di Emanuela Patti
"Quello del 24 giugno è stato un risveglio alla Good Bye, Lenin! Aprire gli occhi in quella che ormai da anni molti di noi hanno eletto come «casa» e non riconoscere più il luogo, la gente, certi valori culturali condivisi con gli altri tutti i giorni, da anni, e che fanno ormai parte del nostro DNA. Per giorni la sensazione è stata quella di essere al funerale di uno dei tuoi migliori amici, morto suicida — in questi termini ne ha anche parlato l’ambasciatore Terracciano a Londra.
Stesso mal di testa e senso di confusione, stessa voglia di piangere improvvisamente sulla metro, sveglia improvvisa alle 4.30 per diversi giorni, più o meno l’ora in cui era stato comunicato l’esito del referendum quel venerdì, per scorrere le notizie di Twitter e trovare poi altri amici e colleghi ugualmente svegli e che stavano facendo lo stesso: leggere articoli su articoli per cercare di dare un senso all’incomprensibile delirio politico che stava accadendo e che pareva estraneo a quell’«ordine delle cose» con cui eravamo abituati a vivere in questo Paese."
Stesso mal di testa e senso di confusione, stessa voglia di piangere improvvisamente sulla metro, sveglia improvvisa alle 4.30 per diversi giorni, più o meno l’ora in cui era stato comunicato l’esito del referendum quel venerdì, per scorrere le notizie di Twitter e trovare poi altri amici e colleghi ugualmente svegli e che stavano facendo lo stesso: leggere articoli su articoli per cercare di dare un senso all’incomprensibile delirio politico che stava accadendo e che pareva estraneo a quell’«ordine delle cose» con cui eravamo abituati a vivere in questo Paese."
Questi sono gli appunti che presi in quello stato confusionale dei primi giorni che ha seguito l’esito del referendum del 23 giugno. Riflettono in buona parte uno stato psicologico condiviso da molti nelle prime settimane, come conferma anche la testimonianza di Ian McEwan pubblicata sul Guardian del 9 luglio: uno sgomento generale provocato dal fatto che un certo ordine delle cose fosse stato completamente stravolto nel giro di una nottata da un plebiscito di dubbio proposito e riconoscimento legale, tramato dai Tories per risolvere scissioni interne e propagandato attraverso lo Ukip di Farage con una serie di menzogne populiste. Fuggiti dalla scena quasi tutti i principali responsabili del «pasticciaccio», la realtà con cui ci tocca fare i conti oggi è quella della rigida Theresa May e della sua controparte farsesca, Boris Johnson, anticipazione di una probabile nuova ondata di thatcherismo.
In Good Bye, Lenin!, film del 2003 diretto da Wolfang Becker, Christiane si risveglia dopo otto mesi di coma durante i quali erano stati spazzati via, con il Muro, quarant’anni di socialismo. Per attenuare il suo trauma, il figlio Alex preserva per lei uno stato di normalità DDR. A noi non è stato concesso lo stesso edulcorato trattamento della signora tedesca. È bastata una sola notte, quella del 23 giugno, per metterci di fronte alla fine di quarant’anni di storia europea del Regno Unito. In un sistema culturale, politico ed economico basato da decenni sull’interdipendenza, non si può davvero parlare di innalzamento di un nuovo Muro ma piuttosto di un mattone portante sfilato via da una parete costruita insieme. Il risultato è una «frantumazione multipla» (G.B. Zorzoli), prima tenuta salda da quella doppia, per quanto fragile, unione tra le parti (il Regno Unito dentro l’Europa Unita), a sua volta ben mascherata da quella proiezione virtuale che chiamiamo «globalizzazione».
Trattandosi di un ordine delle cose plurale, fatto di interconnessioni complesse, un po’ come in Teorema di Pier Paolo Pasolini per ciascuno di noi l’arrivo dell’Ospite inatteso ha significato la fine di una qualche illusione di realtà, con cui da anni si era stretto un «patto narrativo». A quasi un mese dal referendum, quello che resta al netto delle prime emozioni è la consapevolezza che Brexit ha fatto esplodere tutta una serie di bolle e contraddizioni di cui è fatta una società neo-liberale, pseudo-globalizzata e super-diversificata come quella britannica.
Inutile andare a cercare una sola Ragione dominante che ha causato una rottura tanto brusca: la rivolta delle working class abbandonate dai Laburisti, il voto dei vecchi a scapito dei giovani che non vanno a votare, la vendetta delle province escluse dalla globalizzazione, il grande divario che separa le élites delle migliori università del mondo e il resto della popolazione locale che in qualche modo riflette un sistema educativo fortemente classista et cetera, et cetera. Il comune denominatore, nonché il cuore dei problemi qui elencati, resta a tutti i livelli — sociale, culturale, economico, politico — la difficile e faticosa integrazione di parti diverse non comunicanti in una società di matrice neo-liberale. Questo è il dark side della globalizzazione. Laddove Brexit ne rappresenta il crollo «simbolico», i fatti di Nizza del 14 luglio ne mostrano la tragica realizzazione «materiale». Non riesco a concepire altra giustificazione al forte dolore fisico provato per entrambi gli eventi, se non pensando che, in un caso e nell’altro, il suicida che ha causato la sofferenza di tante persone rappresenta una «mancata integrazione».
Per chi come nel nostro caso, lavoratori europei nel Regno Unito, l’integrazione l’ha costruita, giorno per giorno e faticosamente, come fatto reale, trasformandola, al tempo stesso, in un valore di vita privata, professionale, politica con cui si misura tutti i giorni nelle propria attività di ricerca e programmi di insegnamento, Brexit appare, a tutti gli effetti, come un «tradimento storico» (Pierpaolo Antonello). A volerlo ricostruire, questo percorso d’integrazione che ha portato a identità culturali ibride, bisognerebbe risalire alle nostre prime esperienze itineranti per l’Europa e per il mondo, iniziate con l’adolescenza, che ci hanno accompagnati fino all’età adulta con borse di studio Erasmus (ma anche del comune), programmi di scambio, master e dottorati internazionali. Il mio è iniziato con tre settimane a Londra a quindici anni, tre mesi presso una famiglia ed una scuola a Vienna a sedici, una settimana di scambio con una ragazza di Siviglia e tre settimane a Parigi nell’estate dei diciasette, un lungo Erasmus ad Amburgo a ventidue, e poi l’arrivo nel Regno Unito a ventitré, subito dopo la laurea dove ho intrapreso i miei studi di master e dottorato. Nei periodi che ho passato in Italia negli ultimi ventanni, mi sono occupata di insegnamento dell’italiano agli stranieri, prima come volontaria presso una comunità di Padri Camilliani a Torino che ospitava minorenni albanesi senza famiglia, poi al Centro Linguistico d’Ateneo dell’Università di Cagliari. Per molti di noi, forse ci dimentichiamo, essere cittadini europei (e più estesamente del mondo), ha significato sopratutto questo: non tanto un’idea astratta di «unione» tra gli Stati, basata su equilibri economici gestiti da élites, ma una pratica quotidiana di integrazione culturale costruita negli anni con colleghi, amici, partner. Una pratica su cui basiamo i nostri programmi di insegnamento all’università nei dipartimenti di Modern Languages e Comparative Studies per cui lavoriamo, la nostra convivenza civile e sociale, la vita familiare, in molti casi.
Chi è approdato in città come Londra, Oxford, Cambridge, Cardiff, Birmingham, Edinburgo eleggendole sia come «casa» che come «luogo di lavoro» (e non solo «luogo di lavoro») ha portato in questo Paese non solo delle specializzazioni professionali, ma anche e soprattutto una lunga e preziosa esperienza di integrazione culturale itinerante di cui si è preso responsabilità. Non per tutti è stato così e conosco molti colleghi ed amici che mai si sono sentiti veramente «a casa» nel Regno Unito – in parecchi casi, questo è anche dovuto al fatto che l’esperienza formativa si è giocata solo su due Paesi e quello di origine è rimasto, molto chiaramente, il luogo degli affetti e delle radici culturali. Ma per tanti altri, come nel mio caso, per cui le radici erano già un fatto problematico per una storia di immigrazione o per composizione familiare mista, e che hanno vissuto, studiato e lavorato in più Paesi, questo è stato il «progetto Europa»: parte di un’idea di globalizzazione con cui abbiamo riscoperto alcuni dei migliori valori etici ereditati delle vecchie ideologie in un momento storico in cui, dopo il crollo simbolico e materiale dei Muri, la società si stava trasformando sul piano tecnologico, sociale, economico e politico in unagrande Rete di interconnessioni.
Inclusività, diversità, multiculturalismo, pari opportunità di genere, razza e credo religioso sono sembrati i principi migliori per ripensare una società di convivenza pacifica, rispetto delle differenze, condivisione delle idee, libero movimento di persone – qualcuno ha recentemente scritto che abbiamo sbagliato a non riconoscere la globalizzazione come un valore di Sinistra (Anna Momigliano) e penso che il riferimento fosse a questo tipo di globalizzazione. La mia Londra è quella in cui esperienze di integrazione conquistate con fatica e sofferenza, e che per molti di noi sono diventate oggetto dei nostri libri e pratiche professionali, si incontrano e convivono serenamente: Irma Brenman Pick, ex presidentessa della British Psychoanalytical Society (nonché madre del mio vicino di casa Daniel Pick, storico che a sua volta ha dedicato molti suoi studi al nazismo), arrivata nella Londra razzista negli anni Cinquanta dallo Stato Libero dell’Orange di matrice fascista, racconta in questo video una storia molto simile a quella dei miei genitori arrivati dal sud d’Italia nella Torino razzista degli stessi anni in cui venivano affissi cartelli come «non si affitta ai meridionali». Oggi la mia Londra ha la faccia di Sadiq Kahn.
Così come per molti di noi, ormai identità ibride, è impensabile tornare a distinguere tra le parti che ci compongono, la soluzione a una difficile globalizzazione non potrà essere il tentare di separare parti che ormai sono interdipendenti. Lunga è la strada che porta all’integrazione, e sicuramente dovranno esserne ripensate le modalità, ma è la strada che più ragionevolmente potrà consentirci di superare i pericolosi effetti di un inevitabile sradicamento, che caratterizza la vita di molti, con una controproposta sociale e culturale di segno positivo.
Brexit è stato per me un wake-up call fortemente liberatorio. Se è stato duro accettare che dietro quello che vedevo utopicamente come un unicumchiamato multiculturalismo – e che mi rendeva uguale alle persone con cui condivido quotidianamente la mia vita sociale e professionale, dal mio centro sportivo al mio dipartimento – in realtà si celano non solo storie, mastatus politici diversi, e spesso risentimenti (molti colleghi asiatici di un mio amico che lavora da Morgan Stanley, a Canary Wharf, hanno votato «Leave» per rivendicare proprio una differenza di questo tipo, nei confronti di colleghi europei più facilitati nell’integrazione professionale), oggi, a un mese dal referendum, il percorso che lega il mio passato e presente verso il futuro mi sembra più chiaro che mai.
Fonte: Alfabeta2.it
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