di Geraldina Colotti
Ci vorranno almeno trent’anni per decifrare la montagna di documenti (11,5 milioni) che una fonte – anonima per paura di perdere la vita – ha consegnato al giornale tedesco Sueddeutsche Zeitung. Ma, intanto, i cosiddetti Panama papers – che hanno messo in piazza il funzionamento delle società off shore create dallo studio legale panamense Mossack- Fonseca nel corso di quarant’anni – stanno dando lavoro al Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icj) con cui il giornale tedesco ha condiviso lo scoop: 106 redazioni di 76 paesi, fra cui Le Monde, El Pais e L’Espresso.
Ma proprio sulla gestione dei documenti e su chi abbia ispirato la fonte, scende in campo il sito Wikileaks, che già allo scoppiare del caso aveva denunciato la parzialità del giornalismo europeo, pronto a sparare alcune notizie e a silenziarne altre. Wikileaks avrebbe voluto consentire a tutti l’accesso completo (o quasi) dei dati, come ha fatto rivelando lo scandalo del Cablogate, filtrato dall’ex soldato Bradley Manning (ora diventata Chelsea).
Wikileaks ha suggerito che dietro la fonte potrebbe esserci lo zampino di Soros – la cui fondazione fa parte dell’Icj – ergo della Cia: fra i partner di Soros figurano infatti società finanziate dalla United States Agency for International Development (Usaid), che di solito apre la via alle ingerenze e non allo sviluppo. Una tesi già avanzata dal presidente russo Vladimir Putin, chiamato in causa per la presenza di un amico nel pacchetto filtrato. E perché ci sono così pochi nomi di statunitensi? Nei documenti filtrati ne compaiono 211, ma non tutti di sicura nazionalità Usa.
Wikileaks ha suggerito che dietro la fonte potrebbe esserci lo zampino di Soros – la cui fondazione fa parte dell’Icj – ergo della Cia: fra i partner di Soros figurano infatti società finanziate dalla United States Agency for International Development (Usaid), che di solito apre la via alle ingerenze e non allo sviluppo. Una tesi già avanzata dal presidente russo Vladimir Putin, chiamato in causa per la presenza di un amico nel pacchetto filtrato. E perché ci sono così pochi nomi di statunitensi? Nei documenti filtrati ne compaiono 211, ma non tutti di sicura nazionalità Usa.
Alcuni esperti sostengono che gli evasori nordamericani non hanno bisogno di andare troppo lontano: le leggi esistenti in alcuni stati quali Delaware (un vero paradiso fiscale, secondo il New York Times), Nevada e Wyoming facilitano infatti alle corporazioni la creazione di compagnie di facciata per non pagare le tasse più alte nei propri stati. Nevada e Wyoming erano peraltro tra le destinazioni suggerite da Mossack- Fonseca. Per molti grossi clienti, dunque, lo studio legale panamense, presente in 40 paesi, non sarebbe stato abbastanza appetibile.
Negli Usa, l’evasione fiscale oscilla ogni anno tra i 20.000 milioni di dollari ai 70.000 milioni. Stando a due pubblicazioni di area conservatrice, i Panama papers coinvolgerebbero anche il direttore della campagna stampa di Hillary Clinton, Gruppo famiglia Podesta, legato a una banca russa emersa nello scandalo. Il dipartimento del Tesoro Usa promette che farà arrivare alla Casa Bianca la proposta di una norma che, per la prima volta, obbligherebbe le banche e altre istituzioni finanziarie a conoscere l’identità di chi si cela dietro società di comodo. Fino a oggi, le banche Usa devono «conoscere i loro consumatori» che aprono un account negli Stati uniti, ma non chi agisce per società di comodo.
Mossack-Fonseca denuncia infatti l’attacco hacker subito e ritiene sia stato violato il «diritto umano alla privacy» di quei 143 politici e personalità pubbliche di diverse parti del mondo i cui nomi sono emersi nello scandalo. Uno ne ha già fatto le spese, il premier islandese Sigmundur Gunnlaugsson, costretto a dimettersi dalla pressionepopolare. In Gran Bretagna, i laburisti chiedono un’inchiesta sul primo ministro David Cameron, per via del padre defunto che figura nei documenti. E lui ammette: avevo quote nella società. La Ue si dice «scioccata». Al Parlamento europeo, il gruppo dei Verdi vuole una commissione d’inchiesta sull’evasione fiscale emersa. Anche Renzi, in Italia, promette un’indagine: fra gli 800 italiani, emerge il nome di Luca Cordero di Montezemolo, ex presidente di Confindustria.
Un’opacità tutta interna alla forma che prende il sistema capitalista globalizzato (la finanziarizzazione) che ne complica l’anarchia e richiede a volte qualche scossone all’albero per liberarne il peso in base a qualche grande interesse. Di che vi stupite? – chiede un autorevole editorialista spagnolo – i paradisi fiscali esisteranno sempre. E un altro allerta sulle reazioni «populiste» che la road map dei paradisi fiscali (una delle tante esistenti) potrebbe provocare.
In America latina, i Panama papers hanno confermato tanti sospetti e evidenziato qualche paradosso, come la presenza dell’avvocato cileno Gonzalo Delaveau Swett, presidente della locale sezione di Transparencia Internacionalal, o del solone peruviano Vargas Llosa. Ma il caso più eclatante è quello del presidente-imprenditore argentino Mauricio Macri, che sta facendo tirare la cinghia al paese e che ora un Procuratore vorrebbe mettere sotto inchiesta.
Fonte: il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.