di Francesco Martone
“Keep the oil under the soil”. Lasciamo il petrolio sottoterra, urlavano gli attivisti di mezzo mondo a Parigi poco prima dell’inizio della ventunesima Conferenza delle Parti sui Cambiamenti Climatici, la Cop21. È un movimento globale per la giustizia climatica, una realtà reticolare, che lega comunità e organizzazioni del Nord e del Sud del mondo. L’idea di mantenere il petrolio sottoterra nacque in Ecuador, paese assai dipendente dall’oro nero.
“Yasunizzare”, dal nome del parco Yasuni, riserva biologica sotto la quale si trovano importanti giacimenti petroliferi, significava lasciare il petrolio sottoterra, optare per un’altra via, quella del riconoscimento del debito ecologico, e della promozione di energie alternative. Quel petrolio non estratto avrebbe rappresentato un patrimonio in termini di emissioni evitate e protezione della biodiversità, in cambio del quale la comunità internazionale si sarebbe impegnata creare un fondo internazionale per la tutela di Yasuni e la promozione di energie rinnovabili.
Non se ne fece nulla, e oggi le compagnie petrolifere straniere stanno accaparrandosi quelle concessioni e altre nelle terre dei Sarayaku, o del popolo Sapara, che difenderanno con i denti la loro terra. Dall’Amazzonia all’azione di disobbedienza civile contro la megaminiera di carbone di Ende Gelaende, alle mobilitazioni dei Mohawk a Montreal contro la Transcanada Pipeline, è un susseguirsi di azioni, iniziative, mobilitazioni. Era stato detto a Parigi e fatto seppur simbolicamente: tracciare una linea rossa, oltre la quale sarebbe scattata ladisobbedienza civile di massa, per tutelare un bene prezioso, l’equilibrio dell’ecosistema, e la salute delle generazioni a venire.
È il riconoscimento dei diritto alla resistenza civile nonviolenta per tutelare i “commons” che ispirerà migliaia e migliaia di attivisti che in ogni parte del mondo si mobiliteranno per un’intera settimana ai primi di maggionell’azione globale “Break Free from Fossil Fuel”. Sono previste azioni dirette presso siti di estrazione e infrastrutture petrolifere e in sostegno a fonti energetiche pulite in Australia, Brasile, Canada, Germania, Indonesia, Israele/Palestina, Nigeria, Filippine, Sudafrica, Spagna, Turchia, e Stati Uniti.
Lasciare il petrolio sottoterra significa mettere sé stessi tra la Terra ed il cielo, prendere posizione dalla parte del cielo e della Terra, e produrre “dal basso” uno shock necessario per invertire la rotta. Come sottolinea in un importante articolo la rivista Nature, per provare a contenere l’aumento della temperatura globale entro 2 gradi centigradi ai livelli preindustriali sarebbe urgente rinunciare a un terzo delle riserve petrolifere, la metà di quelle di gas e l’80 per cento del carbone entro il 2050 (si noti bene che a Parigi ci si è impegnati “in linea di massima” a contenere l’aumento della temperatura a 1,5 gradi). Invece le imprese transnazionali del settore continuano a investire cifre ingenti nella ricerca e prospezione, spendendo ogni anno qualcosa come 800 miliardi di dollari alla ricerca di nuovi giacimenti contro i 100 miliardi impegnati dalla comunità internazionale in sostegno al Fondo Verde per il Clima. Non tutte però: accanto alla disobbedienza civile dei movimenti è cresciuto progressivamente il movimento per il disinvestimento, al quale di recente si è unita anche la potente famiglia Rockefeller, magnati del petrolio per eccellenza.
E a casa nostra? La crescita del movimento globale per la giustizia climatica, la settimana di azione contro i combustibili fossili di maggio, le campagne di disinvestimento dimostrano che anche in Italia ci potrà essere vita dopo il referendum contro le trivelle. Un sì deciso significa quindi non solo un no alla distruzione della bellezza, o delle coste, è un sì alla necessaria e urgente transizione ecologica, un piccolo passo verso la progressiva uscita dal petrolio, un tassello in più per connettere le vertenze locali in un movimento globale che si fa sempre più forte.
Fonte: comune-info.net
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