di Luca Aterini
Le materie prime alimentano le nostre economie e sono alla base dello sviluppo umano, del benessere di tutti. Troppo spesso tendiamo a dimenticarlo – la campagna è quello strano posto in cui le galline vanno in giro crude, è la battuta attribuita all’ottocentesco Charles Baudelaire –, ma il mondo che sperimentiamo ogni giorno, con tutte le sue comodità, è stato costruito solo grazie all’estrazione e impiego di materie prime: biomasse, combustibili fossili, minerali metalliferi e non. È un mondo però che cambia profondamente a seconda del punto di vista dal quale lo si osserva. Il rapporto Global material flows and resource productivity appena pubblicato dell’International resource panel (Irp) sotto il cappello del Programma Onu per l’ambiente (Unep) ha scelto il più sincero.
La quantità di materie prime estratte dalla Terra è passata dalle 22 miliardi di tonnellate/anno nel 1970 all’impressionante cifra di 70 miliardi di tonnellate nel 2010, e se il mondo continuerà a fornire case, trasporti, cibo, energia e acqua come fatto finora nel 2050 (quando il pianeta sarà abitato da nove miliardi di persone) dovremmo estrarre 180 miliardi di tonnellate di materiale ogni anno per soddisfare la domanda. Si tratta di un importo grande quasi tre volte quello attuale. Sarà sostenibile?
«Il ritmo allarmante al quale i materiali vengono estratti ha già ora un grave impatto sulla salute umana e sulla qualità della vita dei popoli – spiega la co-presidente dell’Irp, Alicia Bárcena Ibarra – Questo dimostra che i modi di produzione e di consumo attuali non sono sostenibili. Dobbiamo riflettere urgentemente su questo problema, prima che le risorse che alimentano le nostre economie e sollevano le persone dalla povertà siano irrimediabilmente finite. Questa complessa questione, che rappresenta una delle più grandi sfide di fronte alle quali è l’umanità, esige di ripensare la governance dell’estrazione delle risorse naturali».
Che cosa significa, in concreto? Anche l’Onu ancora non ha una risposta definitiva, ma determinanti indizi che sfatano molte delle comode verità che ci raccontiamo. A partire da quelle sulla produttività delle risorse. Secondo le analisi diffuse da istituzioni autorevolissime come Eurostat, le cose stanno migliorando (con l’Italia a primeggiare nel contesto europeo): facciamo di più con meno. È un dato positivo ma, come argomentavamo pochi giorni fa su queste pagine, rimangono molti punti oscuri. Che la lettura dell’Onu oggi purtroppo rafforza.
Utilizzando un indicatore più complesso (il Mf, material footprint) di quello comunemente utilizzato da organismi istituzionali come Eurostat (il Dmc, Domestic material consumption). In realtà “virtuose” come l’Europa il Mf indica livelli di consumo delle risorse «considerevolmente più alti» di quelli riportati col Dmc, anche di oltre il 25%. Corea del Sud, Giappone Usa, Germania, Regno Unito e proprio l’Italia sono tra i Paesi dove questa differenza è più marcata. Al contrario, in Africa – dove l’estrazione delle risorse è pesantemente condizionata dall’export – i consumi risultano del 62% più bassi.
Una dinamica che va a esacerbare realtà già evidenti. Analizzando l’impronta materiale procapite – una «buona approssimazione» per gli standard di vita materiali in un Paese – l’Onu rileva come questa ammonti a 25 tonnellate/anno per persona negli Usa, 20 in Europa, 14 in Cina, 13 in Brasile, tra le 9 e le 10 tonnellate in Asia-Pacifico, America Latina, Caraibi, e Asia occidentale e, infine, sotto le 3 tonnellate/anno procapite in Africa. Con il risultato che, in media, i «paesi ricchi consumano il doppio della media mondiale e 10 volte più materie prime di quelli poveri», i cui abitanti ci troviamo oggi in parte alle porte.
Inevitabilmente, una crescente massa di persone chiede di entrare a far parte del progresso così come è finora accaduto in Occidente. Ecco che il «disaccoppiamento tra l’utilizzo di materie prime e i relativi impatti ambientali – si legge nel rapporto – è l’imperativo della politica ambientale moderna. Una strategia che sarà determinante per garantire il futuro benessere umano con un impiego di materiali molto più basso».
Crogiolarsi nel pensiero che questo cambiamento avverrà in automatico sarebbe il nostro errore più grande. All’interno del nostro paradigma socioeconomico, «un indice di sviluppo umano molto alto è legato a un material footprint di circa 25 tonnellate/anno per persona», un valore che stava ancora «crescendo prima della Grande crisi finanziaria» che in Italia ancora non riusciamo a lasciarci alle spalle. Anche nel nostro Paese faremmo bene a ricordare che al di là delle dichiarazioni politiche neanche esiste, a livello nazionale, una strategia per l’utilizzo efficiente delle risorse. Dato il contesto dovrebbe essere in cima all’agenda politica, e invece nessuno se ne cura. Quali le conseguenze?
Non sono attualmente disponibili resoconti dettagliati che leghino lo sviluppo umano (che il report misura tramite l’Hdi,Human development index) con le dimensioni fisiche dell’economia, ma secondo l’Onu «il nostro attuale livello di conoscenza è sufficiente a suggerire che i miglioramenti in corso nella speranza di vita e nell’istruzione continueranno, ma non vi sono indizi che si sia fin ora verificato qualche fondamentale disaccoppiamento tra crescita economica e impiego di materiali. Inoltre, non vi è motivo di aspettarsi che questo emerga nel contesto di come attualmente i sistemi di produzione e consumo sono organizzati». Valutazioni che demoliscono anni di retorica, suggerendo maggiore prudenza e sottolineando urgenti necessità: il rapporto tra materie prime, sostenibilità e disuguaglianza deve tornare al centro del dibattito pubblico, ma al momento sembrano mancare del tutto l’interlocutore politico. Non resta che confidare nell’ottimismo della volontà: quando grande è la confusione sotto il cielo, direbbe qualcuno, la situazione è eccellente.
Fonte: Green Report
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