di Global Project
Ci sono oltre 1.500 chilometri che separano Idomeni dal Brennero. C’è una storia, antica e recente, che segna una profonda distanza tra il cuore del Tirolo e quel lembo di terra che si incunea tra i Balcani ed il Mediterraneo nord-orientale. Ma c’è anche una storia fatta di frontiere e passaggi di persone che accomuna questi due luoghi, come tanti altri in Europa, soprattutto in una fase in cui i confini si sono trasformati in barriere e gli attraversamenti sono diventati blocchi.
Non c’è però solo un dato materiale che lega idealmente Idomeni al Brennero. C’è un elemento soggettivo forte che produce una continuità politica tra la marcia Overthefortress al confine greco-macedone e la manifestazione di domenica scorsa alla frontiera italo-austriaca. Questo elemento è dettato dalla sfida che centinaia di corpi in marcia, i “no borders” come sono stati soprannominati da alcune testate italiane ed estere, hanno lanciato alle istituzioni europee.
Il 3 aprile al Brennero non si è dato un “caso mediatico”, neppure un “caso politico”. Si scrive Brennero si legge Bruxelles, ma anche Vienna, Atene, Ankara, Roma, Berlino, Francoforte e tutti gli altri luoghi della decisionalità, dove il dominio del capitale sulla vita diventa norma e dove si ridisegna il rapporto tra governance continentale e forme, vecchie e nuove, di statualità. “Agire contro i confini” ha aperto dunque uno spazio politico pubblico, conflittuale, che definisce l’iniziativa in un campo polarizzato in cui si fronteggiano autorità e diritti, assoggettamento e libertà, conservazione e cambiamento. Un campo che si colloca nell’intero spazio europeo e che coglie il tempo dell'implosione congiunta dei pilastri fondativi dell’Unione Europea e del suo processo d’integrazione, Schengen e Maastricht.
La crisi della gestione dei flussi migratori va letta nel contesto della crisi economico-finanziaria che nell’ultimo decennio ha completamente ridisegnato la distribuzione della ricchezza, le forme della contrattazione sociale, il quadro dei diritti e della cittadinanza all’interno del vecchio continente. In primo luogo l’accoglienza, come parte di un welfare generalizzato, è diventata una forma remunerativa di business, con la conseguente subordinazione di un diritto umanitario agli interessi di cooperative e imprese che ne hanno assunto la gestione. In secondo luogo la gestione militare delle frontiere, la segregazione dei migranti lungo i confini nazionali o dentro le aree ghettizzate di tante città europee ha alimentato la percezione collettiva di un’Europa “invasa”, che ha favorito la crescita della retorica politica neo-nazionalista. Oltre a determinare l’ascesa o il consolidamento di forze politiche xenofobe e reazionarie, questa retorica è pienamente funzionale agli interessi della governance neo-liberale perché orienta in termini “etnici” le tensioni e le sofferenze sociali che la crisi ha prodotto a milioni di europei impoveriti.
La questione migratoria intreccia inoltre la crisi politica che sta vivendo l’Unione Europea in questa fase, esemplificata dall’accordo del 18 ottobre siglato con la Turchia, che delega pienamente al governo di Erdogan l’azione di rimpatrio dei migranti giunti nei mesi scorsi nel territorio europeo ed, in generale, l’intera gestione dei flussi di persone verso l’Europa. Consegnare milioni di persone, molte delle quali fuggono dalla stessa guerra che vede la Turchia in prima linea, nelle mani di un regime sanguinario nei confronti del popolo curdo e di tutti gli oppositori interni, è il segno di una resa umanitaria di fronte ad interessi geo-strategici.
Il corto circuito che sta attraversando l’Unione Europea apre uno spazio che i movimenti europei devono riempire per non lasciarlo nelle mani delle spinte neo-sovraniste che a destra, ma anche in alcuni settori della sinistra, si stanno facendo sempre più largo. Il ruolo dei movimenti in questa fase è quello di ricostruire una narrazione ed una pratica politica che sappiano ridefinire un nuovo terreno comune di riconquista di diritti e di welfare sul livello transnazionale. Domenica 3 aprile si è palesato un campo di possibilità che agisce in questa direzione, che necessariamente ha bisogno di radicarsi e maturare, ma che allo stesso tempo rivela la sua potenzialità e le sue capacità conflittuali. Oltre 1.500 persone hanno violato quel confine che l’Austria ha dichiarato di voler chiudere e presidiare militarmente già a partire dai prossimi giorni e non sono arretrate di fronte all’ordine della polizia austriaca di sciogliere la manifestazione. Le tante e variegate anime della manifestazione hanno proseguito in maniera compatta di fronte allo sbarramento della polizia, nonostante i manganelli ed i fastidiosissimi spray urticanti. D’altra parte il confine mobile che la polizia austriaca ha costruito per impedire il passaggio dei manifestanti ribadisce con forza che la libera circolazione delle persone rappresenta in questo momento un pericolo per l’establishment europea. La manifestazione al Brennero ha avuto la capacità di sfidare i governi d’Europa con questo tipo di messaggio per il futuro assetto costituzionale: per la prima volta, dal basso e a sinistra, si è forzato un confine interno per affermare la libertà di movimento. I governi neoliberali sono consapevoli che da domenica non devono temere soltanto le spinte reazionarie delle destre che li hanno costretti a restringere i passaggi per i confini per non disperdere i consensi elettorali. Una nuova forza, che deve assolutamente farsi movimento per essere vincente, si è posizionata per un’Europa senza confini. E continuerà a farsi sentire.
La continuità tra la marcia di Idomeni ed il corteo al Brennero si è affermata non solo attraverso un trait d’union simbolico, rappresentato dalle tende poste lungo i binari, che hanno rallentato il traffico merci, o dalle ormai famose pettorine arancioni degli attivisti #overthefortress. Esiste una continuità politica tra le due iniziative, che individua nel dispositivo dei confini il paradigma di un’Europa costruita, modellata e governata solo attraverso gli interessi delle élite. Aggredire le regole e l’impianto dell’Europa Fortezza non significa rivendicare il ritorno al regime di Schengen, ma contiene in sé gli elementi per valorizzare il ruolo della cooperazione dal basso, della solidarietà diffusa e della redistribuzione della ricchezza come modello alternativo e inclusivo alla governance neoliberale.
Tra Idomeni ed il Brennero emerge in maniera chiara una dialettica tra conflitto e progetto, che rompe l’unità spazio-temporale del singolo evento politico a favore di una visione processuale. E’ chiaro che questa visione non si inserisce in un contesto di movimentazione sociale massificata, ma è determinata da un insieme eterogeneo di soggettività che dimostrano una grande disponibilità al conflitto. Una soggettività che trae stimolo dalla spinta esercitata da centinaia di migliaia di migranti lungo la Balkan Route che, nonostante le frontiere militarizzate, continuano a premere ed a muoversi lungo le i confini, interni ed esterni, dell'Unione Europea. Una soggettività che da Idomeni e dal Brennero sa guardare anche a Parigi ed alle lotte di massa contro la Loi Travail che stanno scuotendo la Francia. Perchè la posta in gioco sono le condizioni materiali di vita di milioni di sfruttati.
La sfida è quella di estendere i processi di soggettivazione a tutto il corpo sociale, attivando quella capacità confederativa che le lotte, quando vivono nei legami sociali e si attivano dentro percorsi organizzativi aperti e di lunga durata, riescono ad avere. A partire da una consapevolezza: che è ancora possibile, pur in una fase non ottimale per i movimenti come quella italiana, costruire momenti conflittuali e maggioritari che si pongano l’obiettivo di sovvertire radicalmente il rapporto di forza tra capitale e vita.
Fonte: Global Project
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