di Eleonora Camilli
Alì spazza via le briciole dal pavimento, mentre sua moglie Zakia, al lato opposto della stanza, lava per terra. È appena passata l’ora della cena e, secondo il tabellone dei turni appeso alla porta a vetri, stasera tocca a loro rimettere a posto la sala da pranzo. Poco più in là, seduti sui divani della grande hall, alcuni uomini giocano a carte, mentre un gruppo di bambini continua a correre su e giù per le scale. Fa caldo in questa afosa serata di luglio nel centro di Atene, e alcuni ragazzi fumano l’ultima sigaretta affacciati al balcone. Sopra di loro l’insegna continua a lampeggiare: hotel City Plaza, recita la scritta di questo vecchio albergo, che oggi è la casa di oltre 400 migranti e profughi, bloccati nella capitale greca dopo la chiusura delle frontiere e l’accordo tra Unione europea e Turchia.
L’edificio di otto piani su via Acharnon è a pochi passi dal museo archeologico e da piazza Victoria, e per circa sei anni è rimasto in uno stato di totale abbandono. È stato occupato il 22 aprile da un gruppo attivisti greci di sinistra e profughi, e oggi rappresenta uno dei più grandi squat della città. Ci vivono soprattutto famiglie che arrivano dalla Siria e dall’Afghanistan, ma ci sono anche alcuni palestinesi, iraniani e iracheni.
Prima di trovare rifugio in questo ex albergo a tre stelle, molti di loro hanno stazionato per mesi nel campo informale di Idomeni. Per esempio Zakia, suo marito e i loro cinque figli. “Abbiamo aspettato tanto che riaprissero il confine per andare in Germania”, racconta la donna. “Era terribile, si stava malissimo. Dopo lo sgomberoci siamo trasferiti nella tendopoli intorno all’hotel Hara, ma dopo un po’ non ce la facevamo più neanche lì e siamo venuti via. Abbiamo dei bambini, mio marito non sta bene. È psicologicamente molto provato: pensa continuamente a quando vivevamo in Siria e avevamo tutto: una macchina, un lavoro, una casa”. Al Plaza stanno tentando di ricominciare, nella speranza che la loro domanda di ricollocamento li porti presto in un altro paese europeo dove magari Alì potrà di nuovo fare il sarto. Ma per ora del loro futuro non sanno niente.
Tra gli occupanti dell’hotel molti sono profughi che hanno chiesto di poter aderire al programma europeo e adesso stanno aspettando di sapere quale sarà la loro sorte. Ma c’è anche chi deve ancora fare domanda di asilo, chi aspetta di chiedere il ricongiungimento familiare perché ha parenti negli altri paesi dell’Unione, e anche chi sa di non avere alcuna possibilità e spera soltanto di non essere rimandato indietro. In tutto qui, chiusi in un limbo di incertezza, vivono 400 persone, tra cui 185 minori.
“Il motivo per cui ci sono così tanti bambini è che usiamo un criterio sociale nella scelta degli occupanti: diamo la priorità ai gruppi vulnerabili: famiglie con bambini, donne sole, e in qualche caso anche persone con disabilità o malattie croniche”, spiega Lina Theodorou, attivista politica e portavoce del progetto, seduta nell’area caffetteria dell’albergo.
“Questa non è una semplice occupazione o un progetto di housing sociale, ma la base per creare politiche sui diritti dei migranti in risposta a quello che non stanno facendo gli stati. In Grecia ci sono 57mila persone bloccate, costrette a vivere in campi profughi dove le condizioni sono terribili. Noi siamo contrari a questo tipo di politiche. E la pensano come noi molti migranti e profughi che hanno deciso di partecipare al progetto fin dall’inizio. Altri, invece, hanno trovato questo posto dopo aver vissuto per mesi nei campi informali intorno a Idomeni, al Pireo o in altre aree della Grecia. Qui hanno trovato il primo posto dignitoso in cui poter stare”, spiega Theodorou.
Ogni famiglia ha una sua stanza. Mesta, 38 anni, condivide la sua col fratello Salah, 25 anni, e Fatima, l’anziana madre malata. Seduta ai bordi della porta finestra, spalancata per il caldo, la donna, 70 anni, piega con cura i vestiti dei suoi due figli. “È per lei che ho deciso di andare via dalla Siria, volevo che avesse finalmente le cure di cui ha bisogno”, spiega Mesta. “Siamo curdi siriani. Dopo che siamo arrivati in Grecia siamo stati portati nel campo di Larissa. Pochi giorni più tardi mia madre è stata ricoverata in ospedale. Allora ho capito che non potevamo rimanere lì, alcuni amici mi hanno segnalato il City Plaza, e siamo venuti. Come tutti ci diamo da fare, aiutiamo in cucina e nelle pulizie”.
La condivisione dei doveri è alla base dell’occupazione. Una volta alla settimana si tiene nell’albergo un’assemblea plenaria a cui partecipano i profughi, gli attivisti e tutti coloro che vogliono dare una mano. Qui vengono prese le decisioni più importanti. La routine quotidiana, invece, è normale amministrazione con gli occupanti che si dividono in gruppi per i turni di cucina, di distribuzione del cibo e di pulizia negli spazi comuni. Al settimo piano c’è poi una piccola scuola, dove si svolgono corsi per bambini e per adulti, soprattutto di inglese. Un team legale, composto da avvocati ed esperti di diritti umani, si occupa invece di informare, assistere e istruire i migranti sulle interviste per le richieste di asilo, di ricongiungimento familiare e di ricollocamento.
Il lavoro dei volontari
A sostenere questo progetto, arrivano anche volontari e attivisti da diversi paesi europei. Mentre visitiamo gli spazi della cucina incontriamo un ragazzo italiano, che ci chiede di restare anonimo. Resterà qui due mesi, ci dice, mentre affetta le cipolle: ha sentito l’esigenza di prendere parte a questo “progetto politico, gestito insieme agli stessi migranti”, che rappresenta una risposta all’inefficienza degli stati europei nella gestione della crisi migratoria.
Accanto alla reception una bacheca riporta la lista delle necessità del giorno: dal latte ai pannolini per bambini fino ai vestiti. La maggior parte dei beni, stoccati nel magazzino sul retro, arriva da donazioni private; i medicinali, invece, vengono donati dalle cliniche sociali e dalle farmacie. C’è anche un sito per la raccolta fondi, dove si può pagare la stanza per una persona o una famiglia: lo hanno chiamato The best hotel in Europe. “Certo, perché questo è il migliore degli alberghi”, ironizza Rabee, un ragazzo siriano di 26 anni, uno dei primi rifugiati a prendere parte attiva all’idea dell’occupazione.
Oggi Rabee fa da tramite per le richieste delle famiglie: ha lavorato come interprete in Turchia e può tradurre sia dall’arabo sia dal farsi. Per questo è diventato anche una sorta di factotum: “Sono il punto di riferimento per gli anziani e i bambini. Quando sono arrivato in Grecia dalla Turchia sono stato alcuni giorni al porto di Mithilini, dove ho cominciato a dare una mano ai volontari come mediatore. La situazione era davvero terribile. Poi sono venuto ad Atene ospite di alcuni amici, che mi hanno parlato di questa idea, e ho deciso di aderire. Questa è una delle poche buone sistemazioni che i profughi possono trovare: non abbiamo tutto, ma di certo abbiamo molto più di quello che c’è nei campi messi a disposizione dal governo”.
Fonte: Internazionale
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