La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 11 febbraio 2016

Il teatro delle ombre dei negoziati internazionali






di Agnes Sinai
La città di Eko Altantic, in costruzione su un’isola artificiale nella laguna di Lagos, in Nigeria, potrebbe ritrovarsi sott’acqua entro la fine del secolo. Nelle aree costiere del paese, con l’innalzamento del livello dei mari provocato dal riscaldamento del clima, l’acqua rischia di penetrare all’interno per ben 90 chilometri (1). Eko Altantic diventerebbe allora una di quelle rovine del futuro che permettono ai geologi di ricostruire la storia della Terra. 
Tre milioni di anni fa, all’epoca del pliocene, c’era in atmosfera la stessa percentuale di anidride carbonica di oggi. La temperatura era da 2 a 4 °C più calda, il livello dei mari da dieci a venti metri più elevato.
Oggi, l’incertezza domina, allo stesso ritmo dello scioglimento dei ghiacci dell’Antartico. Alcune ipotesi, e in particolare uno scenario del Potsdam Institute for Climate Impact Research, ritengono che, a bruciare tutti i combustibili fossili, nel prossimo millennio il mare si innalzerebbe di tre metri ogni secolo (2). Da un punto di vista chimico, la composizione dell’atmosfera attuale è eccezionale rispetto alle variazioni naturali dell’effetto serra dell’ultimo milione di anni. Confrontato con le osservazioni del clima passato, il riscaldamento di 3 °C (scenario medio) che potrebbe prodursi nel corso del XXI secolo è un cambiamento enorme, di un’ampiezza paragonabile a una transizione glaciale-interglaciale, ma in modo accelerato, perché l’ultima si era prodotta al ritmo di 1 °C circa ogni mille anni (3). E le tracce dell’epoca industriale – una parentesi nella storia umana – si vedranno ancora fra mille anni. Nel 3012 l’atmosfera conterrà il 30% della CO2 attuale. L’umanità è oggi la principale forza che governa il funzionamento del pianeta. In poco più di due generazioni è diventata una potenza geologica. Un insieme di segnali, del resto, prova che le attività umane producono stabilmente un’impronta tellurica di un’ampiezza paragonabile a quella che, nel passato, ha caratterizzato altri sconvolgimenti come le glaciazioni, il risveglio dei vulcani e la caduta di meteoriti. 
Gli strati geologici retaggio dell’urbanizzazione, delle dighe, della produzione industriale, delle attività minerarie e agricole contengono un buon numero di fossili di questa fase inedita per la Terra. Sostanze del tutto nuove emesse dagli umani a partire dal 1945 portano la firma caratteristica dell’antropocene: radionuclidi, gas fluorurati, prodotti delle biotecnologie e delle nanotecnologie. La globalizzazione della petrolchimica ha prodotto una «paleontologia della plastica», secondo l’espressione del geologo Jan Zalasiewicz. Le particelle di fuliggine emesse dalle industrie arrivano fino al polo Nord. Le società industriali lasciano tracce millenarie negli strati del suolo, nell’aria e negli oceani. 
I cambiamenti climatici si inscrivono in quello che il geografo Will Steffen, il geochimico Paul Crutzen e lo storico John McNeill hanno definito «la grande accelerazione» della storia umana (4). Questo periodo di esuberanza, che va dal 1945 a oggi, coincide con l’età d’oro del petrolio, della decolonizzazione, della democratizzazione e del consumo. A queste dinamiche, i negoziati onusiani rispondono con una fabbrica della lentezza. Non riescono a mettere in discussione il sistema produttivista, a prendere in mano le questioni dell’energia, della giustizia e dello sviluppo. Questa lentezza ha caratterizzato le sessioni di preparazione della prossima Conferenza delle parti (Cop), a Ginevra e a Bonn, con testi resi molto complessi dalla ricerca dell’unanimità fra i 196 partner. 
La modernità industriale ha esternalizzato la natura I negoziati, condotti a porte chiuse, balbettano. I cambiamenti climatici mettono a confronto la diplomazia dell’ambiente con una nebulosa di incertezze e accavallamenti temporali. Durante le «Cop», le politiche del clima si sono rivelate incapaci di inventare strumenti e modi di pensiero all’altezza delle sfide. Un enorme diniego della realtà che si manifesta in primo luogo con una retorica contabile figlia delle scienze economiche, abituate a stimare i costi e i benefici in funzione di proiezioni statistiche. Animata dalla fede in una crescita indefinita, la modernità industriale ha esternalizzato la natura, percepita come stock inerte di materiali, o anche come fornitrice di flussi finanziari a titolo di remunerazione dei «servizi resi» dagli ecosistemi. La soglia dei 2 °C di aumento massimo della temperatura, road map dei negoziati, fa parte di questo modo di pensare, che presuppone una certa stabilità e prevedibilità. Insomma si tratterebbe di gestire il clima grazie all’ingegnosità umana e alla mobilitazione politica. In realtà, è difficile determinare un livello di gas serra accettabile, in grado di stabilizzare il clima. Nessuno sa infatti quando arriverà il punto di rottura catastrofico per l’umanità (si legga l’articolo di Eric Martin a pagina 12). 
Gli autori del magistrale Gouverner le climat? ricorrono al concetto di «scisma di realtà» per indicare la profonda sconnessione fra i processi materiali che degradano il clima e le istanze multilaterali messe in opera in questi venti anni (5). Per cominciare, sembra vano pretendere di risolvere i problemi causati dalla combustione delle energie fossili ex post, gestendo unicamente gli scarti, senza porre il problema della loro estrazione. Assurdamente, i negoziati si occupano delle emissioni di CO2 senza mettere in discussione i modelli di sviluppo economico, le regole del commercio internazionale e il funzionamento del sistema energetico mondiale. 
Un altro esempio di sconnessione: il protocollo di Kyoto non ha fatto che avallare l’egemonia dei meccanismi di mercato a livello internazionale come metodo di protezione dell’ambiente, considerando il clima un bene economico misurabile e omogeneo. I «meccanismi di flessibilità» intendono promuovere riduzioni delle emissioni là dove sono più efficienti dal punto di vista economico. Questa logica della compensazione è stata estesa alle emissioni derivanti dalla deforestazione con il meccanismo Redd (che sta «Riduzione delle emissioni di gas serra provocate dalla deforestazione e dal degrado delle foreste»). In Europa, il mercato del carbonio basato sullo scambio di quote di emissione si è rivelato un fallimento cocente.
Ed ecco il terzo «scisma»: la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Unfcc) nulla può rispetto al sistema di libero scambio messo in essere dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), le cui regole hanno la meglio rispetto alla protezione del clima. Questa gerarchia di norme si ritrova negli attuali negoziati commerciali transatlantici. Le trattative sull’accordo di libero scambio fra Europa e Canada in corso dal 2013 gettano un’ombra sulle politiche climatiche: l’Europa apre le porte al petrolio non convenzionale dell’Alberta (6). 
Secondo uno studio dell’associazione statunitense Natural Resources Defense Council (Nrdc), le importazioni europee di scisti bituminosi, che ammontavano a 4.000 barili al giorno nel 2012, sono destinate ad aumentare in modo spettacolare: fino a 700.000 barili al giorno da qui al 2020 (7). L’oleodotto Energy East, costruito da TransCanada, alimenterà le raffinerie europee in un mercato transatlantico libero da qualunque vincolo. 
Come sottolinea lo storico Dipesh Chakraborty, la crisi climatica mette in luce la collisione fra tre storie: quella della Terra, quella dell’evoluzione umana sul pianeta e infine quella, più recente, della civiltà industriale (8). Tre storie che procedono su scale e velocità differenti, e costringono le società moderne a rivedere i loro modi di pensare. Bisogna comprendere che la vita terrestre non ha più basi stabili. 
L’antropocene ha aperto una breccia nella storia della Terra, che obbliga a ripensare il destino umano sulla base del principio di una radicale incertezza quanto agli effetti soglia, ai punti di non ritorno, ai fenomeni irreversibili e al possibile caos del sistema climatico. 
Pianificare l’abbandono del carbone come combustibile
In questa situazione, il climatologo James Hansen raccomanda di pianificare l’abbandono del carbone come combustibile fossile. Più che di un principio di precauzione, si tratta di un «principio del massimo», che permette di individuare lo scenario meno cattivo nello scenario peggiore, se così si può dire. Secondo lo studio di Christophe McGlade e Paul Ekins, dell’University College di Londra, un terzo delle riserve di petrolio, la metà di quelle di gas e oltre l’80% di quelle di carbone dovrebbero rimanere sottoterra per evitare il surriscaldamento del pianeta (9). Infatti, le riserve fossili del globo recuperabili nelle condizioni tecniche ed economiche attuali rappresentano uno stock di circa 2.900 giga-tonnellate (Gt) di CO2, ovvero tre volte le emissioni accettabili per l’obiettivo di limitare il riscaldamento del clima a +2 °C.
Un po’ dappertutto stanno crescendo movimenti di lotta contro l’estrazione di risorse minerarie ed energie fossili. Dal delta del Niger in Nigeria al parco naturale dello Yasuní in Ecuador (10), la rete Environmental Justice Organisations, Liabilities and Trade ne classifica centinaia. Il papa, nell’enciclica Laudato si’, rivolge un invito alla sobrietà (11). Diversi think tanks propongono una ripartizione pro capite delle emissioni. In India, il Centre for Science and Environment fondato da Anil Agarwal e diretto da Sunita Narain, distingue fra le «emissioni di sopravvivenza» dei poveri e le «emissioni di lusso» dei ricchi, e propone l’equa suddivisione dei beni comuni per abitante. L’irlandese Feasta (Foundation for the Economics of Sustainability, ma anche «futuro» in gaelico) propone di fare delle energie fossili un bene comune planetario razionato: un fondo pubblico internazionale per il clima attribuirebbe, all’asta, una quantità annuale plafonata di permessi di produzione alle industrie estrattive, e suddividerebbe equamente la manna finanziaria ricavata fra gli abitanti della Terra. 
«La crisi climatica solleva grandi questioni di giustizia: giustizia fra le generazioni, giustizia fra le piccole isole-Stato e i paesi inquinatori (sia nel passato che nel futuro), fra i paesi sviluppati industrializzati (storicamente responsabili della maggior parte delle emissioni) e i paesi in via di industrializzazione», riassume Chakrabarty. Alcuni paesi soltanto (fra dodici e quattordici) e una piccola parte dell’umanità (circa un quinto della popolazione mondiale) sono storicamente responsabili dei gas.
Rimane la strada del diritto. Al Vertice Rio+20, nel giugno 2012, è nato un movimento di oltre 500 organizzazioni della società civile, per mettere fine all’impunità delle imprese transnazionali. Il movimento End Ecocide on Earth lavora per modificare lo statuto di Roma, che ha dato vita alla Corte penale internazionale, affinché quest’ultima possa deliberare sul crimine di ecocidio. Un gruppo di giuristi ha elaborato due proposte di convenzione chiamate «Ecocrimes» ed «Ecocide» (12). 
Esse permetterebbero di rafforzare e armonizzare su scala mondiale la prevenzione e la repressione dei crimini ambientali. L’ecocidio figurerebbe fra i crimini più gravi, allo stesso titolo di quelli contro l’umanità. Il rapporto raccomanda di istituire un procuratore internazionale dell’ambiente, di pensare alla creazione di una Corte penale internazionale dell’ambiente, di creare un Gruppo di ricerca e di indagine per l’ambiente (Green), e anche di stabilire un fondo internazionale di indennizzi per l’ambiente e la salute pubblica. Con questo inedito insieme di misure, scrive la giurista Mireille-Delmas-Marty, si tratta tanto di «universalizzare la condanna» quanto di «aprirsi alla speranza di un destino commune (13)». 

(1) Nnimmo Bassey, «L’Afrique et les catastrophes climatiques qui s’annoncent», in Crime climatique. Stop ! L’appel de la société civile, Seuil, coll. «Anthropocène», Parigi, 2015.

(2) Ricarda Winkelmann, Anders Levermann, Andy Ridgwell, Ken Caldeira, «Combustion of available fossil fuel resources sufficient to eliminate the Antarctic ice sheet», Science Advances, vol. 1, no 8, Washington, DC - Cambridge (Royaume-Uni), 11 settembre 2015.

(3) Valérie Masson-Delmotte, Christophe Cassou, Parlons climat en 30 questions, La Documentation française, coll. «Doc en poche», Parigi, 2015.

(4) Will Steffen et alii, «The Anthropocene: Conceptual and historical perspectives», Philosophical Transactions of the Royal Society A, vol. 369, n. 1938, 2011.

(5) Stefan Aykut, Amy Dahan, Gouverner le climat? 20 ans de négociations internationales, Presses de Sciences Po, coll. «Références - Développement durable», Parigi, 2015.

(6) Si legga Emmanuel Raoul, «Freddo e inquinante. È il bitume canadese dell’Alberta», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 201(7) Danielle Droitsch, Luke Tonachel, Elizabeth Shope, «What’s in your tank?  Northeast and Mid-Atlantic states need to reject tar sands and support clean fuels», Nrdc Issue Brief, New York, gennaio 2014.

(8) Dipesh Chakrabarty, «Quelques failles dans la pensée sur le changement climatique», in Emilie Hache (a cura di), De l’univers clos au monde infini, Editions Dehors, Bellevaux, 2014.

(9) Christophe McGlade, Paul Ekins, «The geographical distribution of fossil fuels unused when limiting global warming to 2°C», Nature, no 517, Londra, 7 gennaio 2015.

(10) Si legga Aurélien Bernier, «Ecuador, la biodiversità alla prova della solidarietà internazionale», Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 2012.

(11) Si legga Jean-Michel Dumay, «Il papa contro lo “sterco del diavolo”», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2015.

(12) Laurent Neyret (a cura di), Des écocrimes à l’écocide. Le droit pénal au secours de l’environnement, Bruylant, coll. «Droit(s) et développement durable», Bruxelles, 2015.

(13) Ibid.

Fonte: Ecologia politica

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