di Michelangelo Cocco
“Ora che il governo centrale ha ordinato alle miniere e alle acciaierie cinesi di ridurre drasticamente la sovracapacità, il compito spinoso di licenziare i dipendenti e ricostruire l’economia sta producendo le sue ferite. E il dolore si sta diffondendo in tutto il Paese tra lavoratori, aziende e governi locali”.
L’incipit di un articolo pubblicato il 16 marzo scorso dal quindicinale Caixin non poteva essere più efficace nel descrivere le difficoltà che la leadership di Pechino affronterà nei prossimi mesi nell’applicare le riforme strutturali dell’offerta promosse dal presidente Xi Jinping e inserite nel 13° Piano quinquennale (2016-2020) recentemente approvato dall’Assemblea nazionale del popolo, il Parlamento della Repubblica popolare.
Mantenere per 30 anni in doppia cifra la crescita del prodotto interno lordo (Pil) potendo contare sul cosiddetto “dividendo demografico” (abbondanza di manodopera giovane e salari bassi) e senza rispettare l’ambiente – sostengono molti analisti – è stato facile, il bello arriva ora, nel momento in cui il vecchio modello di sviluppo da “fabbrica del mondo” presenta drammaticamente il conto e s’impone un rapido cambiamento di schema.
Crescita del Pil più lenta (Li Keqiang ha messo sul tavolo un’inedita “forchetta”, tra il 6,5% e il 7% di qui al 2020),riduzione della dipendenza dall’export e dagli investimenti, sforbiciata all’eccesso di capacità produttivache affligge molti settori, riforma delle aziende di Stato (SOE), sviluppo della green economy e del terziario: è tutto nero su bianco nel documento di pianificazione di sovietica memoria (il primo adottato in Cina fu quello del 1953-1957) che il premier ha portato nei giorni scorsi in aula. Ma una cosa sono gli obiettivi del Piano, un’altra il loro raggiungimento che, per i prossimi cinque anni si annuncia, oltre che complicato, “doloroso”.
Tra i settori più colpiti dalle ristrutturazioni figurano quello minerario e quello siderurgico. Secondo l’Associazione nazionale dei produttori di carbone, il 90% delle principali aziende minerarie ha visto i profitti diminuire del 90% nel 2015, mentre i dati dell’Associazione cinese del ferro e dell’acciaio dicono che le 99 maggiori realtà siderurgiche del Paese l’anno scorso hanno perso nel complesso 64,5 miliardi di yuan. Il rallentamento dell’economia cinese fa sentire il suo effetto sulla siderurgia, con la domanda interna diminuita del 4% sia nel 2013 sia nel 2014 e del 5,4% l’anno scorso. E le previsioni parlano di un calo medio del 4% annuo fino al 2020. Nel tentativo di limitarne le ripercussioni sull’occupazione, nel 2015 sono state prodotte 300 milioni di tonnellate di acciaio in eccesso. La sovracapacità di carbone, sempre l’anno scorso, ammonta a 1,7 miliardi di tonnellate.
Nel rapporto del governo che il 5 marzo scorso Li ha portato all’Assemblea nazionale del popolo si sottolinea la necessità di rimodulare la produzione di acciaio e carbone secondo le riforme strutturali dell’offerta previste dal Piano. Una recente direttiva del Consiglio di Stato (il governo) ha fissato gli obiettivi di riduzione a 100 – 150 milioni di tonnellate per quanto riguarda l’acciaio (-13%) e 500 milioni di tonnellate per il carbone (-18%) nell’arco dei prossimi cinque anni.
Il premier ha fatto sapere che lo Stato stanzierà 100 miliardi di yuan per i prossimi due anni, per mantenere i lavoratori che perderanno il posto: 1,8 milioni nei prossimi cinque anni secondo il ministro delle risorse umane Yin Weimin (1,3 milioni nel settore minerario e 500 mila in quello siderurgico).
La terapia d’urto per cercare di cambiare un sistema produttivo giunto al capolinea non si limiterà al carbone e all’acciaio: presto anche cemento, alluminio e vetro saranno colpiti dalla cura dimagrante delle riforme strutturali. Secondo Caixin, i governi di molte province si stanno adeguando alle nuove direttive, anche per ottenere in cambio sostegno finanziario e sussidi per i lavoratori da ricollocare.
Il 18 marzo scorso, Beijing News ha dato la notizia di un processo celebrato sulla pubblica piazza contro otto migranti a Langzhong, nella provincia sudoccidentale del Sichuan. Gli operai erano stati accusati di aver “ostacolato le forze dell’ordine” durante una protesta inscenata l’anno scorso per chiedere gli arretrati al loro datore di lavoro, un costruttore. Secondo quanto riferito dal quotidiano, sono stati puniti con pene da sei a otto mesi di carcere. La sentenza letta in strada (un evento raro nei confronti di lavoratori) – che secondo Beijing news mira a “educare il pubblico al rispetto della legge” – testimonia dei timori della leadership per l’aumento degli scioperi, che rischiano di incrinare la “stabilità sociale”.
A fine febbraio, circa 2.000 operai hanno marciato lungo le strade di Guangzhou (Canton) per protestare contro i tagli ai salari operati dall’azienda siderurgica Lianzhong Stainless Steel Corp. (in mano al colosso di Stato Angang).
Negli stessi giorni a Pingxiang, nella provincia orientale del Jiangxi, un centinaio di minatori assediava l’ufficio della Pingxiang Mining Industry Group che aveva sospeso l’estrazione in tre impianti e tagliato i salari di alcuni dei suoi 16.200 impiegati.
Nel periodo tra il 1 dicembre e l’8 febbraio scorso, China Labour Bulletin ha registrato un aumento del 55% delle proteste per il mancato pagamento di arretrati nel settore delle costruzioni, insieme a un incremento del 23% in quello manifatturiero e del 5,6% in quello minerario. Nel novembre scorso, il ministero delle Risorse umane e della Sicurezza pubblica ha riferito che, rispetto allo stesso periodo del 2014, nei primi tre trimestri del 2015 le proteste di questo tipo sono aumentate del 34%: 11.007 manifestazioni di lavoratori migranti che chiedevano il pagamento degli arretrati.
Ma le proteste segnalate dall’organizzazione non governativa con sede a Hong Kong potrebbero rappresentare soltanto l’anticipo di ciò che vedremo nei prossimi mesi, quando dovrebbe entrare nel vivo la riforma delle aziende di Stato (SOE).
Tagli, fusioni, ristrutturazioni: la terapia shock per “diventare globali”
Ciò di cui si discute è la trasformazione di alcune SOE (anche attraverso ristrutturazioni e fusioni) in conglomerati in grado di competere con le maggiori corporation sui mercati internazionali. Per raggiungere questo traguardo è necessario tagliare i costi, tra cui quello del lavoro. “Il primo esempio è quello dell’industria petrolifera – scrive News China nel numero di aprile -. Nel 2015 Sinopec, la principale compagnia di raffinazione cinese, ha vantato il secondo ricavo annuale nella classifica ‘Fortune Global 500’. Tuttavia i suoi profitti sono stati pari solo al 35% di quelli della terza in graduatoria, Royal Dutch Shell, che ha un numero di dipendenti pari al 10% della sua concorrente cinese”.
Per evidenziare quanto un cambiamento delle SOE sia improcrastinabile, il giornale ricorda che, nel frattempo, “aziende del settore pubblico come quelle dei trasporti, sanitarie e dell’istruzione, sono diventate così orientate al mercato che hanno prodotto un impatto negativo sul welfare e costano così tanto che sono accusate di contribuire a mantenere bassi i consumi”.
Rimandata per anni, la riforma delle SOE (106 quelle “centrali”, controllate dalla State-owned Assets Supervision and Administration Commission, SASAC, migliaia se si considerano anche quelle provinciali e regionali) rientra tra gli obiettivi della leadership e viene chiesta a gran voce dalle istituzioni finanziarie internazionali.
Il 29 dicembre scorso la SASAC, la National Development and Reform Commission (NDRC) e il ministero delle Finanze hanno pubblicato le linee guida che riscrivono le funzioni di queste compagnie, alcune delle quali sono state definite “aziende zombie” per le perdite prodotte e la quantità di dipendenti a libro paga.
Tutte le SOE – che hanno garantito per decenni ai loro dipendenti la celeberrima “ciotola di riso di ferro” (vitto, alloggio e servizi di base gratuiti) – diventeranno “entità di mercato”, dovranno cioè produrre utili. Quanto però ogni SOE opererà effettivamente come un attore di mercato dipenderà da come sarà classificata.
In base alla nuova politica, le SOE saranno suddivise in due categorie: quelle di “pubblico interesse”, cioè che forniscono beni o servizi alla popolazione e che resterebbero interamente finanziate e guidate dal governo; e tutte le altre, definite “commerciali”, completamente o parzialmente di proprietà dello Stato, ma con un management “indipendente”.
Si tratta di una suddivisione estremamente problematica. Basti pensare – sottolinea Caixin – che un’azienda come State Grid (fornitura elettrica) pur ricadendo naturalmente tra quelle di “pubblico interesse”, ha sviluppato negli anni un’estesissima rete di attività in altri settori di tipo commerciale.
“Molto più delle aziende private – conclude l’articolo di News China – in tutto il mondo le aziende di Stato devono mantenere un equilibrio tra i loro obiettivi sociali e quelli finanziari. A seconda di quanto questa operazione ha successo, ha ripercussioni sul complesso dell’economia e della società. E ciò vale in particolare per le SOE cinesi, la cui influenza resterà molto significativa, sia in Cina che nel mondo”.
Fonte: cinaforum.net
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