di Domenico Moro e Fabio Nobile
Il risultato referendario favorevole all’uscita del Regno Unito dalla Ue, la cosiddetta Brexit, è stato giudicato universalmente come un fatto di notevole importanza. Tuttavia, non c’è unanime accordo né sulle ragioni né sulle implicazioni politiche generali di tale evento. La nostra interpretazione è che la Brexit ha a che fare non solamente con la Ue, ma anche e soprattutto con la Uem, l’unione monetaria europea, essendo una conseguenza della divaricazione dei contrasti tra paesi euro e paesi non euro. L’allargamento di questa contraddizione è dovuta all’accelerazione del processo di integrazione europea, che si fonda sul suo nocciolo centrale costituito dai 19 Paesi dell’euro.
In effetti, Brexit appare essere il risultato non di una sola causa, ma di molteplici e diversi fattori intrecciati. Quindi, è necessario individuarli, definendone il peso e l’importanza relativa. In primo luogo, è necessario capire quali classi e settori di classe hanno sostenuto Brexit e quali si sono opposti. Contro Brexit era la City di Londra, cioè una delle due maggiori piazze finanziarie mondiali, insieme a New York, che rappresenta il 12% del Pil britannico. Secondo un sondaggio, tra le imprese appartenenti a CBI, la confindustria britannica, l’80% era contrario all’uscita dalla Ue, il 15% incerto e solamente il 5% favorevole. Nella Federation of small business, associazione di lavoratori autonomi e Pmi attive soprattutto sul mercato domestico, la situazione appariva più equilibrata, il 47% era per rimanere, il 41% per lasciare e l’11% incerto. Insomma, ad essere contrario alla Brexit era soprattutto il grande capitale internazionalizzato, cioè la City, le grandi banche e le imprese più grandi e multinazionali. Viceversa, come si è visto dopo il voto, favorevoli alla Brexit erano, oltre a diversi settori di piccola borghesia, soprattutto i settori più difficoltà delle classi subalterne e del lavoro salariato delle aree più povere dell’Inghilterra, quelle dove le trasformazioni economiche degli ultimi decenni hanno colpito più duramente.
A questo punto, visto che la classe economicamente dominante della società britannica era contraria alla Brexit e visto che i conservatori dovrebbero pur sempre essere espressione politica di tale settore, bisognerebbe chiedersi perché Cameron, nel corso della campagna elettorale del 2013, promise il referendum sull’uscita dalla Ue. Per capire le ragioni di questa apparente contraddizione, dobbiamo guardare al contesto in cui è maturata quella scelta, a partire dalla natura della struttura economica del Regno Unito. Il Regno Unito è un tipico esempio di società capitalistica nella fase più avanzata, che un tempo si sarebbe detto imperialista. Tale caratteristica si è accentuata negli ultimi decenni, a partire dall’avvento della Thatcher e durante la globalizzazione, quando si è realizzata una forte deindustrializzazione combinata con estese privatizzazioni e delocalizzazioni. Le imprese britanniche esportano molto più capitale, sotto forma di investimenti diretti all’estero, che merci. Gli investimenti destinati all’estero sono passati dal 22,5% del Pil nel 1990 al 74,4% del Pil nel 2013. Oggi, quella che un tempo era la fabbrica del mondo ha una produzione manifatturiera ben al di sotto non solo di quella della Germania, ma anche di quella dell’Italia e persino di quella della Francia, che pure ha subito un processo di deindustrializzazione molto forte. Di conseguenza, il Regno Unito ha un costante deficit nell’interscambio con l’estero che per dimensioni relative è il maggiore tra i Paesi avanzati. Negli ultimi quattro anni la situazione è addirittura peggiorata: il passivo della bilancia dei conti correnti (scambio di beni e servizi) con l’estero è passato da -31,6 miliardi nel 2011 a -132,6 miliardi nel 2015. Il passivo dei conti correnti dipende in gran parte dal deficit nell’interscambio di beni, che in proporzione è persino superiore a quello degli Usa. Nel 2014 il deficit commerciale ha raggiunto i 185 miliardi, pari al 6,3% del Pil, mentre quello degli Usa era pari al 4,5% rispetto al Pil. Gran parte del deficit britannico è nei confronti della Germania, per la quale il Regno Unito rappresenta il secondo maggiore surplus commerciale, 51 miliardi, di soli quattro miliardi inferiore a quello nei confronti degli Usa, sebbene questi abbiano una economia di quasi sei volte più grande del Regno Unito.
Di fatto, il Regno Unito si è trasformato da Paese prevalentemente industriale in Paese prevalentemente finanziario, reggendosi soprattutto sugli enormi flussi di capitale in entrata verso la piazza finanziaria di Londra e sui servizi che questa è in grado di svolgere. Il ruolo di Londra si basa, però, su un delicato equilibrio, fondato sul fatto di essere interna alla maggiore area economica mondiale, la Ue, facendo parte nello stesso tempo di uno stato che mantiene la propria sovranità monetaria. Non a caso il Regno Unito ha sempre rifiutato di entrare nell’euro. Londra, quindi, è una piazza finanziaria che attrae banche e investitori da tutto il mondo perché è inserita nell’Europa ma nello stesso tempo è in grado di svolgere il suo ruolo in modo autonomo coerentemente con le necessità dei mercati finanziari.
Il punto è che questo delicato equilibrio è stato messo in discussione negli ultimi anni a causa dell’accelerazione del processo di integrazione europea, in particolare dalla realizzazione dell’unione bancaria e dalla prossima realizzazione del mercato finanziario unico europeo, passaggi necessari e conseguenti all’integrazione monetaria. Nella prossima definizione di nuove regole bancarie e finanziarie, Londra si sarebbe trovata in netta minoranza, all’interno della Ue, rispetto al nocciolo duro costituito dai Paesi dell’euro e in particolare rispetto alla Germania. E si sarebbe trovata in minoranza riguardo alle decisioni relative a un settore, come abbiamo visto, decisivo per l’economia e il ruolo internazionale del Regno Unito. Quindi, la mossa del referendum doveva servire a esercitare delle pressioni sulla Ue in vista della negoziazione di un accordo tra Regno Unito e Ue. L’obiettivo centrale del governo Cameron era salvaguardare gli interessi del Regno Unito in quanto Paese non aderente all’eurozona e deciso a mantenere la sterlina. L’accordo raggiunto il 18-19 febbraio scorso tra il governo britannico e quelli degli altri Paesi della Ue ha offerto maggiori possibilità al Regno Unito e alla City di difendersi nel caso i Paesi della Ue adottino misure, sul piano bancario e finanziario, contrastanti con i suoi interessi. Inoltre, la Ue ha riconosciuto al Regno Unito uno status speciale che lo esime dall’applicazione di una “unione sempre più stretta” come previsto dai Trattati europei, garantendo una maggiore sovranità. Infine, l’accordo ha permesso alcune restrizioni all’accesso da parte di lavoratori migranti di altri stati Ue alle prestazioni dello stato sociale, venendo incontro alle politiche di taglio alla spesa sociale del governo britannico che sono coerenti con le scelte europee generali di austerity.
Dunque, grazie agli accordi di febbraio, l’obiettivo di Cameron e del grande capitale britannico è stato in gran parte raggiunto, anche se alcuni dubbi rimanevano sulla applicabilità di alcune decisioni. Tuttavia, il referendum, anche se aveva contribuito a consentire di stipulare un accordo favorevole alla City, rimaneva in campo. Probabilmente, l’idea di Cameron era che, sulla spinta dell’accordo raggiunto, si avesse buon giuoco a ottenere il respingimento della Brexit. Come abbiamo visto ciò non è accaduto e il referendum ha avuto un effetto boomerang. Gli accordi con la Ue sono ora invalidati e la City e il grande capitale britannico si trovano in una situazione di difficoltà. Che nessuno, fra i conservatori, volesse veramente rompere con la Ue e si aspettasse questo risultato è dimostrato da quanto è accaduto successivamente all’esito del referendum, quando si è assistito alla confusione tra le file dei conservatori. L’incarico di primo ministro è stato dato a Theresa May, che si era dichiarata contro Brexit, mentre Boris Johnson è stato fatto fuori dalla corsa alla premiership salvo essere recuperato successivamente come ministro degli esteri. Del resto, prima del voto, lo stesso Boris Jhonson aveva evocato la possibilità, in caso di vittoria di Brexit, di riaprire il negoziato in vista di maggiori concessioni di quelle ottenute da Cameron. Inoltre, né Cameron, né il Parlamento né nessun altro ha provveduto a dare seguito alle pratiche per l’uscita, e si sta prendendo tempo. Già si parla di un periodo di diversi anni per l’attuazione della separazione, durante il quale forse si spera di mettere la classica pezza all’errore commesso, magari rifacendo il referendum o comunque realizzando accordi favorevoli con la Ue.
La questione più importante, però, è capire perché, sebbene di misura, Brexit abbia vinto. Le ragioni principali sono due. La prima è riferibile al processo di trasformazione economica di lunga durata, descritto sopra, che ha spostato il baricentro economico dell’Inghilterra dalle aree di antica industrializzazione nel Nord verso le aree maggiormente integrate a livello internazionale, Londra e il Sud. Non a caso il Sud e soprattutto Londra hanno votato contro Brexit, mentre il resto dell’Inghilterra ha votato a favore. La seconda è riferibile alle politiche di austerity adottate negli ultimi anni dal governo britannico. Questo, dopo lo scoppio della crisi dei mutui e coerentemente con l’indirizzo dominante a livello europeo ha adottato politiche di forte taglio della spesa sociale, allo scopo di raddrizzare i conti pubblici. L’indebitamento netto primario del Regno Unito è passato dall’8,8% sul Pil nel 2009 al 2,1% nel 2015, mentre la spesa statale al netto degli interessi è calata dal 47,7% sul Pil al 40,9%. Questi tagli, che sono molto più pesanti di quelli realizzati in altri Paesi come Francia e Italia, hanno aggravato la situazione nelle aree e tra i settori sociali colpiti dalla globalizzazione, pesando molto di più del tanto sbandierato aumento dell’immigrazione.
Riassumendo, il referendum sull’uscita dalla Ue nasce come ricatto del grande capitale britannico contro l’Europa per ottenere condizioni a propria tutela. Successivamente, sfuggendo al controllo del grande capitale e dei suoi rappresentanti politici, si è trasformato in espressione della contestazione delle classi subalterne inglesi nei confronti sia della riorganizzazione capitalistica sia delle politiche neoliberiste europee. È in questo quadro che Brexit è diventata anche una condanna politica per la lunga stagione di governo di Cameron. Si può accusare Cameron e Johnson di superficialità e incapacità, dal punto di vista della difesa degli interessi cui sono organici. Ma in realtà, al di là dei giudizi di valore su questo o quel personaggio politico, la situazione attuale è il prodotto delle contraddizioni create dalla crisi del capitalismo e dal processo di riorganizzazione dell’accumulazione indirizzato a risolvere la crisi stessa scaricandolo sul lavoro salariato. Dal momento che il processo di riorganizzazione si fonda da una parte sulla globalizzazione economica e dall’altra sui processi politico-istituzionali di integrazione europea, la Brexit rappresenta un indicatore importante di crisi della globalizzazione e dell’Europa neoliberista. E soprattutto è l’ennesima dimostrazione di come l’euro sia fonte di squilibri e contraddizioni sempre più gravi all’interno dell’Europa, non solo in quella parte d’Europa che ha adottato la moneta unica ma anche nelle aree che non l’hanno fatto.
In questo quadro e con la sfida attestata a quest’altezza i comunisti ed una sinistra che si voglia porre in termini di cambiamento radicale in Italia ed in Europa non possono considerare ininfluente o accessoria la posizione sull’integrazione europea e la moneta unica. Se è vero che la globalizzazione è entrata in crisi e le contraddizioni si manifestano sempre di più anche tra le classi dominanti all’interno dei singoli Paesi e tra i vari Paesi, i lavoratori non possono essere lasciati in balia di queste contraddizioni come pedina da manovrare, ma devono essere messi nelle condizioni di operare quali attori della trasformazione della realtà per quella che è, e non quella che si vorrebbe che fosse.
La ripresa dell’influenza dei nazionalismi su vasti settori popolari è frutto anche delle divergenze economiche materiali e dall’assoluta assenza di sovranità democratica su aspetti decisivi della vita dei singoli Paesi che l’integrazione europea ha determinato. Eludere a sinistra la necessità di riconquistare sul piano nazionale sovranità democratica e popolare contro il regime dell’euro rischia di lasciare alla destra ed ai settori di capitale meno internazionalizzati l’egemonia della protesta contro le élìte capitalistiche, lasciando solo in quel campo la tesi e l’antitesi delle principali contraddizioni.
Non basta, quindi, evocare la necessità di un livello di lotta europea ed internazionale per metterla in atto, è necessario rispondere alla domanda su come sia possibile dispiegare una lotta unitaria dei lavoratori e dei settori popolari in Europa con la diversità di condizioni che essi vivono aldilà di ovvi tratti comuni.
Senza individuare negli squilibri e nell’aumento delle divergenze tra Paesi la base materiale su cui impostare una risposta all’altezza non si potrà che continuare a restare impotenti di fronte ai processi economici, politici e sociali che tali squilibri provocano. Non è invocando più Europa, più trasparenza delle istituzioni europee, che si contrasta il nazionalismo. Al contrario, è proprio indicando una via concretamente di rottura con l’ordine che crea tali squilibri che si può piegare il nazionalismo e riportare la battaglia a livello dei singoli Paesi dentro un concetto d’internazionalismo efficace. Il dibattito che la Brexit ha sviluppato a sinistra, da questo punto di vista, palesa la difficoltà a superare la logica molto astratta di “europeisti” contro “anti europei” senza entrare con la lente della lettura di classe nella profondità delle contraddizioni dell’attuale fase del Capitale.
Ora tale dibattito sta comunque attraversando i comunisti e la sinistra in Europa. Le stesse posizioni delle singole forze politiche che compongono la sinistra europea stanno evolvendo o quantomeno aggiornandosi sulla base di quanto sta avvenendo nel vecchio continente. Da Izquierda Unida, al PCP, passando per Melanchon, Lafontaine e lo stesso Fassina in Italia, si sta affrontando la questione Europea su posizioni più definite. Dunque, anche il campo dei comunisti e della sinistra in Italia o si definisce attorno ad alcuni elementi chiave su cui ricostruire identità e profilo politico o non può trovare spazio per candidarsi ad essere nuovamente il campo con cui ed attraverso cui le classi subalterne ricostruiscono una loro identità politica. Non si possono agitare parole d’ordine sul terreno redistributivo e sociale senza indicare il nemico, la piattaforma programmatica ed i nodi di rottura che ne possono permettere la realizzazione. Non si può, inoltre, agitare la necessità di ingenti investimenti pubblici produttivi, la fine dell’indipendenza delle banche centrali, il rilancio di un welfare universale adeguato alle popolazioni del XXI secolo senza porsi la questione della rottura della gabbia costruita della élite europee ed atlantiche. In assenza di una chiara determinazione in tal senso le proposte anti-austerity verrebbero, e vengono in effetti, percepite come aspirazioni irrealizzabili. La vittoria di Brexit, in questo senso, se ci può lasciare in consegna qualcosa è che i tabù non esistono più e che la crisi economica apre ed aprirà continuamente crisi di egemonia delle classi dominanti, come dimostra anche la sequela di eventi drammatici e tragici da Nizza ad Istanbul. Sapere cogliere le radici di tali contraddizioni può aprire spazi ad una prospettiva di cambiamento. Su questo, però, il ruolo della soggettività politica, cioè del partito, è determinante ed insostituibile.
Fonte: controlacrisi.org
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