di Dimitri Deliolanes
Bisogna ammetterlo, l’Unione Europea ha proprio ragione. Se torna la pena di morte, le porte devono rimanere chiuse per la Turchia. Non è ammissibile fare sconti sui nostri valori fondativi. Erdogan, che è un «leader democraticamente eletto», chiuda pure gli organi di informazione che non gli piacciono. Cacci pure tutti i professori dissidenti. Torturi pure i militari golpisti. Insomma, faccia quello che vuole, ma non la pena di morte. Quella, se vuole, è riservata ai kurdi. L’islamista democraticamente eletto li può bombardare, radere al suolo le loro città, ma senza sentenze nei tribunali.
L’ipocrisia dell’Occidente verso la Turchia non è nuova. Come non sono nuove le disavventure di Ankara sulla strada impervia della modernizzazione. Molti a Bruxelles cadranno dalle nuvole, ma non è stato Erdogan a trasformare la Turchia in un centro di destabilizzazione regionale. La verità è che lo è sempre stata, fin dalla fondazione della Repubblica, basata sulla pulizia etnica delle minoranze non assimilabili.
Vogliamo parlare della furba neutralità di Ankara durante la seconda guerra mondiale? Del ricattato sugli Alleati per annettersi la provincia siriana di Alessandretta, ora turchizzata in “Hatay”? Ma sono storie vecchie.
Vediamo quindi il «positivo apporto» di Ankara nelle guerre di secessione jugoslave. Il suo costante sostegno verso gli islamisti, dalla Bosnia (a fianco dei reduci dell’Afghanistan), al Kosovo, alla Macedonia di Skopje. All’epoca, gli analisti americani, con il senso della storia di un bambino di 6 anni, si erano convinti che il controllo turco sulle comunità musulmane dei Balcani era «garanzia di stabilità». Ora hanno almeno il buon gusto di tacere.
C’è qualcuno in Europa che si sia occupato seriamente delle provocazioni turche nell’Egeo? Venerdì scorso, mentre i carri armati invadevano Istanbul e Ankara, gli F16 con la mezzaluna volavano allegramente sopra le isole greche. Lo fanno ogni giorno, più volte al giorno: hanno elaborato una teoria balorda, secondo la quale le isole dell’Egeo sono «zone grigie», senza sovranità, né spazio aereo, né nulla. In balia del secondo più forte esercito della Nato.
Vogliamo poi parlare della povera isola di Cipro, membro dell’Onu e della Ue, che proprio ieri ha commemorato il 42simo anniversario dell’invasione turca? La versione dei media italiani è molto semplice: greci e turchi litigano, lo fanno fin dai tempi di Bisanzio. Si oscura che nella «rissa» ha un ruolo da protagonista un potente paese Nato, le cui armate sono presenti nel nord dell’isola in proporzione 3 (civili) a 1 (militare), la più alta al mondo.
L’ex premier Davudoglu, celebrato «filoeuropeo», aveva teorizzato l’espansione territoriale della Turchia, nel sogno di assurgere a «potenza globale». Il suo libro del 2002 «Profondità Strategica» non è tradotto in italiano, ma nei Balcani è un best seller.
Non è colpa di Erdogan, come non era colpa dei militari kemalisti che comandavano prima. È che qualsiasi cosa faccia la Turchia, va in automatico il coro: ecco i dotti commentatori occidentali, ecco i falchi della Nato che sognano di stringere Putin nell’angolo, ecco l’entusiasta Emma Bonino, ecco i fan degli investitori finanziari italiani e di altri forti investitori in Turchia, ecco i trafficanti di armi.
Il mantra è sempre lo stesso: la Turchia è un partner «indispensabile», «insostituibile», «necessario». Ieri lo era per contenere i sovietici, oggi forse per bombardare l’Isis, ma fino a ieri lo sosteneva, e sicuramente preferisce bombardare i kurdi. Forse è indispensabile per la base di Incirlik, oppure per tenersi i due milioni di profughi che un’Europa disastrata non riesce a distribuire tra i paesi membri.
Il sospetto, molto forte in Europa, è che a Washington qualcuno nel 1952 abbia messo alla voce Turchia lo schema «indispensabile Nato» e da allora non si riesce a uscirne. I turchi lo sanno e quindi ricattano, impongono fatti compiuti, minacciano, negoziano, talvolta invadono.
Se l’Unione Europea vuole, almeno una volta, avere un sussulto di dignità, deve lasciar perdere le sole chiacchiere sulla pena di morte. Deve dire chiaro e tondo al Fratello Musulmano di Ankara che il suo comportamento ha molto di ottomano e nulla di democratico. Lacerare il velo ipocrita della famigerata «democrazia islamica» (altra invenzione Usa) per mettere le basi per un nuovo tipo di rapporto: noi siamo, malgrado tutto, quelli dei valori fondativi, voi siete un regime autoritario islamista destabilizzante. Siamo condannati a convivere. Ma sapendo bene chi è chi.
Fonte: il manifesto
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