di Giusto Catania
“L’elaborazione dei saperi necessari per comprendere l’attuale condizione dell’uomo planetario, definita dalle molteplici interdipendenze tra locale e globale, è dunque la premessa indispensabile per l’esercizio consapevole di una cittadinanza nazionale, europea e planetaria. Oggi la scuola italiana può proporsi concretamente questo obiettivo.”[1]
È facile distinguere una scuola da una salumeria? Si, ma probabilmente ancora per poco. La cosiddetta “buona scuola”, l’ennesima controriforma dell’istruzione italiana attuata negli ultimi venti anni, ha introdotto elementi di grande trasformazione che modificheranno in modo radicale il modello formativo e il futuro del nostro Paese.
La scuola del duo Renzi-Giannini rappresenta la chiusura di un ciclo, quello aperto nel 1997 con l’introduzione del concetto di “autonomia scolastica” che, di fatto, ha avviato la fase di competizione tra istituzioni scolastiche e di smarrimento progressivo del modello formativo nazionale.
È definitivamente esaurita la fase in cui il primato culturale della scuola pubblica poteva consentire ai figli delle classi sociali meno abbienti di convivere con i figli dei ricchi, imparare le stesse cose e, potenzialmente, avere le stesse possibilità di “successo formativo”.
I percorsi della scuola sono ormai diventati tortuosi e selettivi e la “buona scuola” sancisce il definitivo trionfo di un modello che elimina due concetti costituzionalmente garantiti (rimasti solo scritti sulla carta): la libertà d’insegnamento e il diritto all’apprendimento critico.
Si sta raggiungendo, in modo sempre più evidente, l’obiettivo di eliminare la funzione trasformatrice della scuola, accantonando la peculiarità italiana che ha esaltato la valorizzazione delle diversità. Tutto ciò è ormai a portata di mano grazie all’esaltazione autoritaria del ruolo e delle competenze del Dirigente scolastico, che rappresenta il vero deus ex machina di un nuovo sistema scolastico piramidale.
Una scelta che cancella l’ultimo mezzo secolo di storia della scuola italiana e che la trasforma, per dirla con Ivan Illich, in “un’istituzione manipolatrice”, al servizio di un indottrinamento veicolato dal potere del preside-manager.
Si torna agli albori della scuola nazionale, alla sua genesi primordiale, al modello napoleonico.
“La scuola istituita con gli stati nazionali è stata concepita non solo come servizio per istruire la popolazione, per preparare le élite della nazione, per disporre di manodopera istruita in grado di eseguire compiti talora tecnologicamente complessi, per formare una popolazione malleabile, che si può guidare con una certa facilità, ma anche come strumento per inculcare alle giovani generazioni i principi morali, le norme generali che regolano la società, per ottenere una popolazione disciplinata, che si adegui alle modalità organizzative e di gestione degli apparati burocratici e amministrativi al servizio della cittadinanza.
I centri di potere di una società, micro o macro che sia, esigono la presenza di una popolazione ubbidiente, ligia al dovere, che rispetti leggi e regolamenti, che conosca e riconosca la gamma dei codici discorsivi legittimi, ossia le modalità per prendere la parola, le regole sintattiche e lessicali adeguate alle circostanze più diverse. La scuola è una tecnica di potere che serve a inculcare ciò che è vero e ciò che è falso, a credere alla verità costituita (chi ha vinto la guerra, chi è un eroe, chi è un traditore o un fedifrago, chi è nemico e chi è amico), in breve è uno strumento di assimilazione delle norme necessarie per una gestione burocratica, amministrativa, della popolazione.”[2]
Decenni di riflessioni sui modelli pedagogici da applicare alla scuola italiana sono stati sacrificati in nome della governance, il nuovo mantra che ha sottomesso la scienza dell’educazione alla managerialità. Per questa ragione il dibattito pubblico si è imperniato sui compiti del nuovo Dirigente scolastico che, sempre di più, si sostituisce agli organi collegiali e alle svariate rappresentanze democratiche della scuola che, da tempo ormai, non svolgono più alcuna funzione.
Sarà complicato costruire spazi di autonomia critica, sia per il corpo docente e che per gli studenti, in una scuola in cui il Dirigente, per quanto possa essere democratico e progressista, incarna contemporaneamente le funzioni di programmazione, orientamento, reclutamento e valutazione dei docenti; detiene i poteri del datore di lavoro, la legale rappresentanza, la responsabilità delle risorse finanziarie e strumentali e l’onere dei risultati del servizio.
È evidente che è definitivamente tramontato il sistema scolastico fondato sulla partecipazione democratica delle famiglie e sulla collegialità, mandando in archivio un’importante stagione riformista della scuola italiana.
Il concetto di “comunità scolastica”, sbandierato dalla riforma Berlinguer alla fine degli anni novanta del secolo scorso, come elemento necessario all’attuazione dell’autonomia scolastica, quella che doveva connettersi e svilupparsi con le potenzialità del territorio, è sostituito dalla centralità del dirigente manager.
Il tramonto della “comunità scolastica” segna la fine di un’epoca che, probabilmente, non è riuscita mai a sviluppare per intero le sue grandi potenzialità di trasformazione della società, malgrado sia nata sotto i migliori auspici e con le buone intenzioni di un governo progressista.
“La comunità scolastica, interagendo con la più ampia comunità civile e sociale di cui è parte, fonda il suo progetto e la sua azione educativa sulla qualità delle relazioni insegnante-studente, contribuisce allo sviluppo della personalità dei giovani, anche attraverso l'educazione alla consapevolezza e alla valorizzazione dell’identità di genere, del loro senso di responsabilità e della loro autonomia individuale e persegue il raggiungimento di obiettivi culturali e professionali adeguati all'evoluzione delle conoscenze e all'inserimento nella vita attiva. La vita della comunità scolastica si basa sulla libertà di espressione, di pensiero, di coscienza e di religione, sul rispetto reciproco di tutte le persone che la compongono, quale che sia la loro età e condizione, nel ripudio di ogni barriera ideologica, sociale e culturale.”[3]
Con la “buona scuola” si completa, così, il processo di aziendalizzazione dell’istruzione, ispirato evidentemente al modello manageriale applicato, con disastro, nella sanità.
L’istruzione nazionale, dopo aver eliminato l’aggettivo “pubblica” perfino dal nome del dicastero, ha ormai cambiato natura scimmiottando sempre di più il meccanismo che ha eliminato il diritto alla salute come un principio costituzionale valido in modo uniforme in tutto il Paese.
La “buona scuola” introduce il concetto di premialità tra il corpo docenti e contemporaneamente applica standard di misurazione delle prestazioni che, in nome della meritocrazia, classificherà gli insegnanti dell’istituto.
La lezione di latino del docente amico del preside, a giudizio insindacabile del capo dell’istituto, potrebbe essere pagata di più della lezione di greco, tenuta nella stessa classe dalla docente non allineata, o genericamente meno omologata alle convinzioni politiche, pedagogiche, gestionali del Dirigente.
Ovviamente i criteri che consentiranno al Dirigente scolastico la valutazione del corpo docente sono arbitrari e soggettivi, inoculando dentro il dna della scuola italiana il germe esiziale della competitività e lasciando intravedere pericolose modalità corruttive sia nella valutazione che nella selezione del corpo docente.
Questa modalità di gestione del corpo docente, tale meccanismo di selezione e di misurazione delle prestazioni, applicato alla didattica e alla valutazione degli studenti, rischia di rinvigorire modelli educativi nozionistici, limitando la missione pedagogica della scuola al raggiungimento di obiettivi immediatamente misurabili (saper leggere, scrivere e far di conto).
La mission della scuola pubblica viene declinata, sempre più spesso nell’ambito di una presunta emergenza educativa che ha investito il Paese.
Troppo spesso emerge l’esigenza di affrontare le questioni legate alla scuola partendo dalla presunta drammaticità di dati spacciati come inequivocabili e oggettivi, i famigerati riepiloghi delle rilevazioni internazionali fatte dall’Ocse che collocano l’Italia sotto la media Ue per competenze in lettura e comprensione del testo, matematica e scienze.
Oppure magari dopo avere reso pubbliche le rilevazioni dell’Istituto Invalsi che, puntuale come un orologio svizzero, certifica lo squilibrio d’istruzione tra gli studenti del Nord e quelli del Sud Italia.
Siamo sicuri che il grande problema della scuola italiana possa e debba essere certificato attraverso la somministrazione di test pre-confezionati indistintamente a tutti gli studenti?
Giuseppe Bertagna, oltre dieci anni fa, ha elaborato alcune importanti riflessioni pedagogiche sviluppando il tema della personalizzazione. Tale impostazione è stata utilizzata, in modo approssimativo, per imbellettare l’indigesta riforma di Letizia Moratti e probabilmente per queste ragioni messa al bando dai ministri che si sono successivamente avvicendati.
Il modello pedagogico che ha sviluppato il concetto di personalizzazione poggia su una duplice convinzione: da un lato l’allievo non può essere semplicemente il destinatario dell’azione educativa pensata da altri e dall’altro la scuola deve sforzarsi per differenziare le proprie strategie in modo da valorizzare le capacità e le attitudini dei singoli studenti.
In sostanza, un cambiamento di prospettiva: diventa centrale l’attività educativa pensata per valorizzare le capacità di ogni singolo studente e in grado di sviluppare le competenze personali, indipendentemente dalla programmazione didattica e disciplinare pensata, in astratto, per tutti.
La scuola deve avere la capacità di far emergere le competenze individuali attraverso la valorizzazione delle propensioni personali. Già Don Lorenzo Milani, con la sua lettera ad una professoressa, sottolineava la necessità di una educazione equa che guardasse alle esigenze dei singoli.
È evidente che tutto ciò rischia di essere pura retorica visto che l’attuale modello di scuola e le stantie innovazioni introdotte dal Governo continuano a riflettere un modello standard costruito su lezioni frontali, valutazioni disciplinari e classifiche su parametri definiti indipendentemente da contesti sociali, luoghi, indirizzi e caratteristiche delle scuole, peculiarità dei singoli studenti. La scuola non è in grado di guardare alla società e continua a riprodurre un modello educativo statico, plasmando programmazioni e valutazioni sui test precotti preparati dall’Invalsi. Insomma, per dirla con Guido Calogero, la scuola continua ad essere quella che esalta “il mito della cultura generale” e si pone sempre più al servizio di “lascia o raddoppia”.
Le periodiche riforme della scuola italiana non hanno scelto di rinunciare ai metodi cattedratici e antiquati, all’impostazione mnemonica e catechistica, all’ossessione dei programmi totalitari e della onniscienza, al culto dei registri e la mania degli esami, alla tendenza all’uniformità e al livellamento. Non si pone mai l’attenzione alle possibilità di sviluppo accordate agli interessi e ai gusti spontanei degli allievi. Guido Calogero, nel definire la scuola vera, non può esimersi dal connetterla al modello socratico: la scuola della ricerca e del dialogo, la scuola che non inculca verità, ma che educa alla discussione e quindi alla pratica attiva della libertà e al costume democratico.
“Ma quando mai la cultura può essere «generale»? La cultura non è mai «generale» così come non è mai tenente colonnello né sergente maggiore! Una cultura, che sia cultura, è sempre particolare, cioè concreto e preciso possesso di certi strumenti spirituali utili per vivere meglio, cioè per sfruttare meglio le agevolezze e superare meglio le difficoltà della vita.
È colto chi ha acquistato sufficiente capacità di godere di arte o di musica per trarre con esse il massimo di soddisfazione dalla vita quando le cose gli vanno bene e per consolarsi quando le cose gli vanno male. È colto chi si è abbastanza addestrato a comprendere le svariate ragioni ideali e storiche e psicologiche delle azioni altrui, così da non perdere immediatamente le staffe quando si accorge che quelle di molti fra i suoi contemporanei non coincidono con le proprie, e da non considerali senz’altro come pazzi o eretici o peccatori contro la verità e la morale impersonate da lui medesimo. Ma per possedere tale concreta e operante cultura bisogna essersi addestrati a capire e ad adoperare certa musica, certa poesia, certe immagini artistiche, certe ricostruzioni di altrui convinzioni teoriche o aspirazioni pratiche, e non già la musica in generale, o la poesia e l’arte e la filosofia e la storia in generale.
La cosiddetta «cultura generale» consiste viceversa nel fatto di sapersi ricordare un sufficiente numero di cose inutili per evitare di far brutta figura in salotti in cui sia considerato necessario il saperle.”[4]
La scuola deve avere, invece, l’ambizione di preparare gli studenti ad essere cittadini del mondo, sulla scorta delle Indicazioni nazionali per il curriculo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione che, invece di essere applicate, sono rimaste lettera morta.
L’insegnante non può essere classificato come un normale lavoratore del pubblico impiego, svilendone la sua funzione sociale ed educativa come si è fatto, costantemente, negli ultimi anni.
L’insegnamento non è affatto riconducibile alla trasmissione di nozioni o informazioni di una disciplina dal docente al discente. L’offensiva, sviluppata da più parti, contro la professionalità dei docenti italiani ha contribuito ad indebolirne la funzione sociale, ha trasformato la più importante categoria educatica del Paese in una banda di parassiti, un esercito di inutili scansafatiche che lavorano solo tre ore al giorno e godono di tre mesi di ferie retribuite. Come se la funzione degli insegnanti non avesse relazioni con il futuro dell’umanità.
“L’insegnamento deve aiutare la mente a utilizzare le sue attitudini naturali a situare gli oggetti nel loro contesto, nel loro complesso, nel loro insieme. L’insegnamento si deve opporre alla tendenza a essere soddisfatto di un punto di vista parziale, di una verità parziale. L’insegnamento deve promuovere una conoscenza nello stesso tempo analitica e sintetica, che leghi le parti al tutto e il tutto alle parti. Deve insegnare i metodi che permettono di cogliere le mutue relazioni, le reciproche influenze, le inter-retro-azioni. Ben inteso, noi non potremo mai accedere a una conoscenza totale: il tutto dell’universo resterà per noi sempre inaccessibile: ma noi dobbiamo aspirare almeno ad un conoscenza multidimensionale.”[5]
Ma i docenti italiani, ormai stritolati dalla macchina del fango, sono rimasti estranei e inascoltati, prigionieri della truffa che ha fatto credere al Paese che il cuore della contro-riforma Renzi fosse l’assunzione, da parte dello Stato, di oltre centomila lavoratori.
Una truffa mediatica. La scuola italiana, infatti, senza questi docenti (che lavorano già da anni nella scuola), e senza gli altri sessantamila che sono stati tagliati fuori dall’assunzione, non è in grado di garantire l’istruzione, l’assistenza e la vigilanza ai quasi nove milioni di studenti. Infatti circa il 20% del corpo complessivo dei docenti necessari al funzionamento della scuola è, da quasi quindici, estromesso dall’arruolamento, malgrado la loro presenza sia necessaria per completare gli organici.
La scuola di Renzi è pensata per docenti sottomessi e per studenti omologati, per superare la centralità formativa della scuola, visto che ormai l’orientamento europeo tende a valorizzare il riconoscimento dell’apprendimento non formale ed informale, eliminando il valore legale del titolo di studio e lavorando sulla valorizzazione delle competenze e delle abilità acquisite sul campo, lontano dalle aule scolastiche e più vicino a modelli educativi e formativi che valorizzano il ruolo delle nuove tecnologie e dei mezzi di comunicazione di massa. In questo c’è una continuità imbarazzante tra il modello educativo attuato dalla “buona scuola” e i venti anni di epoca berlusconiana.
“Internet è entrato irreversibilmente nell’esistenza di ciascuno, a tutti i livelli, ed è ormai l’altra faccia della globalizzazione economica. Ma è la televisione, come fenomeno popolare e totalizzante, ad avere ormai assunto il ruolo di un autoritarismo dolce, pervasivo e perfino conciliante, e ad avere modificato l’uso “normale” della lingua. La cultura berlusconiana è una cultura televisiva: il discorso pubblico si è formato a partire dal teleschermo che è diventato uno specchio sociale, non solo e non tanto per ciò che riguarda direttamente l’informazione, la comunicazione e il dibattito politico ma in tutte le sue dimensioni di intrattenimento, evasione e spettacolo. Il risultato, sotto gli occhi e nell’esperienza comune degli italiani, anche di quelli che non vogliono saperne, è che tutti ormai parlano una lingua televisiva. (…) la lingua televisiva è essenzialmente una lingua assertiva, lontanissima da ogni sembianza di democrazia.”[6]
In questo modo si è affermato il Mostro Mite, per usare una felice espressione usata dal linguista Raffaele Simone.
Abbiamo assistito inermi alla “nascita di un paradigma di cultura globale di natura dispotica (…) alla nascita di quella sorta di moderno dispotismo culturale in cui viviamo da più di un ventennio e che ci inviluppa ormai nella sua rete. Si riferisce, infatti, a un sistema gestito da conglomerati multinazionali e da centri di potere finanziario, incentrato sui consumi, l’ubiquità dei media, e l’entertainment, su continui appelli alla volontà del popolo e un generico bisogno di religione e spiritualità. (…) la politica, l’economia e perfino la guerra si fanno oggi proprio attraverso la cultura delle masse, governando i gusti, i piaceri, i desideri, gli svaghi, le concezioni e le rappresentazioni, le passioni e il modo di immaginare la gente, ancora prima che le sue idee politiche. Il voto seguirà, e difficilmente sarà diverso da quello che si prevedeva.”[7]
La scuola, di conseguenza, ha perso la sua centralità nella diffusione della cultura e nella costruzione dello Zeitgeist, lo spirito del tempo.
E così quello che doveva essere l’imprinting culturale del Paese, progettato nella sua scuola pubblica, che si faceva carico delle diversità economiche, sociali, culturali e geografiche del Paese, è stato distrutto dall’offensiva dei centri di produzione culturale delle reti televisive Mediaset e da un modello culturale che ha cambiato, in modo soft, il senso comune di massa del Paese.
Dopo venti anni di bombardamento mediatico il Paese è diverso, ha perso buona parte dei suoi anticorpi democratici e della sua coscienza critica. Per questa ragione non si è colta, in profondità, la natura autoritaria della “buona scuola”.
La narrazione di questa ennesima contro-riforma della scuola pubblica è perfettamente organica alla società dello spettacolo, quella modalità di gestione del potere in cui “lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della sua gestione totalitaria delle condizioni d’esistenza.”[8]
La società dello spettacolo sta inglobando la narrazione collettiva del Paese mentre l’educazione diventa un “prodotto da banco” e l’offerta (formativa?) al pubblico di una delle più importanti istituzioni nazionali, qual è la scuola, assomiglia a quella della salumeria sotto casa.
Il suo ultimo saggio si intitola “A Lezione di anti-razzismo. Elogio della scuola indisciplinata, interculturale e di frontiera.” Palermo - Edizioni Istituto Poligrafico Europeo - 2014
[1] Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), Indicazioni nazionali per il curriculo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione. 4 Settembre 2012 - pag. 8
[2] Norberto Bottani, Requiem per la scuola? Il Mulino, Bologna, 2013 pag. 27
[3] D.P.R. 249/1998 – Statuto delle studentesse e degli studenti.
[4] Guido Calogero, La scuola dell’onniscienza in Il Mondo, 13 settembre 1955 – ora in G.Calogero, Scuola sotto inchiesta, Torino Einaudi 1965 pagg. 26-27
[5] Edgar Morin, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Raffello Cortina, Milano 2012
[6] Pier Aldo Rovatti, Noi i barbari. La sottocultura dominante. Raffaello Cortina, Milano 2011
[7] Raffaele Simone, Il Mostro Mite, Garzanti, Milano, 2008 pag. 100 - 101
[8] Guy Debord, La società dello spettacolo, De Donato, Bari, 1968.
Fonte: Alternative per il Socialismo ottobre/novembre 2015
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