di Lea Melandri
La politica, da sempre, sembra aver bisogno di semplificazioni, di proclami, di colpi verbali ben assestati, di simbologie facili e famigliari al senso comune. La guerra mai dichiarata al sesso femminile, che ha segnato fin dal suo atto fondativo il dominio di una comunità storica di uomini, non poteva non lasciare tracce durature nella vita degli individui e delle società, nella cultura e nelle istituzioni della vita pubblica, nelle abitudini quotidiane e nella storia dei popoli.
Per questo è molto importante che ogni manifestazione contro la violenza degli uomini sulle donne mantenga aperta, per quanto è possibile, la complessità dei temi, delle analisi, dei cambiamenti e delle pratiche politiche che da anni tentano di sottrarre il rapporto tra i sessi alla ‘normalizzazione’ a cui va incontro un potere dato come ‘naturale’, evidente e invisibile al medesimo tempo, come lo sono gli accadimenti che non dipendono dalla nostra volontà.
Per questo è molto importante che ogni manifestazione contro la violenza degli uomini sulle donne mantenga aperta, per quanto è possibile, la complessità dei temi, delle analisi, dei cambiamenti e delle pratiche politiche che da anni tentano di sottrarre il rapporto tra i sessi alla ‘normalizzazione’ a cui va incontro un potere dato come ‘naturale’, evidente e invisibile al medesimo tempo, come lo sono gli accadimenti che non dipendono dalla nostra volontà.
Lo stupro e l’omicidio sono le forme estreme del sessismo e sarebbe un errore considerarle isolatamente, come se non fossero situate in una linea di continuità con rapporti di potere e culture patriarcali che, nonostante la costituzione, le leggi, i ‘valori’ sbandierati della democrazia, stentano a riconoscere la donna come ‘persona’. La donna resta – purtroppo anche nel sentire e nel modo di pensare di molte donne, per ragioni di adattamento e di sopravvivenza – una funzione sessuale e procreativa. È il corpo che assicura piacere, cure, continuità della specie. Non è un caso che una delle ragioni di maggior allarme per una civiltà che avverte segnali di crisi, accerchiata dall’immigrazione crescente e dall’odio degli altri popoli, sia la denatalità.
È importante perciò che si dica che la violabilità del corpo femminile – la sua penetrabilità e uccidibilità – non appartiene all’ordine delle pulsioni ‘naturali’, ai raptus momentanei di follia, o alla arretratezza di costumi ‘barbari’, stranieri, ma che sta dentro la nostra storia, greca romana cristiana, a cui si torna oggi a fare riferimento per differenziarla dalla presenza in Europa di altre culture. Essa fa tutt’uno con la nascita della pòlis, con la divisione dei ruoli sessuali del lavoro, con la separazione tra la casa e la città, la famiglia e lo Stato. La cancellazione della donna come persona, individualità, soggetto politico, produce inevitabilmente lo svilimento del suo corpo, l’assimilazione agli altri ‘corpi vili’ – l’adolescente, il prigioniero, lo schiavo – su cui l’uomo ha esercitato fino alle soglie della modernità un potere sovrano di vita e di morte.
Le ideologie, le abitudini del ceto politico e degli intellettuali che lo corteggiano non sono molto cambiati. L’allargamento della cittadinanza alle donne, oltre a essere tuttora “imperfetta”, ha continuato a convivere con l’idea di un femminile come ‘mancanza’, ‘subumanità’, soggetto debole da proteggere, tutelare, difendere dai propri cattivi impulsi. Se l’emancipazione risulta spesso così respingente per le donne stesse che l’hanno desiderata è perché si configura come fuga da un femminile svalutato, insignificante, subalterno alla visione del mondo di cui è il prodotto.
Non suona purtroppo così lontana la definizione che ne dava, agli albori del ‘900, Paolo Mantegazza: “…questo nuovo liberto della società moderna è tollerato, non eguagliato a noi; è come un orfano raccolto per la via, che vive coi membri di una famiglia senza farne parte integrante. Se da concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura mobilissima e delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi l’aspetto delle cose”. Che altro è la “femminilizzazione” del lavoro, della politica, se non l’estensione di un ruolo tradizionalmente domestico all’intera sfera pubblica, la ‘riserva’ di energie chiamate in soccorso di una civiltà in declino?
Combattere la violenza manifesta significa oggi prendere il problema alla radice: snidare la cultura che la produce, incarnata nelle istituzioni, nelle condizioni lavorative, nella morale così come nelle immagini della pubblicità e dello spettacolo, nelle norme non scritte della tradizione e nei saperi colti. Vuol dire soprattutto riconoscere, fuori dalle ideologie che ancora esaltano la famiglia come rifugio, sicurezza, garanzia di cure e di affetti, quello che è ormai sotto gli occhi di tutti, documentato da resoconti internazionali e dalle cronache quotidiane: l’annodamento perverso di amore e odio, di legami di dipendenza,indispensabilità reciproca e strappi volti ad affermare l’autonomia individuale.
La rimozione che ancor pesa sul dominio più antico del mondo ha senza dubbio a che fare con lo sconvolgimento, materiale e simbolico, che produrrebbe la consapevolezza di quanto la costruzione della sfera pubblica sia debitrice a quel retroterra famigliare che l’ha finora sostenuta e garantita.
“Senza il nostro intervento – scriveva Virginia Woolf quasi un secolo fa – nessuno avrebbe solcato questi oceani, e queste fertili terre sarebbero ancora un deserto. Abbiamo partorito, e allevato e lavato e insegnato, forse fino all’età di sei o sette anni, i milleseicentoventitrè milioni di esseri umani che secondo le statistiche popolano il mondo”.
La violenza contro le donne, che avviene prevalentemente nelle case e per mano di padri, mariti e amanti, parla non a caso di un “ordine naturale” o “divino” che dà segni di cedimento, di una libertà che si manifesta imprevista e perturbante là dove l’uomo si era illuso finora di vedere il fondamento sicuro, obbediente e fedele, del suo agire pubblico. Gli uomini diventano violenti quasi sempre quando si profila una separazione, stuprano e a volte uccidono quando incontrano un rifiuto alle loro richieste sessuali. Uccidono per l’angoscia dell’abbandono, per il limite che la libertà dell’altra impone alla propria, o perché si trovano per la prima volta in balìa di bisogni e dipendenze rimaste in ombra o cancellati?
Il residuo più arcaico e più ‘selvaggio’ di un potere che si è incorporato nel tessuto sociale tanto da scomparire dalla coscienza, riemerge paradossalmente come ‘attualità’ nel momento in cui tornano a farsi strada tra le donne spinte emancipatorie e liberatrici: la richiesta di una presenza femminile paritaria “ovunque si decida”, la critica ai fondamentalismi di ogni specie, la messa in discussione della centralità del lavoro e dell’operaismo nelle politiche della sinistra, il ripensamento di tutte le dualità, a partire da quella che ha contrapposto e complementarizzato femminile e maschile, biologia e storia, individuo e società.
C’è chi legge questa ‘ricomparsa’ come regressione e imbarbarimento del rapporto tra i sessi. Preferisco pensare che, più che di un ritorno dell’uguale, si tratti della ‘ripresa’ di una ‘preistoria’ mai del tutto eclissata, che ora torna a scuotere la civiltà dalle sue viscere inesplorate, ma che non può non fare i conti con una coscienza diversa e con una libertà femminile finora inedita. I segnali che vengono da un movimento di donne oggi molto più esteso e diversificato nelle sue componenti, sia per età anagrafica che per interessi e pratiche politiche, fanno sperare che si stia riaprendo una stagione nuova di conflitti portati specificamente sul rapporto uomo-donna ma con la certezza di incrociare in questo modo alcuni dei passaggi oggi più difficili e inquietanti della convivenza tra gruppi sociali, popoli e culture diverse.
Fonte: comune-info.net
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