di Graziella Tonon
Una spaventosa devastazione ha investito il paesaggio italiano - scrive Paolo Berdini nel suo documentatissimo pamphlet di denuncia dei guasti urbanistici italiani, non a caso intitolato Le città fallite - proprio negli anni in cui si afferma il pensiero liberista e si diffonde l'urbanistica contrattata. Emblematico del disastro è la colata di cemento - "la più grande espansione edilizia dal periodo dell'immediato dopoguerra"(1)- che in quegli anni ha ingoiato gran parte dei territori extraurbani, un tempo agricoli.
La distruzione della campagna a cui si è accompagnato un processo accelerato di degrado delle città, è la dimostrazione che senza leggi, vincoli e regole che lo costringano a comportarsi diversamente, il capitalismo finanziario-immobiliare, con i comuni resi di fatto complici dalla legge Bassanini, non è in grado di produrre civiltà. Ha invece prodotto e continua a produrre inciviltà metropolitana.
Basta rivolgere lo sguardo al paesaggio che impropriamente di volta in volta viene definito "città diffusa"o "città infinita": al posto della cattaneana "intima unione della città col suo territorio" (2), un affastellarsi informe e dissennato di case e fabbriche d'ogni tipo e dimensione, con corollario di torri terziarie e di ipermercati, che ha provocato, oltre a una cementificazione del suolo giunta ormai a livelli insostenibili per un assetto ecologicamente equilibrato, anche la scomparsa, col residuo mondo rurale, dei caratteri propri d'ogni spazialità organica: si è distrutto ruralità senza creare urbanità. L'incuria e il disordine dello spazio aperto pubblico regnano infatti sovrani insieme alla lontananza tra le cose e le funzioni necessarie alla vita, accessibili unicamente attraverso l'uso dell'automobile, con costi sociali ed economici enormi.
Basta rivolgere lo sguardo al paesaggio che impropriamente di volta in volta viene definito "città diffusa"o "città infinita": al posto della cattaneana "intima unione della città col suo territorio" (2), un affastellarsi informe e dissennato di case e fabbriche d'ogni tipo e dimensione, con corollario di torri terziarie e di ipermercati, che ha provocato, oltre a una cementificazione del suolo giunta ormai a livelli insostenibili per un assetto ecologicamente equilibrato, anche la scomparsa, col residuo mondo rurale, dei caratteri propri d'ogni spazialità organica: si è distrutto ruralità senza creare urbanità. L'incuria e il disordine dello spazio aperto pubblico regnano infatti sovrani insieme alla lontananza tra le cose e le funzioni necessarie alla vita, accessibili unicamente attraverso l'uso dell'automobile, con costi sociali ed economici enormi.
La dimensione metropolitana, se non governata in senso civile, è, d'altro canto, per sua natura potenzialmente fonte di gravi squilibri: non bisogna infatti dimenticare che, in Lombardia sicuramente (3), dalla fine del settecento essa rappresenta la forma necessaria allo sviluppo del capitalismo, un modo di produzione che ha come principio ordinatore degli assetti fisici e funzionali non la cura dei luoghi ma la rimuneratività privata degli investimenti. Un principio astratto, dunque, non organico, non umano, che riduce a valore di scambio ogni cosa, compresi gli organismi viventi e i loro storici ambiti di vita,di cui provoca alla lunga la morte se lo si lascia totalmente libero di agire. Non a caso quell'invenzione umana per eccellenza che si chiama città è oggi moribonda. Anche se l'aggressione alla città si è manifestata con particolare virulenza soprattutto in questi ultimi decenni, parallelamente al diffondersi in tutti i campi del pensiero liberista e all'affermarsi come dominante dell'economia finanziaria-immobiliarista, nella logica capitalistica l'organismo urbano configuratosi nella storia - unità inscindibile di civitas eurbs - costituisce un ostacolo da rimuovere da almeno duecento anni. Sia la complessità sociale e funzionale della civitas, con le sue istituzioni e regole civili strutturate sulle relazioni comunitarie, sia la forma dell'urbs, con il suo corpo delimitato a misura umana, risultano infatti oggettivamente degli impedimenti per un modo di produzione che ha il suo proprio motore nel perseguimento del massimo profitto con tutti i mezzi e in tutte le direzioni possibili dello spazio.
Se sul breve periodo non è realisticamente prevedibile la fuoriuscita dal capitalismo, ma crediamo che le città siano ancora per gli esseri umani il luogo per abitare insieme nel migliore dei modi possibili, come diceva Aristotele; e vogliamo, come scrive Berdini, che le città tornino "a essere i luoghi adatti a consentire l'evoluzione culturale e spirituale delle popolazioni" (4), occorre sicuramente uscire almeno dal paradigma liberista. Ma non se ne esce - è la tesi, ripresa da Paolo Maddalena, giustamente sostenuta da Paolo Berdini - se non si diffonde la convinzione che "il territorio è un 'bene comune' nell'accezione di proprietà pubblica prevalente su quella privata"(5) e che dunque "non può esistere alcun diritto a edificare connaturato alla proprietà fondiaria"(6). Tanto più quando in discussione è il volto della città su cui si fonda in gran parte il senso di appartenenza di una comunità urbana,"il destino del territorio e delle città deve essere mantenuto saldamente nelle mani delle amministrazioni pubbliche"(7), non può essere delegato all'iniziativa dei proprietari privati delle aree e degli immobili e di fatto svenduto a loro esclusivo tornaconto come è successo in più di un caso.
Lo stesso Ulisse Gobbi, uno degli esponenti illustri del pensiero economico liberale, già nel 1906 aveva sostenuto che "per quanto riguarda la sistemazione del suolo della città, nessuno si arrischierà a dire che la libertà d'azione dei singoli proprietari privati conduca al miglior risultato desiderabile: i piani regolatori generali o parziali devono essere fatti dall'autorità comunale"(8).
Tutto giusto. Tuttavia, "ricostruire la città pubblica"(9), ossia riportare i destini della città nelle mani delle istituzioni pubbliche, non basta, non è una garanzia sufficiente ad assicurare ambienti civili se poi la collettività, gli architetti e gli urbanisti incaricati dei piani dall'autorità comunale, e gli amministratori comunali stessi, che più di altri dovrebbero averne la competenza, ignorano che cosa è una città, che cosa vuol dire fare città, in che cosa consiste e cosa definisce urbano uno spazio.
Per fare città, sapere come si devono ordinare e quali significati devono esprimere gli edifici è necessario quanto sapere come distribuire e dimensionare le attività.
Se facciamo tesoro degli insegnamenti che ci trasmettono i luoghi, dobbiamo riconoscere che a identificare la città è anche la particolarità del suo manufatto e che a caratterizzarlo, oltre alla sua complessità funzionale, è il disporsi dei fabbricati in una relazione che permette di far apparire gli spazi aperti pubblici come internità, vere e proprie stanze a cielo aperto (10).
Su questo terreno, non meno che su quello del diritto, la cultura del "pubblico", compresa quella degli abitanti e quella veicolata dai mass-media, presenta un grave deficit: c'è ancora molto da fare in termini di formazione e informazione.
In fatto di cultura urbana gli amministratori pubblici rivelano un diffuso analfabetismo. Per sopperire alla propria inadeguatezza e nello stesso tempo suscitare a priori il consenso, le amministrazioni, quando si tratta di progettare parti di città, ricorrono il più delle volte all'intervento dell'archistar, come se la fama dell'architetto possa di per sé garantire a priori il valore civile della proposta.
Ma la proposta si rivela quasi sempre disastrosa, arrogante, indifferente al contesto, capace, ogni volta che si associa al narcisismo megalomane e folle così diffuso nell'architettura contemporanea, di snaturare e rendere disumani, spesso inquietanti i luoghi dell'abitare. Pochi tra i rappresentanti delle istituzioni pubbliche oggi sembrano rendersene conto. Vale per loro quanto Alberto Savinio diceva nel 1940 degli architetti e degli urbanisti: "non immaginano neppure con quanta leggerezza essi si giocano la nostra felicità, quanto fasta può riuscire la loro opera, oppure nefasta alla mente, ai costumi, al destino di un popolo"(11).
Sconcerta, a questo proposito, che persino amministratori colti e dalla specchiata onestà e dirittura morale come il sindaco Pisapia non colgano la ferita nefasta alla identità discreta, ancora domestica dello spazio milanese, inferta dai mostruosi, tracotanti grattacieli sorti a porta Nuova e a City Life, che da lontano fanno apparire lo skyline della città omologato a quello di Manhattan.
In questo modo non si è resa Milano "finalmente più moderna, più internazionale" come recitano gli entusiasti sostenitori della globalizzazione utilizzando la retorica che vuole a priori positiva ogni innovazione. Le si è invece sottratto proprio ciò che nel quadro mondiale delle metropoli avrebbe potuto rappresentare la sua cifra distintiva e soprattutto il suo valore: essere una città dai tratti umani e relativamente piccola pur essendo centro di relazioni vastissime e di grande peso economico, che già nel 1924 avevano fatto dire ad Antonio Gramsci "da Milano partono le migliaia e i milioni di fili che si diramano per tutto il territorio nazionale e soggiogano il lavoro degli operai e dei contadini alle casseforti […]"(12).
Contro l'omologazione degli assetti urbani si è espresso, per altro, anche il Manifesto per una nuova urbanità elaborato dalla Camera dei poteri locali del Consiglio d'Europa. Ha stabilito infatti che non si debbano "disfare" le città ereditate dalla storia e che occorra operare perché le città continuino a permanere "differenti e diversificate sotto il profilo culturale e architettonico"(13).
Che fare dunque?
Per non disfare le città occorre come minimo riconoscere che la regola costitutiva della spazialità urbana non è la lontananza tra gli elementi che la compongono ma la prossimità, non è la separatezza ma la relazione. È il consapevole disporsi dell'edificato e delle funzioni in maniera che sia possibile dare chiara, armoniosa e vitale forma alla trama degli spazi aperti pubblici: i luoghi principali del convivere, quelli che fanno apparire la città ospitale, paragonabile, come diceva Leon Battista Alberti, a una grande casa.
Dove infatti le vere città ancora sopravvivono, le case, senza alcuna pretesa di competere in monumentalità ed espressività con gli edifici pubblici, si dispongono strette le une alle altre, quasi tutte ben composte, mai sguaiate, per molti aspetti tra loro dialoganti. Come ogni membro educato di una comunità è portato a rispettare le norme della convivenza civile e non si mette a sbraitare in pubblico, così le case di città mostrano di rispettare la regola urbana che non le vuole protagoniste ma più modestamente parti di uno sfondo: quello, comune, costituito dalle cortine edilizie: le pareti necessarie a dare forma alle strade e alle piazze, e a creare in tal modo le quinte di quella scena teatrale in cui sono gli abitanti a recitare la parte degli attori.
A tali principi la pratica urbanistica si è attenuta a lungo fino ai primi anni del Novecento, fino a quando l'urbanistica si è configurata come arte di costruire le città. Poi, complice la razionalità astratta del pensiero funzionalista maturato fra le due guerre, le regole storiche della spazialità cittadina sono state messe in soffitta (14). È prevalsa la convinzione che la città della tradizione non potesse più essere un modello
a cui guardare. Contemporaneamente, a partire soprattutto dagli anni cinquanta, si è assistito alla progressiva separazione della cultura urbanistica da quella architettonica, con l'urbanistica aperta a includere le scienze umane e l'architettura a rinchiudersi nel regno delle arti espressive. Si è così prodotto, da una parte, un'urbanistica attenta, nei migliori dei casi, all'organizzazione della civitas ma dimentica delle storiche forme dell'urbs e delle loro potenzialità di senso per l'abitare civile; dall'altra, una architettura indifferente ai bisogni della civitas, attestata su modelli antiurbani, dominata da un formalismo autoreferenziale a cui si dovrebbe concedere totale libertà d'espressione in nome dell'autonomia creativa dell'arte: un sistema diviso di pratiche e saperi totalmente inadeguato a produrre città.
Sicuramente non crea città una urbanistica pubblica disinteressata a cogliere le relazioni spaziali fra le cose e incapace di orientare in senso urbano le forme edilizie, soprattutto quando esse mostrano di averlo totalmente smarrito.
Nel disegno urbano ciò che conta non è tanto l'estetica dell'oggetto architettonico quanto l'estetica d'assieme della composizione urbanistica.
Senza una regia urbanistica pubblica che sappia cosa richiede una scena urbana e sappia riconoscere, non solo funzionalmente ma anche formalmente, qual è l'architettura necessaria ai luoghi perché lo spazio aperto pubblico risulti per tutti accogliente, la disfatta attuale dell'urbanistica pubblica temo che sia destinata a durare ancora a lungo. Forse, autocriticamente, l'urbanistica pubblica dovrebbe tornare a chiedersi se non sia il caso che il futuro debba avere, come diceva Carlo Levi, "un cuore antico".
(1) P. Berdini, Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano, Donzelli, Roma 2014, p. 30.
(2) C. Cattaneo, La città, ora in Id., Opere scelte. IV, p.165.
(3) Sulla natura e la storia della metropoli contemporanea rinvio a G. Consonni, G. Tonon, La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in Aa. Vv., Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Lombardia, a cura di D. Bigazzi e M. Meriggi, Einaudi, Torino 2001, pp. 51-187; Id., Alle origini della metropoli contemporanea, in Aa Vv, Lombardia. Il territorio, l'ambiente il paesaggio, vol IV, a cura di C. Pirovano, Electa, Milano 1984, pp. 89-164, 286-290.
(4) P. Berdini, cit., p. 25.
(5) Ivi, p. 20.
(6) Ivi, pp. 148-149.
(7) Ivi, p. 20.
(8) U. Gobbi, Riforme nella proprietà fondiaria urbana in relazione all'aumento di valore elle aree fabbricabili, Relazione al Congresso nazionale delle Società Economiche, Milano 1906, in L. Simonazzi, La proprietà immobiliare e la rendita urbana, Sasip, Milano 1942, p. 123.
(9) Tale concetto ricorre lungo tutto il libro di Berdini.
(10) Cfr. di G. Consonni, L'internità dell'esterno. Scritti su l'abitare e il costruire, Clup, Milano 1989; Dalla radura alla rete. Inutilità e necessità della città, Unicopli, Milano 2000; La difficile arte. Fare città nell'era della metropoli, Maggioli, Milano 2008.
(11) A. Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Bompiani, Milano 1944 (1943), p. 241.
(12) A. Gramsci, Il problema Milano, in "l'Unità", 21 febbraio 1924.
(13) Camera dei poteri locali del Consiglio d'Europa, Carta urbana europea II. Manifesto per una nuova urbanità. Risoluzione 269 (2008).
(14) Rinvio al mio La città necessaria, Mimesis, Milano 2013.
Quello riportato sopra è il testo dell'intervento di Graziella Tonon all'incontro con Paolo Berdini tenutosi lo scorso 18 maggio alla Casa della Cultura - nell'ambito del ciclo "Città Bene Comune" - per discutere del suo Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano (Donzelli, 2014). I grassetti sono nostri.
L'autrice è professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano dove dirige l'Archivio Piero Bottoni di cui è stata cofondatrice. Tra le sue pubblicazioni: con G. Consonni e L. Meneghetti (a cura di), Piero Bottoni. Opera completa(Fabbri, Milano 1990); (a cura di), Piero Bottoni, Una nuova antichissima bellezza. Scritti editi e inediti 1927-1973(Laterza, Roma-Bari 1995); con G. Consonni e L. Meneghetti (a cura di), Bottoni, Mucchi, Pucci: Progetto del Palazzo dell'acqua e della luce all'E42, 1939 (La vita felice, Milano 2001); con G. Consonni e L. Meneghetti (a cura di), Il monumento-luogo. Cinque opere di Piero Bottoni per la Resistenza. Progetti e realizzazioni, 1954-1963 (La vita felice, Milano 2001); con G. Consonni e L. Meneghetti (a cura di), Piero Bottoni e Milano. Case, quartieri, paesaggi, 1926-1970(La vita felice, Milano 2001); con G. Consonni, Il lapis zanzaresco di Pepin. Giuseppe Terragni prima del progetto (Ronca, Cremona 2004); con G. L. Ciagà (a cura di), Le case nella Triennale: dal Parco al QT8 (Electa-Triennale, Milano 2005); con G. Consonni, Terragni inedito (Ronca, Cremona 2006); Il paesaggio umiliato. Insostenibile bruttezza della metropoli (Ogni uomo è tutti gli uomini, Bologna 2007); con G. Consonni, Piero Bottoni (Electa, Milano 2010); La città necessaria(Mimesis, Milano-Udine 2013); Architetture per la città. Il Moderno a Milano nell'Antologia di Piero Bottoni (La vita felice, Milano 2014). Tra le sue raccolte di poesie: Irma (All'insegna del pesce d'oro, Milano 1996); Diva (Manni, Lecce 2000),Traslochi (Manni, San Cesario di Lecce 2008).
Fonte: casadellacultura.it
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