle nostre società su quelle di provenienza dei migranti e dei rifugiati (donde una particolare declinazione dell’idea di integrazione come sostanziale assimilazione di “loro” a “noi”). In altre parole, una democrazia pocket se riguardata dal lato interno, ed una democrazia assorbente/escludente se riguardata dal lato esterno: ma pur sempre una democrazia.
3. Lo spazio concettuale corrispondente al modello che ho descritto più sopra non è vuoto ma è molto povero: esso, l’ho già detto, soffre di un eccesso di regole e di un grave difetto di contenuti. In realtà, le forme borghesi di regolazione della politica sono, come è noto, intrise di contenuti: esse sono contenuto nel momento stesso in cui sembrano esaurirsi in mere procedure (storicamente: la legge e il contratto). Anche oggi questo è, in una certa misura, vero: basti pensare all’uso della “democrazia” come dispositivo retorico impiegato al fine di assicurare una sia pure minima base di legittimazione ai ceti politici nazionali chiamati ad applicare le misure di austerity, o per giustificare una lettura in chiave eminentemente securitaria del fenomeno migratorio. Tuttavia, si assiste qui ad un chiaro regresso dal feticismo all’ideologia: nel senso che, mentre la democrazia dei “moderni”, pur occultando dietro il velo dell’eguaglianza formale le differenze di classe, in effetti disegnava una nuova geografia del potere rispetto a quella dell’antico regime (dunque, era e, contemporaneamente, non era ciò che appariva, come si conviene ad ogni epifania del feticismo che si rispetti), la democrazia odierna, che pure condivide con l’antesignana la netta prevalenza della forma, è, al contrario di essa, non la risultante di un arricchimento della potenza del sociale, ma di un suo vistoso impoverimento (consumatosi ai danni di quel modello intermedio di democrazia che potremmo denominare democrazia delle costituzioni): e questo spiega perché essa brandita come una clava, da classi dirigenti sempre più isteriche, è ormai ridotta ad arma puramente ideologica.
Se spostiamo l’asse dell’analisi dallo schieramento dominante (che si tiene ben stretta la sua democrazia mignon) ai movimenti, alle forze sociali e alle residue forze politiche che, in vario modo, si oppongono al neoliberismo, il quadro che ci si presenta è, per fortuna, molto diverso. Da questo lato, infatti, il fenomeno del quale mi sto occupando (il progressivo esaurimento dell’idea di democrazia) si manifesta sotto la specie di un eccesso di contenuti e di un difetto di regole. In altre parole, quando riesce ad emergere e ad assumere un minimo di consistenza e di continuità, l’antagonismo di oggi (esattamente come quello di ieri) è, in primo luogo, rivendicazione di potere dei subalterni e degli sfruttati per i quali la democrazia a) è sempre un mezzo e mai un fine; b) e, per conseguenza, essa è anche sempre l’equivalente di un regolamento condominiale. Del resto, nella storia del movimento operaio il richiamo alla democrazia, volendo semplificare al massimo, si presenta in una duplice veste: o, ed è il caso dell’ultimo Engels e del primo Kautsky, come modalità privilegiata di conquista del potere, molto più sicura ed “economica” di una rivoluzione violenta (qui la democrazia di cui si parla è quella borghese-parlamentare), oppure, ed è il caso dei Consigli, come modalità di organizzazione del nuovo potere proletario, una volta portata a termine con successo l’insurrezione armata (qui la democrazia di cui si parla è quella diretta). È interessante notare che, nella prima versione, la democrazia è uno strumento di lotta politica, mentre nella seconda versione, radicalmente diversa dall’altra, la democrazia esprime i nuovi rapporti di forza all’interno della società ().
Quei due precedenti, pure così diversi nei presupposti e negli esiti, mettono in luce con chiarezza che, per le classi subalterne, la lotta politica è sempre, in primo luogo, una lotta per l’egemonia, nella quale la posta in gioco è rappresentata dalla radicale messa in discussione non delle sei regolette bobbiane, ma degli assetti di potere reale (ieri il controllo sulla forza-lavoro attraverso il sistema di fabbrica, oggi l’estrazione di plusvalore attraverso il controllo della finanza e della tecnologia) di cui le regolette sono la foglia di fico, a pallore crescente. Si potrebbe obiettare che questo è stato vero anche per la borghesia impegnata nella battaglia contro l’antico regime: un’osservazione ineccepibile, se non fosse che qui la rivendicazione di egemonia assunse immediatamente le forme di una nuova organizzazione giuridica dello stato e del mercato, in linea con le esigenze di funzionamento del nuovo modo di produzione. Il punto meriterebbe di essere approfondito (esso evoca almeno due questioni cruciali: la prima, riconducibile al rapporto privilegiato che, nell’organizzazione capitalistica della società, il diritto intrattiene con l’economia, già intuito da Marx fin dagli esordi del Libro I del “Capitale” e poi definitivamente chiarito da Pašukanis; la seconda, relativa alle forme che la transizione da un modo di produzione all’altro può assumere, e che, in ragione della variabile temporale, finiscono per assegnare al problema dello stato una collocazione, nella dinamica del mutamento, assai diversa): tuttavia, ciò che mi sembra di poter dire, in sintesi, è che quella della democrazia non è (ed è bene che non sia) una priorità (non lo è stata storicamente e non lo è neanche oggi) dell’ampio e variegato fronte di opposizione al neoliberismo.
Da questo punto di vista, la recente parabola dei beni comuni contiene alcuni importanti insegnamenti. Essa presenta una molteplicità di volti, ma là dove il conflitto innestato dal movimento per i beni comuni ha fatto segnare il punto più alto (le occupazioni), è apparso chiaro che la posta in gioco non era un nuovo assetto giuridico per una certa (dai confini alquanto opachi) tipologia di beni, quanto, piuttosto, il loro controllo, ovvero la loro sottrazione al dominio della proprietà (cioè, al valore di scambio) e la loro attribuzione al dominio del valore d’uso. Solo in un secondo momento, solo una volta conseguito questo obiettivo, ovvero guadagnato il potere, si è posto il problema della individuazione di regole che garantissero una gestione democratica di quelle risorse da parte di collettività più o meno ampie.
Il succo di questo discorso è che, a ben vedere, non esiste alcuna crisi della democrazia e che, anzi, se considerato con il necessario disincanto, il discorso su di essa rappresenta un’autentica trappola retorica presupponendo un’immagine della democrazia come ideale suscettibile di un consenso universale, in grado, ancora una volta, di annullare, nel senso di occultare, le differenze di classe. Il piagnisteo sulla crisi della democrazia va lasciato ai tardi, e tristi, epigoni della stagione socialdemocratica (alcuni dei quali certamente in buona fede). Come abbiamo visto, la democrazia neoliberale, spuntata fuori da sotto le macerie della democrazia delle costituzioni, gode di ottima salute; mentre, per chi si oppone, le urgenze ben altre, perché soltanto quando il conflitto avrà recuperato la sua dimensione costituzionale (nel senso che sarà tornato ad occupare lo spazio di faglia del corpo sociale) sarà possibile tornare a discutere di democrazia: fino a quel momento, accettare questo terreno equivarrà a vestire i panni dei difensori della Costituzione “più bella del mondo” ovvero quelli, non meno impropri per chi il mondo lo vuole cambiare, di ideatori di ordinamenti democratici, più giusti, più equi, più aperti, tanto suggestivi quanto ininfluenti.
[1] Dibattito che ho ricostruito in L.NIVARRA, La grande illusione. Come nacque e come morì il marxismo giuridico in Italia, Torino, 2015, 45 s.
[2] Queste le sei regole. 1.Tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, debbono godere dei diritti politici, cioè ciascuno deve godere del diritto di esprimere la propria opinione o di scegliere chi la esprime per lui; 2. il voto di tutti i cittadini deve avere peso uguale; 3. tutti coloro che godono dei diritti politici debbono essere liberi di poter votare secondo la propria opinione formatasi quanto più è possibile liberamente, cioè in una libera gara tra gruppi politici organizzati in concorrenza fra loro; 4. debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti in condizione di scegliere tra soluzioni diverse, cioè tra partiti che abbiano programmi diversi e alternativi; 5. sia per le elezioni, sia per le decisioni collettive, deve valere la regola della maggioranza numerica, nel senso che si consideri eletto il candidato, o si consideri valida la decisione, che ha ottenuto il maggior numero di voti; 6.nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, particolarmente il diritto di diventare maggioranza a parità di condizioni. In questa versione il catalogo appare nel saggio dal titolo Dall’ideologia democratica agli universali procedurali, in Teoria generale della politica, Torino, 1999, 381. Con alcune minime variazioni lessicali esso era già stato formulato, appunto, in Quale socialismo (il volumetto einaudiano che raccoglie gli interventi di Bobbio nel dibattito menzionato nel testo), all’interno del saggio su Quali alternative alla democrazia rappresentativa, Torino, 1976, 42-43.
[3] C.MOUFFE, On the Political, London, New York, 2005.
[4] La vicenda è ben ricostruita in C. SALVI, Capitalismo e diritto civile, Bologna, 2015.
Fonte: Euronomade.info
Originale: http://www.euronomade.info/?p=8116
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