di Guglielmo Ragozzino
Il prezzo del petrolio è basso, molto più basso di due anni fa. Perché? Se lo si chiedono tutti. Non vi fidate di chi vi dà con sicurezza la risposta. Si parla della crisi che si aggroviglia, dell’eccesso di offerta, di domanda calante, di finanza impazzita, … A un esame approfondito nessuna risposta tiene. “Tante le concause; vediamo come va a finire e poi daremo la risposta sull’origine di tutto”. Questo il parere dei più saggi dei saggi o almeno dei più smaliziati tra loro.
Da molte parti si aggiunge poi una seconda capziosa domanda: la discesa dei prezzi del petrolio è un bene o un male? Qui la risposta che si richiede è secca: o A o B; o sì o no. La finanza che un po’ tira e un po’ molla non è di nessun aiuto, anzi gonfia il problema e semina i dubbi. Sul piano pratico è certamente un bene per gli automobilisti americani che sono felici nel pagare due dollari il gallone di gasoline, loro che avevano sfiorato quattro dollari al gallone solo pochi anni prima.
Un male invece per i produttori americani di ShaleOil che avrebbero preferito un prezzo anche soltanto di cento dollari al barile come avveniva per lunghi periodi non troppo lontani nel tempo. Una volta si supponeva che l’America non fosse la nostra capitale, che “non in ogni caso ciò che era buono per l’America fosse buono per tutto il mondo”. Possiamo certo guardare a bocca aperta al mondo vasto e terribile, ma il caso nostro è diverso, rovesciato rispetto alla media. Il prezzo basso è ben visto qui ma è solo di magra soddisfazione. La riduzione del prezzo è sequestrata dal fisco e filtrata dalle compagnie petrolifere che ne trattengono la maggior parte, lasciando solo le briciole alle automobili e ai camion nostrani. D’altro canto, il crollo del prezzo del petrolio sembra non incidere sulle scelte industriali di governo e multinazionali che fingono di puntare a un rialzo del prezzo nel futuro prossimo ed evitano di affrontare le ragioni dell’ambiente.
Un male invece per i produttori americani di ShaleOil che avrebbero preferito un prezzo anche soltanto di cento dollari al barile come avveniva per lunghi periodi non troppo lontani nel tempo. Una volta si supponeva che l’America non fosse la nostra capitale, che “non in ogni caso ciò che era buono per l’America fosse buono per tutto il mondo”. Possiamo certo guardare a bocca aperta al mondo vasto e terribile, ma il caso nostro è diverso, rovesciato rispetto alla media. Il prezzo basso è ben visto qui ma è solo di magra soddisfazione. La riduzione del prezzo è sequestrata dal fisco e filtrata dalle compagnie petrolifere che ne trattengono la maggior parte, lasciando solo le briciole alle automobili e ai camion nostrani. D’altro canto, il crollo del prezzo del petrolio sembra non incidere sulle scelte industriali di governo e multinazionali che fingono di puntare a un rialzo del prezzo nel futuro prossimo ed evitano di affrontare le ragioni dell’ambiente.
Diremo, brevemente, la nostra su entrambi i punti : il prezzo basso e i vantaggi o i guai derivanti dalla sua discesa, aumentando così, ma soltanto di pochissimo il disordine generale – stante la nostra scarsa reputazione. Prima però cercheremo di riferire qualcosa su un altro aspetto “misterioso” che ci sembra opportuno indagare non meno del prezzo o della scelta tra il bene e il male: il caso saudita che è stato all’onor delle cronache per pochi giorni per poi sparire del tutto.
L’Arabia saudita può insegnarci qualcosa
L’Arabia saudita, storicamente maggior produttore di petrolio nel pianeta, è stata superata in quella speciale classifica una prima volta dalla Russia nel 2010 (10.453 milioni di barili/giorno contro 9.972 mbg dell’Arabia saudita) e una seconda dagli Usa, nel 2014 (11.810mbg contro 10.947 mbg dell’A.S.). Entrambi gli eventi sono stati vissuti come una sconfitta inaccettabile dal paese intero. Così i maggiorenti hanno creduto fosse loro compito ristabilire l’ordine “naturale” delle cose. Da decenni i sauditi, primi signori del petrolio al mondo e orgogliosi di esserlo, si erano attribuiti il diritto e l’onere di regolare il mercato, determinando la quantità di petrolio in vendita, da parte del loro Cartello e nel più vasto mercato mondiale, aumentando e restringendo la propria offerta per determinare il prezzo corrente, oppure vendendo a prezzi scontati, o addirittura di saldo, per mettere in difficoltà i produttori minori non allineati. La strategia prescelta questa volta è facile da comprendere: mantenere immutata la quantità di greggio messa in vendita, non darsi pensiero per i prezzi in discesa, convincere, con le buone o le cattive i partner del Cartello a fare lo stesso, nella certezza di tenere a bada la Russia, grande potenza petrolifera rivale extra Cartello, ma piena di debiti e di poveri, e di costringere poi gli ambiziosi “Sbriciolatori” delle pianure americane, dediti allo ShaleOil a farsi da parte.
All’interno del Cartello (Opec, Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, comprendente mediamente 13 litigiosi paesi) il contrasto più frequente era tra i sauditi e l’Iran, un ambizioso rivale. Verrebbe voglia di paragonare il rappresentante saudita nell’Opec, maggiore tra i partner del Cartello, all’azionista più forte in una grande società quotata in borsa; tutti sanno che egli detiene un potere predominante nelle scelte finanziarie e industriali: nomine, alleanze, strategie, dividendi, salari epremi; investimenti; acquisti e vendite. Nella vita senza soverchie scosse del Cartello non mancarono dissapori con paesi produttori esterni all’Opec, perfino con inglesi o norvegesi, proprio quelli che per rendersi un po’ indipendenti avevano cercato e trovato petrolio nel fondo del mare, quando il prezzo di mercato consentiva di fare ricerche costose e buchi profondi “dentro” i freddi mari del nord. Non mancarono altre accese discussioni con le compagnie, americane o europee, sempre sicure del fatto proprio e del diritto di predominio dell’Occidente, consumatore eccellente, ricco di cannoniere, sul petrolio mondiale. Una volta conclusi gli scontri e le rappresaglie, lasciando poco spazio a diatribe e malumori (guerricciole, ammazzatine, cose minori, insomma: Mossadeq, Mattei, Saddam) le compagnie statali o private del mondo capitalistico, le famose sette sorelle e le loro cugine, appoggiate dai rispettivi stati di riferimento, si riallineavano alle indicazioni saudite come pure, dopo la fondazione dell’Opec, avvenuta nel 1960, via via anche gli altri paesi petroliferi, partecipanti al cartello o estranei a esso.
Al calar del 2015, una volta di più, i sauditi hanno così ripetuto lo schema abituale, convinti di mantenere ancora una parvenza di controllo sul mercato planetario. Promettendo – o minacciando – di serbare costante la quantità di greggio prodotta per tutto un futuro imprecisato e obbligando i propri alleati del golfo (Gcc, Coordinamento dei Paesi del Golfo) a fare lo stesso, erano ben sicuri che avrebbero messo in difficoltà i rivali forti non allineati e costretto i produttori marginali a uscire dal mercato. Era una strategia comprensibile, si voleva reggere, con l’offerta ampia e sicura, il prezzo basso o perfino decrescente per eliminare i produttori marginali di petrolio e inoltre allontanare nel tempo il ricorso a energie e tecniche alternative; per non citare che due degli spauracchi, il fotovoltaico cinese e loshaleoil americano.
L’Arabia saudita con il suo numero immutato di barili di petrolio, obbligava il mercato ad allinearsi; otteneva quindi il risultato di un prezzo di vendita mondiale più basso, non quello, preferito, di cacciare via i concorrenti con una sostanziale riduzione dell’offerta di petrolio “classico” o dei suoi succedanei, almeno a breve termine. Era dunque un risultato parziale. Anzi, alcuni osservatori hanno fatto notare che il risultato più che prevedibile era, inevitabilmente, proprio l’opposto di quello desiderato (o che si presumeva i sauditi volessero raggiungere). Infatti molti produttori, in difficoltà per i quantitativi in eccesso di petrolio sul mercato, scelsero la via di aumentare ancora l’offerta, anche a prezzi stracciati, a qualsiasi prezzo anzi, per ridurre il proprio passivo interno, pagare qualche debito, qualche salario, superare, ove possibile, le immediate difficoltà di gestione e manutenzione degli impianti. In alcuni casi, c’era da evitare il rischio di disordini sociali e politici contro governi non più in grado di offrire una sopravvivenza decente (dar da mangiare) ai cittadini. Insomma, di fronte all’alternativa di chiudere si scelse la via di limitare il danno e vendere tutto il petrolio possibile, per tenere la produzione in movimento, e così i pozzi, le raffinerie, i porti e le navi.
Le accademie risero dell’ingenuità degli arabi, si disse che avevano imparato ma non abbastanza; avevano studiato ma sui manuali del passato. Era scritto su quei trattati che a un’offerta alta e immutabile di una merce, a fronte di un domanda debole o calante conseguiva la caduta del prezzo a valori talmente bassi da costringere i produttori marginali a uscire dal mercato. Nei fatti, anche i tanti produttori marginali resistettero e aumentarono la loro offerta, per ridurre il disagio del basso prezzo. Si suppose inoltre che gli arabi non avessero tenuto conto della finanza, abilissima nel trasformare il bianco nel nero e l’immaginario nel reale. Acuti commentatori osservarono che gli arabi, con il loro studiare scolastico, non avevano tenuto conto della forza finanziaria dei mercati. Osservatori ancora più smaliziati commentarono che gli arabi, forti dei loro giganteschi Fondi sovrani sapevano tutto della finanza e agivano con convinzione di causa.
Per saperne di più The Economist, messale della City, finito, o tempora, o mores, nelle mani degli Agnelli, (ricompattati nella finanziaria Exor) ma pur sempre glorioso riferimento per i cultori della bella Alta Finanza, ha intervistato il Deputy Crown Prince saudita, un ventinovenne di nome Salman, Salman proprio come suo padre, il re.
The Economist intervista Salman
Il giovane Salman ha studiato in America ed è attualmente ministro saudita della difesa e dell’economia. Trascurando gli aspetti sociali e politici dell’intervista che pure mostrano una persona più amabile e meno rigida dello zio Nayef, Crown Prince in carica, amante delle soluzioni forti, conta sapere qualcosa del fondamentale pensiero salmanita (del padre e del figlio) sul petrolio e il futuro arabo. Risulta che (secondo lui, o loro) i sauditi, corona e nazione, per ridurre il deficit di bilancio, vogliono differenziare la propria attività, considerata troppo legata ai destini del petrolio e vogliono investire in settori alternativi, per esempio nel turismo, non solo religioso e meccano, ma anche vacanziero; intendono così costruire villaggi turistici sul Mar Rosso. Hanno progetti di sviluppo agricolo e minerario (l’unico minerale indicato è l’uranio). Il principe rivela essere un ammiratore di Margaret Thatcher e si ripromette di privatizzare una parte dell’economia del suo paese, con l’intento di pareggiare (o migliorare) il bilancio statale che coincide in larga misura con quello della casa reale che d’altro canto comprende da due a quattromila persone, secondo le diverse fonti. Le nuove entrate non potrebbero arrivare però da imposte sul reddito o sul patrimonio, ciò che sua altezza esclude, ma arriverebbero piuttosto da una imposta sui commerci, una sorta di Iva e da una “tassa sul peccato” (gioco, divertimenti, forse alcol, forse sesso). C’è poi l’intenzione di mettere in borsa l’Aramco, società petrolifera maggiore del mondo, un tempo degli Usa poi anche saudita per un quarto, dal 1973, poi del tutto saudita dal 1980. L’Aramco estrae, e vende tutto il petrolio arabo saudita.
Ora si affaccia il progetto di cederne una parte agli investitori interessati per fare cassa e finanziare, per esempio, la guerra nello Yemen, oltre che la modernizzazione “thatcheriana” del regno. La notizia sull’Aramco era poi quella che i lettori del settimanale volevano sapere, essendo non troppo interessati al resto, per esempio a quello che il deputy Crown Prince pensava delle donne del suo paese al volante. Ma il vice crown si lascia scappare che si tratterà solo del 5%. A fianco ci dovrebbe essere – ma si parla del 2018 – un Fondo sovrano da 2.000 miliardi di dollari, una piramide di denaro e capitali da far impallidire Bill Gates, Warren Buffett e consorti. Cadono così le speranze di molti speculatori e il petrolio traballa di nuovo.
La situazione italiana
Anche l’Italia produce petrolio. Ma andiamo con ordine, mettendo momentaneamente da parte il desiderio di sapere.
Se utilizziamo i dati dell’Eni, possiamo ricavare le produzioni europee nel terzo millennio. Va subito messo in chiaro che dall’Europa petrolifera è esclusa la Russia che fa parte di un altro mondo. Le regole geografiche sono dettate dai politici favorevoli agli embarghi. Il maggior produttore, al sorgere del millennio, era la Norvegia con una produzione pari a 3.331 mbg (milioni di barili al giorno). Nelle classifiche usate tradizionalmente un barile di petrolio equivale a 159 litri oppure a 42 galloni. Al secondo posto il Regno Unito, con 2.694 mbg. Terza la Danimarca, con 363mbg. La produzione complessiva continentale era di 7.098 mbg, meno di un decimo della produzione mondiale che quell’anno era di 75.186 mbg. Quarta in Europa era la Romania con 131 mbg e quinta la Germania con 86 mbg. Sesta Italia con 78mbg. Tre lustri dopo, nel 2014, ultimo anno considerato dalle statistiche Eni, la situazione è cambiata. L’Europa, Russia esclusa per i ben noti motivi, ha pressoché dimezzato la produzione, ed è passata a 3.562 mbg. In rapporto alla produzione mondiale, cresciuta d’altronde a 89.080 mbg la parte europea è ora del 4%. In testa è sempre Norvegia, con 1.892 mbg, seguono Regno Unito con 872 mbg e Danimarca, sempre al terzo posto, con 165 mbg. La Romania ha raggiunto gli 87mbg e la Germania i 69 mbg. Sono tutti andati indietro. Non così l’Italia (Basilicata, più minutaglie) che è cresciuta a 114 mbg. “Ancora un piccolo sforzo, dicono al governo, e battiamo la Danimarca. Il posto nella Champions non ce lo toglie più nessuno”. Un discorso che apparirà forse tera-tera, come dicono a Roma, ma che si può attribuire a qualcuno dei nostri governanti senza esagerarne il ridicolo. Questa è la loro cultura. Il nostro presidente del consiglio, parlando il 4 aprile alla direzione del suo partito ha vantato nello stesso senso i primati energetici nazionali, soprattutto in campo elettrico. Gli suggeriamo di riferirsi anche al petrolio, per vantare altri primati italiani. Può per esempio far notare che la Norvegia è fuori dall’Unione europea e quindi non conta. Il Regno Unito dal canto suo ha già un piede fuori dall’Unione e in giugno forse se ne va definitivamente, tramite referendum. “Italiani, ancora un sforzo e faremo fuori la Danimarca, dove del resto c’è del marcio.” All’amato leader offriamo una frase che ricorda due autori del passato, un francese e un inglese. Anche per questo omaggio, noi, ormai primi nel vecchio continente potremo legittimamente chiedere un posto – uno strapuntino – all’Opec. Si convincano i Lucani e gli altri petrolieri minori che non si può sabotare SbloccaItalia, un grande progetto della Nazione per deteriori interessi localistici.
Le grandi opere dello SbloccaItalia prevedono anche i pontili in disuso?
Pontili e ammiragli
Può un ammiraglio discutere – come si chiedono gli inquirenti – della disponibilità di un pontile in disuso nei recessi del golfo di Taranto? In caso affermativo è perfettamente in linea l’ammiraglio sceso a patti con Total. “Ti do il pontile militare in disuso e in cambio mi dai l’appoggio, con il mio Governo e con la Nato, per il nuovo cacciatorpediniere, per la nuova flottiglia”. Il principio è però dubbio. In primo luogo si trascura così la linea del comando: l’esigenza di esprimere concetti semplici e auto celebratori è di altri. “Io gioco, io vinco, io prendo il merito. Io comando”. Inoltre, pontile o non pontile, l’interesse nazionale è quello di non scontentare ulteriormente la multinazionale francese che potrebbe scegliere di andare via. L’Italia deve opporre un argine a tutto questo degrado. A Parigi, in dicembre, al Vertice sul Clima. “ci siamo impegnati contro i combustibili fossili”. Ma già, il clima a Parigi, dopo il 13 novembre, era quello che era. Le multinazionali del petrolio sono rimaste male. Hanno rinunciato a nuovi investimenti, hanno messo in vendita i vecchi, del tutto o in parte. Ma chi si ricorda di dicembre a Parigi? E’ passato tanto tempo …
Quale è il rapporto tra prezzo del petrolio e andamento del mondo?
Voi lettori avete letto tanto per avere una risposta sicura alla domanda: “è un bene o un male questo caso del petrolio a buon prezzo?”
Per venirvi incontro ci siamo rivolti ai dettami del Fondo Monetario Internazionale, fonte sicura del pensiero economico. Solo che il Fondo, Fmi, non sa che pesci prendere: è tutto così complicato… Fmi pubblica infatti uno studio dal titolo chiarissimo, “Oil Prices and the Global Economy: it’s Complicated” in cui osserva che tutto considerato un calo del prezzo del petrolio del 65% in un paio d’anni avrebbe dovuto avere conseguenze importanti sull’economia mondiale. Ma in che direzione? I paesi importatori di energia avrebbero goduto di un vantaggio approfittando di prezzi minori, mentre gli esportatori avrebbero subito una riduzione dei profitti. A conti fatti l‘Fmi propendeva in teoria per il vantaggio dei primi, però … è innegabile, come riassume Staffetta quotidiana, un quotidiano bene informato nei fatti del petrolio, Fmi “riconosce che “anche alcuni Paesi importatori di petrolio sono stati colpiti duramente come gli Stati Uniti, che rappresentano una parte significativa della contrazione globale in investimenti associati all’energia”. Inoltre Fmi ammette di essersi sbagliato nell’avere sostenuto che il calo dei prezzi del petrolio avrebbe sostenuto l’economia globale. Tutt’altro. I prezzi bassi del petrolio non hanno avuto effetti benefici sulle economie dei paesi avanzati. Anzi, nell’ultimo periodo, a forti cali nelle quotazioni del greggio si sono avuti altrettanto accentuate discese dei listini azionari e rallentamenti nella crescita delle economie avanzate Nel documento, l’istituto di Washington riconosce che “la tanta anticipata spinta per l’economia globale deve ancora materializzarsi” e “paradossalmente”, quella spinta “apparirà soltanto dopo che i prezzi si saranno risollevati un po’ e le economie avanzate avranno fatto progressi superando l’attuale contesto caratterizzato da tassi di interesse bassi. I benefici globali di bassi prezzi del greggio si materializzeranno solo dopo che i prezzi saranno un po’ risaliti”.
In parole povere i più bravi di noi, anzi i nostri maestri non sanno che pesci pigliare.
Per concludere, il basso prezzo del petrolio è una scelta di agenti del settore tradizionale settore energetico petrolifero, come l’Arabia Saudita, che poi è scappata di mano agli autori, che intendevano ostacolare il passaggio a energie rinnovabili o diverse o quanto meno rallentarne l’avvento per un periodo di alcuni anni o decenni. D’altro canto l’alto prezzo favorisce un nuovo modello energetico, in pace con la natura. Consente però anche una nuova presa di potere da parte dei petrolieri e affini sui rispettivi stati e burocrazie e in altri termini sul pianeta lungo il quale rotoliamo.
Fonte: sbilanciamoci.info
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