di Sergio Bologna
Non ricordo con precisione come e quando ho conosciuto Mario Dalmaviva, ma sono certo che il periodo era la primavera del ’69 e anche sulle circostanze non ho dubbi. Insegnavo alla Facoltà di Sociologia di Trento e Mario era uno dei tanti studenti-lavoratori. Avevano una sensibilità diversa rispetto a quelli che avevano fatto le occupazioni, nel ‘67/’68. Erano più sensibili alle tematiche del lavoro e meno intrappolati nelle ideologie antiautoritarie e terzomondiste. A Trento cercavo di far lezione come se facessi scuola quadri, da assistente avevo fatto accettare l’esame di gruppo al mio maestro, vecchio allievo della Normale di Pisa, ma con le avanguardie studentesche i rapporti non erano buoni.
Cercavo, in quel periodo, di rinsaldare le fila della rete di Classe Operaia in Lombardia – c’erano già stati il maggio francese ed il CUB della Pirelli – tra gli studenti lavoratori di Trento reclutai vari compagni, tra cui i tecnici della Snam Progetti di San Donato Milanese. Ma l’ingresso di Mario nel nostro “giro” ebbe l’effetto di una bomba. Era chiaramente diverso, abituato a lavorare in autonomia pur essendo alle dipendenze (e questo tratto sarà importante in lui, come vedremo in seguito), per lui se c’erano da cambiare le cose si trattava di farlo, non di pensarci su. Volevamo accelerare il clima d’insubordinazione che si stava diffondendo nelle fabbriche? E allora forza, andiamo davanti ai cancelli a fare agitazione. Lo convinse il nostro discorso sugli aumenti uguali per tutti, se era riuscito a Marghera deve riuscire anche alla Fiat, pensava. E così senza farsi troppi problemi, senza avere un’idea chiara di organizzazione, si buttò con tutta l’irruenza della sua mole imponente ad arringare gli operai che entravano e uscivano dalla porta 2 di Mirafiori. Dopo un paio di giorni riuscì a portarsene dietro una settantina ed a fare delle riunioni in un bar vicino, quei 70 rischiavano di diventare 200. E qui ebbe la sua prima doccia fredda. Noi gli avevamo detto che avevamo una certa struttura, in fin dei conti disponevamo di un giornale, “La classe”, appena uscito il 1 maggio. Non gli demmo il supporto necessario, si trovò solo, i compagni arrivavano dalle altre situazioni con il contagocce, a Torino per fortuna c’era Alberto Magnaghi, con esperienza politica nel PCI alle spalle, e qualche altro, studente a Trento pure lui. Poi arrivò Sofri e con lui una bella fetta di movimento studentesco, si costituì alle Molinette l’assemblea operai-studenti, Mario finì in secondo piano ma l’agitazione operaia che lui aveva contribuito ad accelerare in maniera così irruenta, invece di spegnersi o di rientrare nell’alveo sindacale, divenne più estesa e mantenne saldamente una linea di autonomia. Forse ancora oggi non ci rendiamo conto quanto quei due mesi, giugno e luglio 1969, passati all’insegna di una chiara egemonia del movimento su Torino, possono aver cambiato o marcato il segno dell’autunno caldo. Siamo portati forse a ricordare i dibattiti dell’assemblea alle Molinette, con i discorsi sterili di precoce ispirazione gruppettara, invece di pensare allo stato di panico che può essersi diffuso nell’establishment politico e sindacale di fronte a questa perdurante autonomia operaia. Fu questa autonomia a far capire al sindacato che la sola possibilità di recuperare il controllo era quella di alzare il tiro, non di abbassarlo e quindi di accettare le parole d’ordine egualitarie, anche se erano contrarie alla sua tradizione. Mario non era a suo agio nelle assemblee dove dominavano le dialettiche esperte dei leader studenteschi, si trovava a suo agio nell’azione. Solo a uno come lui poteva venire in mente, negli scontri di corso Traiano, di saltare su un caterpillar posteggiato per lavori stradali e di usarlo contro la polizia.
Cercavo, in quel periodo, di rinsaldare le fila della rete di Classe Operaia in Lombardia – c’erano già stati il maggio francese ed il CUB della Pirelli – tra gli studenti lavoratori di Trento reclutai vari compagni, tra cui i tecnici della Snam Progetti di San Donato Milanese. Ma l’ingresso di Mario nel nostro “giro” ebbe l’effetto di una bomba. Era chiaramente diverso, abituato a lavorare in autonomia pur essendo alle dipendenze (e questo tratto sarà importante in lui, come vedremo in seguito), per lui se c’erano da cambiare le cose si trattava di farlo, non di pensarci su. Volevamo accelerare il clima d’insubordinazione che si stava diffondendo nelle fabbriche? E allora forza, andiamo davanti ai cancelli a fare agitazione. Lo convinse il nostro discorso sugli aumenti uguali per tutti, se era riuscito a Marghera deve riuscire anche alla Fiat, pensava. E così senza farsi troppi problemi, senza avere un’idea chiara di organizzazione, si buttò con tutta l’irruenza della sua mole imponente ad arringare gli operai che entravano e uscivano dalla porta 2 di Mirafiori. Dopo un paio di giorni riuscì a portarsene dietro una settantina ed a fare delle riunioni in un bar vicino, quei 70 rischiavano di diventare 200. E qui ebbe la sua prima doccia fredda. Noi gli avevamo detto che avevamo una certa struttura, in fin dei conti disponevamo di un giornale, “La classe”, appena uscito il 1 maggio. Non gli demmo il supporto necessario, si trovò solo, i compagni arrivavano dalle altre situazioni con il contagocce, a Torino per fortuna c’era Alberto Magnaghi, con esperienza politica nel PCI alle spalle, e qualche altro, studente a Trento pure lui. Poi arrivò Sofri e con lui una bella fetta di movimento studentesco, si costituì alle Molinette l’assemblea operai-studenti, Mario finì in secondo piano ma l’agitazione operaia che lui aveva contribuito ad accelerare in maniera così irruenta, invece di spegnersi o di rientrare nell’alveo sindacale, divenne più estesa e mantenne saldamente una linea di autonomia. Forse ancora oggi non ci rendiamo conto quanto quei due mesi, giugno e luglio 1969, passati all’insegna di una chiara egemonia del movimento su Torino, possono aver cambiato o marcato il segno dell’autunno caldo. Siamo portati forse a ricordare i dibattiti dell’assemblea alle Molinette, con i discorsi sterili di precoce ispirazione gruppettara, invece di pensare allo stato di panico che può essersi diffuso nell’establishment politico e sindacale di fronte a questa perdurante autonomia operaia. Fu questa autonomia a far capire al sindacato che la sola possibilità di recuperare il controllo era quella di alzare il tiro, non di abbassarlo e quindi di accettare le parole d’ordine egualitarie, anche se erano contrarie alla sua tradizione. Mario non era a suo agio nelle assemblee dove dominavano le dialettiche esperte dei leader studenteschi, si trovava a suo agio nell’azione. Solo a uno come lui poteva venire in mente, negli scontri di corso Traiano, di saltare su un caterpillar posteggiato per lavori stradali e di usarlo contro la polizia.
Mi sono spesso chiesto perché Mario è rimasto con noi a fondare Potere Operaio invece di aggregarsi a Sofri ed entrare in Lotta Continua. Il suo pragmatismo gli avrà fatto capire subito che quelli erano più forti (non ci voleva molto a capirlo). Qui credo che entri in gioco un altro elemento del suo carattere: la fedeltà alle amicizie. Certo, il discorso dei vecchi operaisti era molto più sofisticato ma per uno come lui che voleva vedere i risultati concreti di un agire politico, il fascino intellettuale di una teoria avrebbe dovuto avere minore importanza. I legami che hanno unito molte persone incontratesi per la prima volta nella redazione dei ‘Quaderni Rossi’ non possono spiegarsi semplicemente sulla base della comune radice ideologica. Il legame umano, l’amicizia, quel particolare tipo di amicizia e di complicità maschile, hanno svolto un ruolo di eguale importanza. Penso che, vista dall’esterno e sul lungo periodo, la dinamica dei rapporti tra di noi risulti indecifrabile. Questa dinamica deve possedere una sua logica, una sua forza, intrinseche che si trasmettono immediatamente anche ai late comers, com’era Mario nel 69 a confronto con noi che avevamo quasi un decennio di militanza già sul gobbo. Mario seguì per amicizia la strada di Alberto, la mia, aderì a Potere Operaio e condivise gioie e dolori del gruppo fino alla fine, come racconta lui stesso nell’intervista concessa a Gigi Roggero e Francesca Pozzi. Avrebbe continuato, forse, se Potere Operaio non si fosse sciolto, il demone della politica era entrato in lui e non lo avrebbe lasciato fino agli ultimi giorni.
Della sua esperienza carceraria, del modo in cui seppe trasformarla in una delle espressioni più immediate, più ironiche e più convincenti della condizione di detenuto, altri hanno scritto. Nelle sue vignette c’era la tranquilla accettazione del destino e la pacata denuncia dell’ingiustizia, trasmettevano – almeno nella mia percezione – un senso di superiorità schiacciante nei confronti della miseria meschina sia dei giudici che lo chiudevano a doppia mandata che dei politici ansiosi di buttare via le chiavi. Ma poiché altri hanno scritto egregiamente su questa parte della sua vita, vorrei provare a parlare del Mario post carcere.
Era un personaggio omerico, la sua espressione davanti a una tavola imbandita era un misto di soddisfazione e godimento ma con un tale carica di convivialità, di desiderio di condivisione, che riusciva a coinvolgere anche i più anoressici, inappetenti, gastropatici intellettuali di rivoluzioni fallite. Non ebbe difficoltà alcuna a reinserirsi nella vita civile, aveva lo spirito imprenditoriale del professionista indipendente e fu quindi uno dei primi a cogliere le prospettive negative e positive del lavoro postfordista. Quando scrissi i miei saggi sul lavoro autonomo Mario fu tra i vecchi compagni quello che ne colse meglio e più velocemente la valenza. Capì che erano cose reali, vissute, confermate dalla sua esperienza. Mi diede degli spunti per approfondire la riflessione, per arrivare ad azioni pratiche. Se mai i valori originari del movimento operaio, quei valori di solidarietà delle prime società di mutuo soccorso, che hanno trasformato lavoratori sottomessi in cittadini consapevoli, dovessero rinascere oggi, sarà più facile che sorgano nel mondo dei lavoratori intermittenti, dei freelance, degli indipendenti, nel suo mondo, che dalle ceneri del comunismo. Questo l’aveva capito, l’abbiamo capito insieme ed ha avuto, abbiamo avuto, ragione. Non era fatto per vivere sotto padrone, non era fatto per chiedere sussidi. Aveva le risorse umane e professionali per costruirsi un’esistenza da solo. Dedicò un periodo lungo all’attività editoriale convinto di poter agire in maniera innovativa sull’ambiente, sul territorio montano, che lui tanto amava, convinto di poter educare il turista al giusto consumo di montagna, interessato sempre a scovare tracce di storia politica e di lotta per la democrazia in mezzo alle valli e alle rocce. La resistenza antifascista italiana è indissolubilmente legata al paesaggio alpino, ma montagna significa anche frontiera, sconfinamento, fuga verso l’esilio, libertà, la montagna è dello spallone e del passatore. Per chiudere la sua esistenza e passare gli ultimi anni con la famiglia in mezzo agli ulivi, Mario scelse un angolo di Liguria vicino al confine francese, proprio a due passi dal paese dove visse, coltivando mimose, il poeta, il cantore dei passatori, Biamonti. Ci siamo frequentati, sentiti spesso gli ultimi anni, aveva all’inizio manifestato interesse per il movimento 5 stelle, non per la leadership ovviamente, ma per la gente che quella riusciva a mobilitare, sinceramente desiderosa di fare qualcosa di buono, di portare onestà nel ceto politico. Non si può dire che rimase deluso, alla sua età ne aveva viste tante che non poteva avere illusioni e dunque nemmeno delusioni, semplicemente preferì sfogare il suo interesse per la politica mettendosi in comunicazione con una mailing list di amici a scambiarsi testi, opinioni, pensieri.
Con Mario si stava bene insieme, sempre, da soli o circondati dai figli, ti avvicinavi a lui e avvertivi subito il calore dell’accoglienza, quasi impossibile vederlo triste o assente. Cose scritte, che io sappia, non ne ha lasciate, la sua intervista del 2001 è molto severa nei giudizi sui gruppi politici che ha frequentato ma la parte più bella di quella intervista, a me sembra, sta nel fiume di domande che pone a se stesso ed agli altri, alla fine. E pesano, perché non sono domande retoriche, né espedienti per tenersi a distanza, non era il suo stile entrare nelle cose di lato, di striscio. Quelle domande però rivelano che, malgrado i disinganni, continuava a crederci ed era questa speranza, penso, questa tensione a guidare il suo giudizio sulle cose e a disegnare il suo stile di relazioni con gli altri. Se quel maledetto 11 luglio avessi potuto vederlo per l’ultima volta, prima che i medici mi fermassero, gli avrei raccontato che quell’idea di mutualismo di cui avevamo spesso discusso, era diventata una realtà di decine di migliaia di soci da tutta Europa ed io ero reduce d’averla incontrata. Forse gli avrei strappato un ultimo complice sorriso.
Fonte: Euronomade
Originale: http://www.euronomade.info/?p=7583
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