di Tommaso Di Francesco
«Avrete la verità», proclamava Al Sisi, il generale golpista presidente dell’Egitto nella pronta, imbarazzante, intervista concessa al direttore de la Repubblica. Perché quello che nessuno voleva, né la famiglia naturalmente ma, a parole, neanche il governo italiano, era una verità di comodo.
Eccola la verità, dopo quell’intervista senza domande sulla natura del lavoro di ricerca di Regeni e senza alcun riferimento al clima di repressione sistematica del regime militare egiziano. Nella notte di ieri, il ministero degli interni, guidato dal duro Nadi Abdel Ghaffar, l’eminenza grigia depositario di tanti segreti, rimasto in carica dopo il recente rimpasto di governo, ha confermato tutte le voci smentite della giornata di giovedì.
Così Il Cairo dichiara che ha individuato gli assassini di Giulio Regeni in una banda di cinque malviventi dediti a sequestri e, guarda caso, che assicura di avere trovato le prove che inchioderebbero i delinquenti, gli effetti personali con il passaporto, in casa di uno dei familiari della banda. Manco a dirlo i cinque criminali sono stati tutti uccisi – difficile che i cadaveri possano raccontare qualcosa e magari spiegare perché avrebbero dovuto sequestrare un ricercatore universitario italiano impegnato a conoscere la realtà, insidiosa per il regime, dei nuovi sindacati e perché avrebbero dovuto torturarlo a morte.
Quella che emerge è peggio di una verità di comodo. È il timbro ufficiale sulla menzogna, la nuova legittimazione finale, governativa, dei tanti, troppi depistaggi – criminalità comune, fatto personale, vicenda legata alla droga, a sfondo sessuale ecc. ecc. – avviati subito dopo l’assassinio del giovane ricercatore italiano. Ultima infamia servita su un piatto d’argento, la prima foto resa pubblica dal ministero degli interni egiziano dei cosiddetti «effetti personali», dalla quale si evidenzia – vorremmo tanto sbagliare – anche una piccola quantità di hashish. Come se non esistesse il giudizio autoptico dei medici legali italiani che ha escluso ogni uso di droga.
Ora il governo italiano, sollecitato dalla famiglia Regeni a «reagire a questa messa in scena» risponde con il ministro Gentiloni: «L’Italia insiste, vogliamo la verità» e chiede di «fare luce». Che altro bisognava fare da subito per un regime golpista sdoganato proprio da Matteo Renzi che giudica Al Sisi – che nell’intervista si autodefiniva «un padre di famiglia» – come la «figura nuova emergente del Medio Oriente»? Tuttavia, proprio grazie ai tanti accrediti di legittimità verso il generale golpista, ora regna solo il buio più fitto che altro non è che offesa alla memoria di Giulio Regeni e alla richiesta di verità che ha sollevato e solleva la famiglia.
A questo punto la Procura di Roma che segue le indagini – ma non dovevano essere congiunte? – e il governo italiano non possono limitarsi a commentare a distanza. Se era ed è contraddittorio il ritiro del nostro ambasciatore, comunque garante della ricerca della verità, ora il nostro rappresentante deve essere richiamato. È la risposta che serve. Il resto sarebbe solo complicità.
Fonte: il manifesto
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