La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 11 febbraio 2016

I compiti a casa del genere umano







di Aldo Tortorella
A dare ascolto al vecchio Marx, «l’umanità si pone soltanto i compiti che essa può risolvere». Ho scritto “il vecchio”, ma in verità, quando enunciò questa ottimistica sentenza, a poco più di dieci anni dalla rivoluzione del 1848, era un quarantenne in pieno vigore. La rivoluzione non aveva dato i risultati sperati dal Manifesto dei comunisti, ma una grande rottura c’era stata. Era caduta l’illusione della Restaurazione – quella di avere sconfitto assieme alla Francia le idee della Rivoluzione francese e di avere ridato vita permanente ai vecchi regimi. Il nazionalismo iniziava a scuotere gli imperi, sia l’Italia che la Germania stavano per unificarsi. Negli Stati Uniti lo schiavismo sarà abolito pochi anni dopo – a prezzo dello scoppio di una guerra civile – e contemporaneamente cadrà in Russia il regime della servitù della gleba.
«L’umanità» – quella europea occidentale del primo capitalismo – aveva «assolto al compito» di creare condizioni migliori, ivi compreso il più duro colonialismo, alla espansione del nuovo sistema produttivo con le sue nuove relazioni umane.
Ma adesso che compiti «risolubili» si viene ponendo l’umanità? La Rivoluzione russa, come quella francese di tanto tempo prima, ha conosciuto il terrore più terribile, la propria negazione in un regime assolutistico, il crollo finale (ma non senza il merito di avere stimolato alcune conquiste sociali nel capitalismo occidentale e di aver contribuito a salvare il mondo dalla barbarie nazista). Il modello economico capitalistico ha conquistato il pianeta. Ma una parte grande del genere umano non riesce ancora a soddisfare i bisogni primari. E ambisce a diventare come l’altra parte che vive inventando di continuo nuovi bisogni, più o meno assurdi e più o meno pericolosi. Il risultato complessivo, come ormai è stato ufficialmente riconosciuto, è che sono a rischio le condizioni di vita su questa terra non più solo di tante specie animali non umane, ma anche della specie animale chiamata (con involontario umorismo) homo sapiens sapiens.
A completare il pericolo, è venuta la ripresa del confronto tra le potenze e le frizioni in atto su molte frontiere. Il che ha portato di recente William Perry, capo del Pentagono negli anni novanta, a dire che «la probabilità di un disastro nucleare è maggiore adesso che durante la guerra fredda». In più, come si sa, alcuni dei capi del mondo degli sconfitti hanno pensato che alla strapotenza dei vincitori si potesse rispondere solo trasformando i corpi umani in bombe sparse per il mondo, inaugurando così un nuovo tipo di guerra generalizzata mentre serpeggiano quelle antiche, micce sempre accese per un fuoco più grande.
Dunque, il compito dell’umanità attuale parrebbe certamente quello di provvedere alla propria salvezza. Che sia un compito risolubile dobbiamo crederlo. Ma non è chiaro che cosa si possa intendere oggi pensando e usando la parola umanità come il soggetto di una impresa attuabile.
Alla metà dell’Ottocento (ma in realtà per lungo tempo) questa parola era ancora interpretabile come l’insieme più o meno magmatico di forze materialmente e idealmente dissimili od opposte (le classi sociali, le nazioni, gli Stati) dalla cui reciproca azione o lotta – organizzata dalle élites di ciascun campo – sarebbe venuta fuori, in definitiva, la possibile soluzione, immaginata sempre come positiva. La eventuale «rovina comune» delle «classi in lotta» veniva vista, dai due giovani autori del Manifesto comunista, sempre come episodio parziale, avendo in mente esempi tratti dall’antichità classica.
Le categorie della riflessione erano quelle della dialettica appresa dall’antico maestro seppure, per quei due giovani della sinistra hegeliana, rimettendola, come dissero, con i piedi per terra. La rivoluzione del 1848 appariva sconfitta, ma la storia era in marcia. La Comune di Parigi sarà soffocata nel sangue, ma si era convinti che il cammino non fosse interrotto. L’internazionalismo socialista si infranse con la prima guerra mondiale, ma parve che rinascesse come comunista. In definitiva, fu ancora questo abito mentale, ispirato da un provvidenzialismo storicistico, a far ritenere che con la Rivoluzione d’ottobre, nonostante le immani tragedie, l’ineluttabilità del socialismo venisse provata – e quasi infissa nella realtà storica come dato di fatto irreversibile.
Dalla parte che riteneva di essere, sia pur genericamente, progressista per lungo tempo è parso impensabile che potesse venire un tempo in cui lo sviluppo economico e le lotte interne al genere umano portassero sino al punto in cui siamo, quando bisogna temere addirittura per le sorti della specie. Non ne dubitò neppure la Luxemburg quando pose l’antitesi «socialismo o barbarie»: non c’era da dubitare che il socialismo avrebbe vinto (e comunque anche alla barbarie c’è sempre rimedio). Certo, la storia dell’umanità è una ininterrotta, orrenda scia di sangue. Guerre, massacri, torture, tormenti. Fummo educati fin da bambini ad ammirare Ulisse, così astuto da inventare un marchingegno per penetrare nella città nemica e distruggerla dando luogo a una immane carneficina, così coraggioso da sfidare e vincere tutte le prove più ardue a prezzo della morte di tutti i suoi compagni d’avventura, così implacabile da ammazzare uno a uno quelli che avevano abusato della sua casa e insidiato la casta consorte. Il vincente, e cioè il più forte, sarebbe stato il migliore. E questa consolante visione delle cose si avvalorava del fatto che i vincenti avendo conquistato le ricchezze economiche ne dedicavano una parte rilevante, come accade ancora oggi, a sorreggere sia chi ricreava il mondo indagandone la costituzione materiale, sia chi lo trasfigurava con le parole, con le immagini, con i suoni, nobilitando – o sacralizzando – i desideri e inventandone di nuovi.
C’è stata, dunque, come una sorpresa, e anzi una lunga incredulità, di fronte agli allarmi che via via sono stati lanciati per quanto riguarda l’ambiente, prima da parte di pochi scienziati, poi da un loro numero sempre maggiore, da movimenti di opinione crescenti, da diverse autorità morali, tra cui quella del capo dei cristiani cattolici. Ha incominciato a scomparire la fiducia che senza un intervento cosciente fossero automaticamente assicurate «le magnifiche sorti e progressive» su cui irrideva il poeta.
Ma Leopardi pensava alla forza distruttiva della natura, mentre «la mortal prole infelice» ci sta pensando da sola. Per ultimi, a capirlo, sono arrivati i capi di governo e di Stato – sebbene con misure largamente giudicate come troppo vaghe e insufficienti. Tuttavia anche solo il dichiarare che la temperatura non dovrà superare in avvenire un certo piccolo aumento, pena la catastrofe globale, è almeno una presa di coscienza.
Assai peggiore è l’atteggiamento per quanto riguarda il pericolo di guerra e la guerra generalizzata promossa da gruppi dirigenti che propagandano e attuano idee di morte strumentalizzando la loro religione, quella islamica, ma che trovano terreno fertile nelle condizioni sociali e nazionali avvilenti in cui vivono decine e decine di milioni di credenti in quella fede. La risposta, da parte dei paesi più economicamente sviluppati, suona essenzialmente come una chiamata alle armi. Anzi, una forte pattuglia di opinionisti, da noi come altrove, preme apertamente per una guerra di civiltà e di religione in nome dell’orgoglio per la “nostra” civiltà, per i “nostri” valori, per la “nostra” fede cristiana. Certamente, sono doverose le necessarie misure di sicurezza. Anzi, bisogna chiedersi se in certi più delicati settori dei servizi non ci siano falle gravi o, peggio, “distrazioni” volute per favorire la paura e le sue conseguenze politiche. La storia non è un insieme di complotti, ma i complotti esistono. Della bomba di Orsini seppero molto i lettori della carta stampata (una esigua minoranza) oltre che gli anarchici (che ne fecero anche una canzone). Ma oggi le stragi avvengono in diretta televisiva, terrorizzando i più ed esaltando i fanatici delle opposte parti. Basta una pattuglia di assassini o, addirittura, una coppietta di sposi con mitraglia per ottenere un risultato mondiale.
Proprio perciò se l’argomento è prevalentemente, o unicamente quello della mobilitazione e della moltiplicazione degli armati la missione dei fanatici di ogni parte – quella di spingere allo scontro totale – è largamente compiuta. Per questo, ad esempio, la pur timidissima e parzialissima cautela dell’Italia riluttante a proclamare lo stato di guerra dopo la strage di Parigi avrebbe dovuto essere sorretta dall’opposizione di sinistra per poter tendere a trasformare una esitazione in una politica. La opposizione non consiste nel dire tutto il male immaginabile del governo in carica, ove non sia una tirannide, ma nel proporre alternative possibili, e nell’incoraggiare gli eventuali passi, per quanto manchevoli, verso una direzione che appaia utile per una causa giusta. Sa dire solo di no chi è incerto della propria identità e pensa di conquistarla attraverso la negazione dell’altro, ma dimostrando così, senza volerlo, la piena subalternità di chi ha una vita a ricasco di quella altrui.
La cautela andava e va incoraggiata, sottolineando, però, ch’essa sarà travolta, come va avvenendo, se non diventa azione per una politica nuova dell’Europa e dell’occidente. Una politica cui allude molto indirettamente – e, ovviamente, nel linguaggio della religione cattolica – il “giubileo della misericordia” proclamato dal papa sudamericano, conoscitore delle sterminate e disperate periferie delle periferie del mondo. L’etimo è ben chiaro. Il “miserere” è l’invocazione alla pietà divina, il richiamo al cuore (cor, cordis) l’appello all’uomo, all’umanità, verso chi soffre. La misericordia, dunque, è, mi pare, la traduzione in termini di azione religiosa del sogno di Francesco di «una chiesa povera per i poveri» (anziché di quella sposata coi ricchi e potenti, ben viva e all’agguato per tornare al comando). E, comunque, è un argine all’idea di una crociata in armi contro gli “infedeli”, contraria ma in tutto eguale a quella opposta.
Com’è evidente, però, ci vuole ben di più per porre freno all’esasperazione del conflitto che si rivolge contro l’occidente ma trae il suo alimento – oltre che da un modello di sviluppo che ha lasciato alla fame tanta parte dell’umanità – da motivi politici molto concreti e noti : l’oltranzismo del governo israeliano contro i palestinesi, le lotte interne al mondo musulmano per l’egemonia, lo scontro tra gli occidentali per il controllo degli affari petroliferi, per dirne i principali. Ci vorrebbe, assieme ad un’autocritica vera del mondo occidentale vincente, la fine della carità pelosa (e volta più al profitto dei paesi avanzati che all’avanzamento dei più deboli) e un gigantesco sforzo per la giustizia al fine di parlare alle periferie del mondo e alle periferie stesse delle metropoli occidentali. E proprio in nome dei “nostri” autentici valori. Che non sono quelli della civiltà della competizione esasperata e dei consumi dissennati, ma, appunto, quelli di un’etica della giustizia creata da una lunga tradizione di pensiero e avversata con ogni mezzo da chi è installato nei luoghi del privilegio e del potere.
Dovrebbe essere qui anche il terreno per il rifacimento di una sinistra politica che non sia classificabile come puro – e, talora, penoso – elettoralismo. Rifondarsi su un’etica della giustizia non significa imboccare la strada della vacua predicazione, ma vuol dire innanzitutto la concreta analisi delle assurdità di un assetto sociale che si finge razionale mentre è un coacervo di irragionevolezze e di abbagli. L’esigenza di un “ordine nuovo” cui si riferirono i nostri antenati era più che fondata. Gli errori stavano in altra parte del ragionamento e dello svolgimento. E, tra i principali, fu quello di una presunzione dogmatica di possesso della verità, contro cui non bastò la medicina dello storicismo. Un errore che nasconde la necessità di guardare al proprio contegno prima ancora di criticare quello degli altri, chiedendo a se stessi di fare ciò che si vorrebbe che gli altri facessero. Una necessità più viva che mai.
Recentemente, qualche decina di migliaia di piccoli risparmiatori italiani si sono svegliati un giorno sapendo di aver perso tutto i loro (pochi) soldi per le promesse truffaldine delle banche di loro fiducia. Si sono rivolti contro “la sinistra” al governo: era una esagerazione perché al governo non c’è la sinistra. Quella che si proclama come sinistra, però, da un lato dice di sapere che il capitale finanziario è al comando, dall’altro lato, a parte qualche eccezione, dimostra di non sapere proprio niente del funzionamento del sistema finanziario (oltre che dei problemi materiali dei suoi stessi elettori), altrimenti qualcuno si sarebbe levato a dire – in terre di tradizione rossa - che era una volgare truffa vendere quelle obbligazioni “subordinate” come titoli senza rischio. Eppure da gran tempo si sa, come disse un economista (e questa rivista se ne fece eco), che le azioni e le obbligazioni stanno ormai «nel posto dei calzini», cioè si sono diffuse a dismisura anche tra i ceti popolari. Non si tratta di una distrazione o di semplice ignoranza. La sinistra ha perso la sua funzione eticamente consapevole. Credendo che il tema centrale fosse quello della conquista del potere non ha saputo più il motivo per cui è nata e per cui sarebbe utile che ci fosse.
Solo un principio morale criticamente assunto e vissuto spinge all’analisi concreta della realtà e alla dedizione, anche, per una buona politica Non a caso, come abbiamo ricordato nel numero scorso, abbiamo voluto che, parlando di Marx, ci fosse chi ci rammentasse non solo la lezione di Gramsci ma anche quella di Simon Weil, cervello e anima grande e proprio perciò analista concretissima e disincantata della condizione operaia e della medesima realtà economica e dunque anche delle supposizioni marxiane. Assumere un principio per orientare le proprie azioni non significa (va sempre ribadito) volerlo imporre ad altri e meno che mai volere uno Stato etico, vuol dire metterlo in gara con quello di altri, per provarne la validità ai fini del bene comune. Dato che è constatabile il rischio estremo cui è giunto un mondo fondato sulla ingiustizia – sulla legge del più forte e violento – è ragionevole affermare che solo una nuova etica della giustizia può portare una vera pace e rendere risolubile il compito del genere umano di salvare se stesso. Basare su questo principio una volontà comune sarebbe già una conquista, certo difficile. E praticarlo difficilissimo. Ma, credo, ne varrebbe la pena.

Fonte: Critica Marxista

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