La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 3 aprile 2016

Guerra, terrorismo e diritti umani. La nascita dello Stato islamico

di Ferdinando Imposimato
Negli ultimi decenni un governo mondiale invisibile, ma reale e concreto, muove le fila dei governi nazionali, dei centri di potere economico e militare, e, con media subalterni, alimenta il terrorismo. E lo fa per giustificare nuove guerre per un nuovo ordine planetario contro Stati detentori di risorse energetiche, per stravolgere le costituzioni e giustificare interventi militari di grandi potenze in aree strategiche del pianeta. Emblematica è stata la guerra all’Iraq del 2003 di Usa, Gran Bretagna e Francia: non fu guerra contro il terrorismo di Saddam Hussein, ma di conquista. Non fu effetto dell’11 settembre 2001 in quanto fu decisa prima dell’attacco alle torri gemelle. Ed è stata proprio quella guerra la causa della crisi e del dilagare del terrorismo nel mondo1.
L’attacco all’Iraq per una lotta al terrorismo fu smentito dopo decenni sia dall’ex presidente George Bush sia da Tony Blair, che hanno ammesso «l’errore». Il 2 dicembre 2008, Bush, in un’intervista alla rete tvABC, ammise l’errore della guerra all’Iraq, «viziata da informazioni di servizi di intelligence infondate» sulla presenza di armi di distruzione di massa in Iraq.
Oggi sappiamo con certezza che sono stati ammazzati in Iraq più di un milione di civili, è stato bruciato più di un trilione di dollari e la crisi economica che sconvolge il mondo intero è la tragica conseguenza di una guerra ingiusta spacciata per lotta al terrorismo. In Iraq non c’erano armi di distruzione di massa.
Il 25 ottobre 2015 anche Tony Blair ha chiesto scusa per la guerra in Iraq. E ha riconosciuto che ci sono «elementi di verità» nella teoria di un legame tra l’invasione irachena e l’ascesa dello Stato islamico. «Chiedo scusa per errori di pianificazione e di valutazione». Blair favorì, con un falso dossier, la guerra a Saddam Hussein, guerra che fu l’inizio di altre guerre che hanno portato all’anarchia nel nord Africa e alla nascita dell’Isis. La guerra all’Iraq – scrissi nel libro La grande menzogna – non fu la risposta al terrorismo, ma «servì a conquistare le risorse petrolifere del Medio Oriente» e a «sostenere l’industria bellica americana che fattura da sola 450 miliardi di dollari l’anno, la stessa cifra che il comparto bellico raggiunge nel resto del mondo»2. Bush e Blair dissero: «Saddam vuole acquistare dal Niger armi atomiche per usarle contro di noi» e sostennero questa loro tesi col falso dossier sulla fornitura di Uranio. Le bugie entrarono nel cuore dei cittadini tramite i discorsi di Bush, di Blair e di Berlusconi, allora presidente del Consiglio, e pubblicate sul «New York Times» e sul «Washington Post» divennero verità assolute. A Londra Blair, il 24 settembre 2002, parlò del tentativo di Hussein di ottenere uranio dal Niger. Il dossier britannico del 10 settembre 2002 sulle armi di distruzione di massa fu mostrato dal M15 inglese alla Cia.
Il 10 ottobre 2002, il Congresso Usa autorizzò, col voto di Hillary Clinton, l’uso della forza contro l’Iraq. Il Senato ratificò, nonostante la smentita del primo ministro del Niger e del ministro delle Miniere che il 24 dicembre 2002 dichiararono pubblicamente che il loro paese non aveva venduto uranio all’Iraq.
Il governo italiano, presieduto da Silvio Berlusconi, con il sostegno dei servizi segreti italiani, fu il principale sostenitore in Europa della posizione americana sull’Iraq. Su queste basi nacque l’IS cui aderirono i seguaci di Hussein.
Se così stanno le cose, non è possibile parlare di errore: l’operazione fu un piano mostruoso di un governo mondiale invisibile di cui oggi conosciamo con certezza l’esistenza e la struttura. È un governo che ha la sua sede a Washington e si vale dell’apporto di tre soggetti: ADA, Cia e Bilderberg. Un documento del 1967, allegato alla requisitoria del magistrato Emilio Alessandrini sulla strage di Piazza Fontana, descrive minutamente quel governo e i suoi molteplici compiti.
Quella guerra infame del 2003 fu l’inizio di una crisi mondiale di cui milioni di persone in Medio Oriente, Africa, Europa e Italia pagano oggi le conseguenze terribili. Ma non ci sarà nessuna Alta Corte che giudicherà per questo Bush, Blair e i loro collaboratori per crimini contro l’umanità, così come resteranno impuniti i governi occidentali che hanno sostenuto l’intera operazione.
La disinformazione e la diffusione di notizie false, tramite la stampa, la radio e la tv, portarono all’asservimento a un’autorità strategica mondiale che volle la guerra. E in ciò sta anche oggi la principale fonte di pericolo per il profilarsi di una guerra che copre la crisi interna dei paesi che la vogliono e si ammanta di lotta al terrorismo. Una guerra che avrebbe portata devastante per l’intera umanità. Viene alla memoria la terribile profezia di Albert Einstein del 1946: «le armi distruttive a disposizione del genere umano sono di una pericolosità tale che nessun luogo della terra è salvaguardato dal rischio di una distruzione totale improvvisa».
In questo quadro va esaminata l’ondata di terrorismo jihadista in Francia, proprio nel momento di maggiore crisi economica e politica di questo paese. La sera di venerdì 13 novembre 2015, poco dopo le 21, sette attacchi simultanei di terroristi armati di mitra e bombe uccisero a Parigi 130 persone. Il primo attacco avvenne allo stadio, ove, in presenza di 50.000 persone, era in corso una partita di calcio tra Francia e Germania. Era presente il presidente Hollande che fu portato via da uomini della sicurezza. Uomini imbottiti di esplosivo tentarono di forzare l’ingresso allo stadio, ma furono fermati dalla polizia. Rimasero uccise tre persone.
Il secondo attacco, il più grave, avvenne nell’undicesimo arrondissement, non lontano dal luogo in cui avvenne l’attentato a Charlie Hebdo. I terroristi – quattro attentatori tra cui una donna –, armati di AK 47, irruppero nel teatro Bataclan, un locale per giovani ove era in corso un concerto rock di un band americana. La sala, in Boulevard Voltaire, era affollata. Prima dell’attacco, i terroristi, 5 o sei, gridarono «Allah Akbar», Allah è grande. Cominciarono poi a sparare in mezzo alla folla. Le luci si accesero, la band scappò dal palco. Uomini e donne, un centinaio, furono messi spalle al muro e almeno 20 massacrati uno per volta. Molti cercarono di fuggire, ma rimasero prigionieri per molto tempo. Due terroristi erano a volto scoperto, avevano circa 20 anni.
Altro assalto avvenne al bar Carillon, all’angolo tra rue Bichat e rue Alibert, vicino al canale Saint Martin. Anche qui, quando iniziarono gli spari, nessuno voleva credere all’attacco terroristico. «Sembravano fuochi d’artificio». Altro attacco avvenne al Petit Gambridge della rue Bichat.
Non era il primo attacco alla Francia. Il 7 gennaio 2015 due uomini incappucciati e armati entrarono nella redazione del giornale satirico «Charlie Hebdo»: uccisero 12 persone. Quattro giorni dopo due milioni di parigini sfilarono, uniti da dolore, indignazione, repulsione di ogni fanatismo. Anche allora risuonò per le strade di Parigi La marsigliese. Molti “marciatori” esibirono il Trattato sull’intolleranza di Voltaire, un libricino ristampato in fretta e venduto a migliaia di copie.
La carneficina non fu una sorpresa per chi conosceva i fatti passati. Gli allarmi-bomba erano arrivati perfino il pomeriggio del 13 novembre 2015. Il Bataclan nel 2011 era stato oggetto di minacce da parte di gruppi antisionisti. Nel 2011 il teatro era stato oggetto di un piano di attacco jihadista contro i proprietari ebrei. A segnalare il progetto ai servizi francesi era stato un militante del gruppo Army for Islam vicino ad Al Qaeda. Ma questo non bloccò gli attacchi. Perché?
Parigi è la capitale d’Europa con più islamici; una comunità musulmana di oltre cinque milioni di cittadini francesi, con i diritti connessi. Di questi ben 800 foreign fighters – combattenti stranieri – erano andati in Siria a combattere per lo Stato islamico contro Assad. L’aspetto da non trascurare nella ricerca del movente era quello riferito da Bernard Guetta in un articolo delirante su «la Repubblica». Il filosofo francese scrisse: «la Francia è in prima linea nella lotta contro i fanatici del Jihad in Mali, in tutto il Sahel e in Nigeria; e siamo in prima linea da soli senza gli Stati Uniti e il resto dell’Europa. La nostra aviazione colpisce i campi di addestramento di Daesh in Siria laddove vengono addestrati questi miserabili imbecilli in cerca di un senso alla loro esistenza».
Un documento Isis rivendicò i massacri di Parigi. Tradotto in francese, esordì con il riferimento al Corano: la sura 59 Al Hasr. Riguarda un episodio degli albori del conflitto tra Islam e popolo ebraico e tra musulmani e miscredenti. In realtà la sura 59 si riferiva alla cacciata da Medina, in Arabia Saudita, per volontà di Maometto, degli ebrei Bani Nadir, avvenuta nel IV anno dall’Egira nel 625 d.C. Il comunicato minacciava anche France croisée – Francia crociata – i “miscredenti” cristiani, nemici da colpire con gli ebrei. Dopo il 13 novembre su twitter rimbalzò la minaccia dell’IS: «il prossimo attacco sarà a Londra, Washington e Roma».
«Dabiq France», organo ufficiale dell’IS, spiegava il perché dell’attacco: «la Francia manda i suoi aerei in Siria, bombarda uccidendo i bambini, oggi beve alla stessa coppa». I fatti erano veri. Domenica 27 settembre 2015 lo stesso Hollande aveva ammesso che la Francia aveva compiuto attacchi aerei contro lo Stato Islamico in Siria. Disse che gli attacchi erano stati compiuti in base alle informazioni raccolte da alcuni voli di ricognizione sopra la Siria. Uno degli obiettivi fu un campo di addestramento dell’Isis nell’est della Siria. Secondo «Le Monde» obiettivo dei bombardamenti fu Raqqa, la città a nord della Siria che l’Isis dichiarò propria capitale. Sia i francesi che i britannici partecipavano alla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti contro l’Isis.
Circa il bilancio del conflitto dal gennaio 2014, con l’attacco dell’Isis alla provincia irachena di al-Anbar, il rappresentante speciale Onu in Iraq, Nikolay Mladenov, rese noto, il 23 settembre 2014, che «da gennaio in Iraq ci sono stati 25.000 civili colpiti, di cui almeno 8.500 morti e oltre 1,8 milioni di persone sono sfollate nel paese da gennaio. Solo nelle ultime quattro notti altre 10.000 persone sono state costrette ad abbandonare le loro case»3.
Fu un caso che Francois Hollande intensificò la guerra preventiva allo Stato islamico nel periodo di suo maggiore declino politico personale e di crisi del paese? C’è da dubitarne. Da Parigi il 26 maggio 2015 la «Presse» diffuse un sondaggio: «Tre francesi su quattro non credono che François Hollande sia un buon presidente. Lo rivela un sondaggio pubblicato oggi dall’istituto Odoxa». In tre anni di presidenza, la popolarità di Hollande era scesa ai livelli minimi. Nessuna delle promesse fatte era stata rispettata. Ma Hollande era famoso come tombeur de femmes. Lo mise in luce «Liberation» il 21 agosto 2105 con un pezzo esilarante dal titolo Don Juan. Più sarcastica fu la giornalista dell’«Express» Elise Karlin che raccontò come la vita privata di Hollande «turba, intacca e talvolta minaccia il suo quinquennato presidenziale». L’ultimo episodio galante di Hollande fu una farsa: un paparazzo lo colse a bordo di un motorino mentre entrava in un appartamento messo a disposizione della giovane amante, la signorina Julie, di professione attrice. Mise a repentaglio la sicurezza personale, privandosi, quale capo dello Stato, della dovuta sorveglianza di polizia; andando in un nido d’amore, in pieno centro a Parigi, a poche centinaia di metri dall’Eliseo. L’alcova dell’amore tra François e Julie era stata nella disponibilità di un criminale della mafia corsa, condannato a 18 mesi di carcere con condizionale nel processo per la bisca di lusso «Cercle Wagram», collegata alla gang corsa Brise de Mer. Un’alcova strategica, che, secondo Valeur Actuelles, sarebbe stata frequentata in passato anche dall’ex presidente Jacques Chirac.
Hollande dunque non era troppo assillato dai problemi della Francia. Nonostante l’impopolarità record, la disoccupazione crescente e il suo consigliere politico travolto da uno scandalo su un presunto conflitto di interessi, continuava a mostrarsi rilassato. Ma l’attacco di novembre segnò una svolta a suo favore. Riprese quota con i suoi devastanti ordini di intensificare i bombardamenti in Siria e Iraq.
Ancora una volta il terrorismo ha rappresentato in Francia l’antagonismo alle istituzioni da parte di gruppi armati islamici che reagivano a stragi indiscriminate della popolazione civile e nel contempo strumento del potere politico per conservare se stesso. Lo stesso fenomeno che attraversò l’Italia per decenni, e che prese il nome di strategia della tensione. Anche se i casi di terrorismo islamico in Europa sono stati frequenti, abbiamo spesso assistito a una loro strumentalizzazione politica: la tendenza a demonizzare e isolare gli immigrati musulmani omologandoli ai terroristi. Anche coloro che si sono integrati da anni nella nostra società. Inoltre, guai a pensare che in Francia coloro che imbracciano le armi in nome dell’Islam siano spinti solo da fanatismo religioso. La componente religiosa è importante, ma si unisce a una motivazione sociale e politica più profonda che oppone i partigiani della lotta armata a un potere che essi giudicano empio, corrotto e ingiusto. Né si può ignorare che la guerra scatenata da Hollande è per lo più una guerra che tocca la popolazione civile e perfino agli ospedali, come testimoniano medici senza frontiere.
Ci chiediamo inquieti: come è possibile che la Francia abbia scelto François Hollande, uomo di tanta mediocrità e di tanto squallore morale? La risposta è che la scelta dei mediocri è il rischio delle democrazie. La gente superficiale ama vedersi rappresentata dai propri simili.
Hollande ha certamente tratto vantaggio dall’attacco e dalla guerra all’IS, guerra condotta senza distinguere tra obiettivi civili e obiettivi militari. Oggi Hollande è impegnato su due fronti: una dissennata guerra preventiva in Siria e Iraq e il cambio della Costituzione, limitando così le libertà fondamentali. Ha cercato anche di trascinare l’Italia in guerra. Ma, se la guerra è un disastro per tutti, ancor più lo sarebbe per l’Italia, la più esposta a possibili rappresaglie. E tuttavia un cedimento dell’Italia alla linea militare ha fatto capolino sul «Corriere della Sera»: «un’Italia che si candidi ad avere un ruolo guida, nell’ambito di una eventuale iniziativa Onu». Tradotto in chiaro, se c’è una missione militare Onu, l’Italia la guida. Questa ipotesi assurda e pericolosa è stata confermata da una notizia: «il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha ribadito che l’Italia intende avere un ruolo guida in una futura missione, e che occorre il coinvolgimento di tutti, innanzitutto degli Stati Uniti»4. Tutto questo ci può condurre, nell’indifferenza della gente, verso una guerra totale, innescata dai nuovi conflitti.
Proclama Hollande in modo ossessivo per eludere i problemi interni non risolti: «La Francia è in guerra. E di fronte agli atti di guerra commessi sul nostro territorio dobbiamo essere spietati»5, senza dire che vittime sono prevalentemente i civili. Ma non basta: Hollande vuole cambiare la Costituzione e per questo chiede per sé alle Camere riunite a Versailles poteri eccezionali «per combattere la guerra contro un nemico che non è un gruppo ma un esercito terroristico». È un modo per incrementare il terrorismo dentro e fuori l’Europa.
Hollande ha avviato una riforma costituzionale, con provvedimenti di emergenza che si ispirano alle proposte di Nicolas Sarcozy e Marine Le Pen, finora respinte. E ha promosso un disegno di legge per allungare lo stato di emergenza fino a tre mesi, rispetto ai 12 giorni attuali.
In verità la Costituzione della V Repubblica contempla già due regimi speciali. Uno è quello dell’art. 16 della Costituzione relativo ai poteri eccezionali che il capo dello Stato può assumere, dopo avere sentito il primo ministro, i presidenti delle Camere e il Consiglio costituzionale, quando le istituzioni della Repubblica, l’indipendenza della Nazione, l’integrità del suo territorio o l’esecuzione degli impegni internazionali sono minacciati in maniera grave e immediata e quando è interrotto il regolare funzionamento delle istituzioni. L’altro riguarda l’art. 36 che consente al Consiglio dei ministri di dichiarare “lo stato d’assedio” per la durata di 12 giorni (prolungabili su autorizzazione del Parlamento), che si applica in caso di pericolo imminente derivante da una guerra straniera o quando la Francia è attaccata o colpita da una rivolta armata e prevede il trasferimento di alcuni poteri eccezionali di polizia all’autorità militare.
Lo stato di emergenza in cui si trova la Francia non ha definizione costituzionale, ma nasce da una legge del 1955. Basta un decreto per attivarlo, ma è necessaria una legge ordinaria per prolungarlo oltre i 12 giorni.
Lo stato di emergenza invocato da Hollande limita fortemente le libertà pubbliche e rende possibili l’instaurazione di un coprifuoco, la regolamentazione della circolazione o del soggiorno da parte dei prefetti, l’obbligo di dimora, la chiusura di locali e bar, il divieto di manifestazione pubblica, perquisizioni diurne e notturne senza l’autorizzazione di un giudice, controlli sulla stampa e sulla radio. Soprattutto lo stato d’emergenza, non previsto per una crisi di lunga durata, è protratto in caso di «pericolo imminente risultante da attentati gravi all’ordine pubblico o eventi che per loro natura e gravità assumono il carattere di calamità pubblica».
François Hollande ignora la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, vincolante anche per la Francia che l’ha ispirata, e invoca un «regime costituzionale» per «disporre di uno strumento idoneo ad applicare misure eccezionali per una certa durata senza passare dallo stato d’assedio e senza rinnegare le libertà pubbliche», che invece rinnega di fatto.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, firmata a Parigi, nata dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo della Rivoluzione francese, all’art. 2 stabilisce: «a ogni individuo spettano tutti i diritti e le libertà enunziate nella presente Dichiarazione, senza distinzione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione»; all’art. 7: «tutti sono eguali davanti alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a una eguale tutela da parte della legge»; all’art. 9: «nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato detenuto o esiliato»; all’art. 12: «nessun individuo potrà essere sottoposto a interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesioni dell’onore o reputazione» e infine all’art. 15: «ogni cittadino ha diritto a una cittadinanza: nessun individuo potrà essere privato della sua cittadinanza». Tutte norme violate.
Sallustio scrisse pagine memorabili sui poteri eccezionali invocati dopo la congiura di Catilina. E riferisce che, nel duello in Senato tra Cesare e Catone, Cesare si oppose a una legislazione di emergenza a Roma. «La passione, se lasci che ti possieda, prende il sopravvento e l’animo perde forza. Potrei citare un gran numero di casi in cui re e popoli, mossi da ira o da pietà, hanno commesso gravi errori nelle loro delibere; preferisco invece rammentare quelli in cui gli avi nostri, dominando i moti dell’animo, hanno agito saggiamente, conformi alle norme. Le azioni di chi esercita un vasto impero e trascorre l’esistenza ai vertici del potere le conoscono tutti; e perciò, più grande è la fortuna, minore la facoltà di fare ciò che si vuole. [Voi senatori] considerate le conseguenze che la vostra decisione potrà avere in seguito: ogni abuso deriva da un precedente legittimo: ma se poi il potere passa nelle mani di uomini meno saggi, meno valorosi, quel provvedimento eccezionale, adottato a carico dei rei, potrà venire applicato a innocenti, che non lo avranno meritato. Sconfitti gli ateniesi, i lacedemoni imposero loro trenta magistrati per governare la loro repubblica; e questi per prima cosa misero a morte i peggiori criminali, che erano in odio a tutti; il popolo se ne rallegrò, disse che era ben fatto. Ma poi, aumentando la loro libertà di azione, cominciarono a sopprimere brava gente e delinquenti in un fascio, secondo il loro arbitrio, e tenere gli altri sotto il terrore; e così il popolo fu oppresso dalla schiavitù e scontò duramente la sua stolta letizia».
Il tema delle libertà fondamentali e il rischio di una loro compressione agita gli animi dei cittadini: dottrina ed esperti politici si interrogano sulla percorribilità, la necessità e l’utilità della riforma. So per esperienza diretta che azioni indiscriminate dello Stato sono causa di incremento del terrorismo e che la violazione dei diritti umani contro i terroristi potenzia il terrorismo. Spesso nei documenti ideologici di gruppi armati di ogni tipo si sostiene la necessità di spingere il nemico a reazioni violente e indiscriminate, lesive dei diritti umani. Il lager di Guantanamo è stato l’errore più grave dell’America e ha alimentato il terrorismo in tutto il mondo. Non a caso la tuta gialla dei prigionieri di Guantanamo viene fatta indossare alle vittime dell’IS. Brian Jenkins, uno dei maggiori esperti della sicurezza Usa, riconobbe che il rispetto delle regole è un punto centrale nella lotta al terrorismo. «Quelli che vogliono operare fuori delle regole – disse Jenkins – fanno il gioco di Al Qaeda, che vuole batterci militarmente e destabilizzarci politicamente e socialmente». E aggiunse: «è di grande interesse che in Yemen i giudici si siano messi a discutere con i terroristi i contenuti del Corano, con l’intento di negare la legittimità morale e religiosa delle loro azioni»6.
In Francia l’economista Thomas Piketty, l’ex europarlamentare Cohn-Bendit, lo scrittore Jacques Attali, il sociologo Pierre Rosanvallon hanno rivolto un appello su «Le Monde» per non cambiare la costituzione. «Parlamentari, in nome delle libertà, rifiutate questo testo!». La mobilitazione contro la revisione costituzionale voluta da Hollande cresce di giorno in giorno. L’ultimo attacco viene da un gruppo di intellettuali di sinistra che su «Le Monde» hanno scritto: «Pensate all’interesse supremo dei francesi, prima di votare».
La riforma sta spaccando la Francia. Annunciata subito dopo gli attentati del 13 novembre, propone di inserire lo stato di emergenza nella Carta e di revocare la nazionalità ai cittadini colpevoli di reati di terrorismo. È su questa cittadinanza “usa-e-getta” che si concentrano le critiche. Il governo aveva deciso di applicare la norma solo alle persone con doppio passaporto, salvo poi fare retromarcia per non essere accusato di discriminazione tra francesi. Il riferimento alla binazionalità è scomparso, ma rimane il problema di come fare per non creare apolidi, cosa che violerebbe la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. «Cosa sarebbe il mondo, se ogni paese decidesse di espellere i suoi connazionali giudicati indesiderabili?», si domanda l’ex ministro della Giustizia, Christiane Taubira, nel pamphlet che ha pubblicato dopo le sue dimissioni causate dalla riforma costituzionale. Sono tante le voci che si levano contro il testo che dovrebbe essere votato in prima battuta, per poi passare al Senato.
«Il progetto del governo tratta in modo diseguale i francesi, apre la strada alla creazione di apolidi e soprattutto inserisce nella Costituzione una minaccia per le nostre libertà politiche, fondamento stesso della democrazia», scrivono i promotori dell’appello. A preoccupare sono anche le condizioni per cui si potrebbe togliere la cittadinanza: non solo reati contro la sicurezza dello Stato ma anche «l’attacco grave alla vita della Nazione». Una definizione ambigua, secondo i firmatari dell’appello: «Significa aprire la porta alla revoca di nazionalità anche per reati di opinione, attività sindacale o per l’opposizione a un potere autoritario».
La legge dovrà essere approvata da deputati e senatori, per poi essere presentata davanti al Congresso, ovvero alle Camere riunite. Hollande dovrà ottenere i due terzi dei voti per far passare la riforma. Ma la fronda a sinistra aumenta.
Anche a destra, dove alcuni esponenti avevano invocato le misure proposte dal leader socialista, si levano voci di dissenso. François Fillon ha annunciato che non sosterrà il progetto di revisione costituzionale: «le leggi ci sono già». E il favorito alla primarie, Alain Juppé, si è schierato contro.
Migliaia di persone hanno manifestato contro il prolungamento dello stato d’emergenza che resta in vigore e, salvo imprevisti, sarà prolungato. Contro la volontà del governo di modificare la costituzione su questo punto e sulla decadenza della nazionalità per i terroristi migliaia di persone hanno marciato a Parigi sotto la pioggia. «È pericoloso. È servito ad arrestare manifestanti che non c’entravano nulla con il terrorismo. Non vedo a cosa possa servire prolungarlo e in ogni caso non serve contro il terrorismo», dice una manifestante. Manifestazioni analoghe si sono tenute in decine di città in tutto il paese.
La sinistra è in prima linea contro i progetti del governo socialista di Manuel Valls. Jean-Luc Mélenchon, membro del Parlamento europeo ed ex leader del Parti de Gauche sembra dare il la a un nuovo modo di porre il problema: «Non soltanto la minaccia del terrorismo non giustifica lo stato d’emergenza. Al contrario: è proprio perché ci sono dei terroristi che la nostra repubblica deve essere ancora più democratica».

Note

1 Il governo mondiale è descritto nel Rapporto RSDIZ n 230 del 05.06.1967 che ha per oggetto: «Gruppi di pressione internazionale in Occidente». Esordisce così: «Il presente rapporto consta di un testo base e di tre note» (nota sulla Cia da Sezione 1P; nota sul Gruppo Bilderberg; nota su ADA (American Democratic Action) di cui fece parte A. Schlesinger, consulente di J. F. Kennedy). Nel rapporto si parla della «Guerra occulta che non è una novità [sic!] e di gruppi di pressione internazionali in Occidente». È evidente che la guerra occulta si identifichi col terrorismo per «seminare la paura e la richiesta di misure legislative radicali». «Queste forze contribuirono a installare e a consolidare nel potere la Cdu in Germania occidentale, il Mrp in Francia e la Dc in Italia». L’organizzazione ha sede a Bruxelles e il vertice negli Stati Uniti. «Durante gli ultimi quattro mandati presidenziali, la forza più determinante sull’influenza Usa verso l’estero è stata la Cia, la quale ha operato, al margine dei canali governativi ufficiali, attraverso gli uomini più significativi dei cosiddetti [sic!] Sindacati liberi (Meany & Reuther) e della ADA, i cui fondatori furono Humphrey e Stevenson». Presidente ADA divenne A. Schlesinger, braccio destro di J. F. K. Il rapporto fa un’ammissione straordinaria: «A partire dall’Amministrazione Kennedy – con la quale la Cia conseguiva la maggiore età – l’organizzazione si orienta verso posizioni sempre più estremiste, fino a divenire un autentico governo invisibile che orienta a suo capriccio la politica governativa, con una potenza e un’abbondanza di mezzi che non hanno precedenti nella storia americana. La Cia, in origine progettata come organismo informativo per la politica estera del capo della Casa Bianca, si è trasformata in una forza di sovversione che si insinua negli affari interni degli altri paesi». Il documento rivelava inoltre che «le accuse rivolte alla Cia d’interferenza nella politica interna dei paesi europei sono assolutamente vere». Il rapporto aggiungeva: «negli ultimi tempi i dollari americani per mantenere la guerra fredda non sono andati a forze moderate, ma alle sinistre più estreme. A queste e alle organizzazioni cattoliche a carattere più spiccatamente liberal-progressiste, come l’Internazionale giovanile democristiana o i sindacati appartenenti alla Cisl internazionale».

2 F. Imposimato, La grande menzogna, Roma, Koinè, 2005, p. 26.

3 «Enduring Freedom», 24 settembre 2014.

4 Marco Galluzzo, «Corriere della sera», 20 febbraio 2015.

5 «Corriere della sera», 17 novembre 2015.

6 F. Imposimato, La grande menzogna cit.

Fonte: Il Ponte

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