di Carlo Clericetti
"Basta un poco di zucchero e la pillola va giù", cantava Mary Poppins. Non è solo una canzoncina per bambini, spiega benissimo un classico artificio della propaganda: per "vendere" qualcosa di indigesto bisogna condirlo con qualche ingrediente gustoso e di immediata visibilità, su cui concentrare l'attenzione in modo da distrarre dalla sostanza. E' esattamente quello che avviene con il referendum sulla riforma costituzionale, imbellettato con una crosta di zucchero che deve coprire un pessimo cambiamento della nostra Carta fondamentale.
Se il marketing politico fosse il motore dell'economia avremmo sicuramente una crescita tra le più alte del mondo. Sembra che l'impegno maggiore gli uomini di Palazzo Chigi lo mettano nell'inventare nomi accattivanti per le leggi. Jobs Act per quella che rende tutti più precari senza contropartita, Buona scuola per quella che rende i presidi padroni del destino degli insegnanti, Sblocca Italia per quella che fa strame di tutte le garanzie ambientali, paesaggistiche e di influenza degli enti locali.
In questo caso il marketing punta sulle parole d'ordine populiste, arrivando addirittura a promuovere una sorta di auto-denigrazione ("Volete diminuire i politici? Basta un SI"). Vanta risparmi mirabolanti, mentre i conti degli stessi uffici pubblici li riducono a una manciata di milioni. Renzi è arrivato ad annunciare uno scambio miserabile: "I 500 milioni di risparmi (falso!) li useremo per la lotta alla povertà", come se il sostegno a chi è in miseria non fosse un compito ordinario dello Stato e un dovere di civiltà, ma dovesse essere condizionato all'approvazione del referendum.
La sostanza è quella di una riforma mal fatta e peggio pensata, nel senso che è stata pensata più per il consolidamento del potere di chi oggi si ritiene in vantaggio dal punto di vista elettorale che per rendere veramente più funzionale la struttura delle istituzioni. Che poi sia stata approvata da uno dei Parlamenti più screditati della storia repubblicana, dove un terzo dei componenti non è più nel partito dove era stato votato e per giunta eletto con una legge dichiarata in parte incostituzionale, magari non c'entra con il merito, ma induce a pensare che la modifica di un terzo degli articoli della Costituzione sarebbe stato meglio lasciarla ad altri.
Nei due mesi scarsi che ci separano dal voto prepariamoci a un bombardamento mediatico a doccia scozzese. Da una parte si continueranno a magnificare i risibili lati positivi della riforma come se ne fossero l'aspetto più importante, dall'altra - man mano che la data del voto si avvicina - si intensificherà il terrorismo delle previsioni, disegnando scenari apocalittici nel caso che dovesse prevalere il NO: instabilità politica, economia a picco, investitori internazionali che attaccano senza pietà l'Italia. Ne abbiamo avuto un assaggio conl'incredibile previsione della Confindustria, ma certamente molti altri ne seguiranno. Come è accaduto prima del referendum inglese. Tanto si può sempre fare retromarcia "dopo", come hanno fatto per esempio Credit Suisse e Morgan Stanley nei giorni scorsi: avevano annunciato che il Regno Unito sarebbe piombato in recessione, ma ora hanno cambiato idea.
In ogni caso, non bisogna dimenticare che cosa è in gioco. Stiamo parlando di cambiare profondamente la Costituzione: vogliamo metterla sullo stesso piano di che cosa preferiscono gli speculatori? Che poi, chissà. Magari, al di là di quello che dichiarano, più d'uno forse la pensa come Tony Barber, l'editorialista più autorevole del Financial Times sulle questioni europee, che era un estimatore di Renzi, ma qualche giorno fa ha scritto un commento il cui titolo dice tutto: "Le riforme di Matteo Renzi sono un ponte costituzionale verso il nulla".
Fonte: Eguaglianza e Libertà
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