La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 11 febbraio 2016

Riconversione e beni comuni







di Giovanna Ricoveri
La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile, così Alexander Langer titolava un saggio importante e ancora attualissimo, scritto in occasione dei Colloqui di Dobbiaco del 1994 (Ciuffreda - Langer, 2012). La riconversione ecologica del sistema produttivo, spiegava Langer, è strettamente legata alla riconversione personale degli stili di vita, che a sua volta comporta la riduzione dei consumi e la loro riqualificazione ecologica. Entrambi gli aspetti della riconversione – che Langer preferiva chiamare «conversione» per sottolinearne queste specifiche caratteristiche – sono importanti, ma quel che più conta è a mio parere riconoscere che la riconversione deve essere «socialmente desiderabile», e non può essere imposta per legge.
Nel testo citato (e in altri reperibili nel sito della Fondazione che porta il suo nome), Langer chiariva questo punto affermando che la conversione ecologica della società e dell’economia richiede di rovesciare il motto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte) nel suo contrario, e cioè lentius, profundius, suavius (più lento, più profondo, più dolce), concludendo che «se non si radica in questa prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere continuamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso». 
Molte cose sono cambiate da allora – dalla crescente distruzione, privatizzazione e mercificazione della natura, alla crisi economico- finanziaria che dura da oltre sette anni specie in Europa, alla continua erosione della democrazia. La conversione ecologica e sociale è sempre più necessaria, ma resta un’utopia concreta discussa in letteratura, osteggiata dai governi e praticata in alcuni casi importanti come quelli descritti in altri capitoli di questo libro, che non riesco- no a «fare sistema». 
Non tutto è cambiato in peggio, in questi vent’anni: vi è oggi sicuramente maggiore consapevolezza delle buone ragioni della riconversione. Ma la maggioranza della popolazione non sembra considerarla ancora una scelta necessaria per uscire dalla crisi e costruire un nuovo welfare in paesi come l’Italia, dove «da secoli si produce falsa ricchezza per combattere false povertà, e Re Mida èpatrono del nostro tempo»; dove prevale ancora l’ideologia della crescita il- limitata, della competitività internazionale, della grande fabbrica e del consumo di massa, persino nel settore agroalimentare, con conseguenze molto pesanti su aspetti decisivi della salute dei cittadini e su quella del pianeta. 
Sulla riconversione, la domanda decisiva continua ad essere a mio modesto parere quella formulata vent’anni fa da Langer, quando diceva che quel che conta «[...] non è tanto cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni e impulsi capaci di esprimere una prospettiva alternativa al sistema dominante» (corsivo mio), che renda la riconversione «socialmente desiderabile». 
«Èdiventato sempre più chiaro che siamo posizionati tra un vecchio mondo che non funziona più e un mondo nuovo che lotta per nascere. Circondate da un ordine arcaico di gerarchie centralizzate da una parte e da mercati feroci dall’altra, governati da Stati complici di una crescita economica che distrugge il pianeta, in tutto il mondo le persone stano cercando alternative» (Silke, Bollier, 2012). Siamo dentro una transizione lunga e difficile perché segnata dalla globalizzazione che Marco Revelli definisce «il violento salto di qualitàche segna la cesura storica di fine millennio» (Revelli, 2014). Per uscire vincenti da questa transizione, occorre anche evitare che il capitale la utilizzi per riposizionarsi e avviare un nuovo ciclo domi- nato dal profitto d’impresa come èaccaduto più volte in passato. 
I commons (beni comuni, nella traduzione italiana) sono stati recentemente riscoperti nei paesi di capitalismo avanzato, e possono esprimere un nuovo orizzonte di senso perché incarnano un sistema di relazioni sociali basato sulla cooperazione e sulla solidarietà, sia che si tratti di quelli di sussistenza che esistevano in Inghilterra prima che la Rivoluzione industriale li trasformasse in risorse o in- put per la produzione industriale sia di quelli sui quali vivono oggi le comunità agro-forestali e della pesca nel Sud del mondo. Incarnano una cultura diversa e alternativa da quella oggi predominante, dove la cooperazione prevale sulla competitività, l’uso collettivo dei beni sulla loro proprietà individuale, il valore della diversità biologica e sociale sull’omologazione, le economie regionali sull’integrazione del mercato globale, il decentramento sulla concentrazione geopolitica delle scelte, l’autoregolamentazione e la democrazia di- retta sulla democrazia di mandato; dove i rapporti sociali e i rap- porti con la natura sono strettamente connessi. 
Come afferma Gustavo Esteva i commons possono già essere «il germe della nuova società [...] che emerge nel grembo della vecchia ed è spesso nascosta e distorta dalla mentalità precedente. Una delle sfide più importanti – aggiunge – è identificare chiaramente la novità di questa creazione sociologica della gente comune, che in tutte le parti del mondo sta creando la nuova società attraverso un nuovo tipo di rivoluzione, una rivoluzione silenziosa e quasi invisibile» (Esteva, 2014). 
Alcune proprietà dei commons sono particolarmente importanti rispetto alla riconversione ecologica e sociale. 
Primo: una loro caratteristica fondante, che è la diversità e specificità di tempo e di luogo. I commons sono un insieme molto articolato di forme di organizzazione sociale e produttiva, ed è per questo che hanno resistito nel tempo nonostante i continui rischi di venire cancellati come un residuo del passato, che ostacola il «progresso». Hanno resistito proprio grazie alla flessibilità con cui le comunità locali riescono ad adattarsi alle condizioni storiche, geografiche e culturali prevalenti nei diversi luoghi e periodi storici. 
La riscoperta dei commons ha pertanto messo in discussione lo sviluppo locale etero-diretto, rendendo chiaro che coloro che vivo- no su un dato territorio ne hanno una conoscenza superiore a qualunque «professionista» che viene dall’esterno e sono quindi in grado di fare le scelte più giuste per gli abitanti di quell’area, senza subire i condizionamenti provenienti dagli altri paesi e dalle grandi multinazionali. Di qui l’importanza delle economie regionali e della riterritorializzazione delle produzioni e dei mercati, su cui da tempo insiste Guido Viale (vedi il suo saggio nella presente raccolta). 
Secondo: come detto sopra, i commons possono esprimere un orizzonte di futuro, ma solo a condizione che non vengano intesi come un nuovo paradigma, che va a sostituire quello occidentale. Il capi- talismo ha infatti negato la diversità e ha teso ad unificare il mondo intero all’insegna dello «sviluppo», come spiegònel 1949 Harry Truman (Sachs, 1992), il presidente degli Stati Uniti, nel messaggio al Congresso, quando coniò l’espressione «paesi sottosviluppati» per indicare i paesi «poveri» del Sud, che a suo dire avrebbero potuto entrare presto nel club dei paesi ricchi... e oggi sappiamo com’è an- data a finire. L’istanza di universalismo del sistema dominante viene tuttavia da piùlontano, da quando il capitalismo «in suo nome» ha colonizzato il mondo intero. 
Terzo: i commons non sono una nuova economia, ma un’alternativa all’economia mainstrem che ha inglobato la società, legittimando il profitto come il fine primario dell’attività economica e destrutturando il legame sociale che èalla base della convivenza. Su questo punto la letteratura è ricchissima, e basti qui ricordare il contributo fondamentale di Karl Polanyi (Polanyi, 1974). 
I movimenti sociali ed ecologici che in Italia e in tutte le parti del mondo sperimentano la ristrutturazione dell’apparato produttivo e dei rapporti sociali resistono alla crisi e così facendo costruiscono pezzi dell’alternativa, favorendo la «correzione di rotta» di cui si èparlato sopra. Non pensano se stessi come partiti politici néopera- no secondo quella logica: hanno incorporato la cultura dei beni co- muni perché sono nati da quella cultura, dalla cultura delle comunità agro-forestali e della pesca, che in tutto il mondo lottano da sempre contro la recinzione dei beni naturali sui quali esse vivono; e anche perché l’obiettivo che le comunità tradizionali si propongono èdifendere insieme le proprie condizioni di vita e i beni naturali dai quali dipende la loro sussistenza e sopravvivenza, che non potrebbero essere difesi in nessun altro modo. 
«Sembra che tutto quello che sto dicendo sia una questione di parole – dice Esteva nel testo già citato. – Sì, è una questione di paro- le. Per avventurarsi in una nuova era, per avanzare verso il nuovo mondo che cerca faticosamente di nascere, abbiamo bisogno di parole nuove. Anche durante la transizione» (corsivo mio). 
Per costruire il consenso necessario a «fare sistema», occorre infatti che le esperienze di riconversione trovino e usino parole nuove per pensarsi e raccontarsi, diventando i nodi di una rete globale – il movimento dei commons e l’alternativa. 

Bibliografia 

Ciuffreda G., Langer A., Conversione ecologica e stili di vita, Rio 1992-2012, Edizioni dell’asino, Bolzano, 2012. 

Esteva G., Nuovi ambiti di comunità Per una riflessione sui beni comuni. Voci da Abya Yala, Hermatena, Bologna, 2014. 

Polanyi K., La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974. Revelli M., Post-Sinistra. Cosa resta della politica in un mondo globalizzato, Laterza, Roma-Bari, 2014. Ricoveri G., Nature on Sale. The Commons Versus Commodities, Pluto Press, London, 2013. Sachs W., 1992, Un mondo, in Dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1992. 

Silke S., Bollier D., The Wealth of the Commons: A World Beyond Market and State, The Commons Strategy Group, Levellers Press, Amherst, MA, 2012.

Fonte: Ecologia politica 

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