di Marco Bascetta
«I centri sociali, non sappiamo quanto infiltrati dalla camorra, si sono messi al servizio di un gioco politico distruttivo», così si conclude «il punto» di Stefano Folli sulla Repubblica di giovedì 7 aprile. Saggezza vuole che di ciò di cui non si sa, per giunta dichiarandolo, converrebbe tacere. Ma un certo giornalismo italiano sostituisce volentieri l’insinuazione alla conoscenza. La frase è infatti formulata in modo da dare per scontata l’infiltrazione camorrista nei centri sociali. Ignota sarebbe solo la sua entità.
Del resto, per la maggior parte degli opinionisti in voga, i centri sociali, nei quali mai hanno messo piede, costituiscono perlopiù uno spettro, una enclave barbarica, una incubatrice di violenza, una immagine stereotipa da propinare ai propri lettori. Che importa saperne di più di realtà autorganizzate che operano costruendo socialità e servizi, soprattutto nel meridione (dove il pil pro capite, come certifica l’Istat, è la metà di quello del nord), in aree abbandonate dalle istituzioni, abbindolate dalle promesse, e taglieggiate dalla criminalità più o meno organizzata?
Da tempo impera l’abitudine di ricondurre all’influenza della camorra qualsiasi movimento di protesta scomodo o sgradito ai governanti.
In ogni modo, questa «manovalanza» infiltrata sarebbe stata assoldata dal sindaco di Napoli Luigi De Magistris (già reo di avere aperto un dialogo con i movimenti cittadini e perfino con le occupazioni) per richiamare in vita nientemeno che lo spirito del «boia chi molla», parola d’ordine dannunziana che fece da bandiera alla rivolta di Reggio Calabria del 1970-71.
Quell’insurrezione, che il nostro giornalista definisce a vanvera «sanfedista» (richiamo, per il lettore colto, ai Lazzaroni che affossarono la rivoluzione napoletana del 1799) fu in realtà un’insorgenza popolare trasversale, espressione di un profondo disagio e di una condizione di emarginazione, presto egemonizzata dalla destra e dai notabili democristiani del luogo, che reclamava per Reggio il ruolo di capoluogo (e sede del governo) regionale, assegnato invece a Catanzaro. Finì, dopo dieci mesi e diversi morti, con i carri armati per le strade e un compromesso che lasciava a Reggio la sede dell’Assemblea regionale.
Cosa c’entra tutto questo con lo scontro tra De Magistris e Renzi sull’area di Bagnoli e con il corteo napoletano di mercoledì? Niente naturalmente, ma basta l’insinuazione, l’evocazione minacciosa di uno spettro quasi dimenticato. Che dovrebbe servire a sostenere le ragioni dell’ennesimo «governo del fare», contro un presunto localismo tanto geloso delle sue prerogative quanto squattrinato e dunque letargico nel suo agire concreto.
In realtà la questione è tutt’altra.
Ci sono infatti due modi ben diversi per affrontare il riassetto di un’area metropolitana disastrata.
Quella di coinvolgere la popolazione e le forze sociali che la abitano e la animano, modulando il progetto sulle esigenze che da queste soggettività provengono, o, ritenendo il tessuto sociale affetto da inclinazioni camorriste, l’imposizione di un modello già confezionato tramite agenzie e commissari.
Questa seconda scelta, per rimanere alle facili metafore storiche, richiama il cosiddetto «dispotismo illuminato». Ma in Italia se il dispotismo non è mai mancato, l’illuminazione assai di rado si è fatta vedere.
Sulla carta tutto può apparire scintillante, verde albero e non grigio cemento, ma nella realtà, e nell’interesse degli investitori, se le forze sociali vengono tenute fuori dal gioco, tutto può facilmente cambiare.
La zona rossa che i manifestanti napoletani intendevano violare è appunto la rappresentazione di questa chiusura.
Fonte: il manifesto
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