di Adam Quadmon
L’azzardo di massa, in Italia, muove volumi d’affari che hanno pochi paragoni. Si parla di un flusso annuo, “legale”, di circa 88miliardi di euro. Sono invece 9 i miliardi che lo Stato italiano incassa da un sistema che è un misto di monopolio e outsourcing. A gestire il tutto, in apparenza per conto dello Stato, ma ben più realisticamente “for private business”, sono infatti alcuni agglomerati finanziari con sedi legali in paradisi fiscali o defiscalizzati (Londra, Malta), licenze prese in enclave (Gibilterra) e i loro terminali aggressivi sul territorio italiano. Un flusso che investe vite, soggettività, territori.
La metà di questi 88 miliardi – in consonanza con quanto avviene su scala globale – è generata da macchine, in particolare slot machine collocate in ogni luogo di aggregazione o di incontro. Sono infatti più di 420mila le “macchinette” che hanno colonizzato il territorio italiano, un numero senza pari nel mondo. Da anni si espandono incontrastate, nel silenzio delle scienze sociali, in ogni luogo di prossimità o di incontro, ramificandosi nelle abitudini di uso e consumo di milioni di italiani. Ciò che ha preso forma è così una tipologia nuova di azzardo, una conformazione sistemica che i ricercatori sociali più avvenuti e liberi hanno cominciato a chiamare predatory gambling. Gilles Deleuze insegnava che quando le vecchie armi sono inefficaci, bisogna costruirne di nuove. Forse non tutti i 40 autori convocati per redigere le oltre 50 voci che compongono Ludocrazia: Un lessico dell’azzardo di massa (a cura di Marco Dotti, Marcello Esposito, (ObarraO, Milano 2016, pagine 330, euro 16) concorderanno in pieno con Deleuze, ma di certo ne hanno messo in pratica il dettame. E hanno fornito al lettore, specialista o no questo non conta, un libro plurale negli sguardi, negli approcci e nelle discipline che qui si intrecciano e si incrociano per definire, in particolare, l’oggetto davvero sfuggente del quale ” si” parla.
La metà di questi 88 miliardi – in consonanza con quanto avviene su scala globale – è generata da macchine, in particolare slot machine collocate in ogni luogo di aggregazione o di incontro. Sono infatti più di 420mila le “macchinette” che hanno colonizzato il territorio italiano, un numero senza pari nel mondo. Da anni si espandono incontrastate, nel silenzio delle scienze sociali, in ogni luogo di prossimità o di incontro, ramificandosi nelle abitudini di uso e consumo di milioni di italiani. Ciò che ha preso forma è così una tipologia nuova di azzardo, una conformazione sistemica che i ricercatori sociali più avvenuti e liberi hanno cominciato a chiamare predatory gambling. Gilles Deleuze insegnava che quando le vecchie armi sono inefficaci, bisogna costruirne di nuove. Forse non tutti i 40 autori convocati per redigere le oltre 50 voci che compongono Ludocrazia: Un lessico dell’azzardo di massa (a cura di Marco Dotti, Marcello Esposito, (ObarraO, Milano 2016, pagine 330, euro 16) concorderanno in pieno con Deleuze, ma di certo ne hanno messo in pratica il dettame. E hanno fornito al lettore, specialista o no questo non conta, un libro plurale negli sguardi, negli approcci e nelle discipline che qui si intrecciano e si incrociano per definire, in particolare, l’oggetto davvero sfuggente del quale ” si” parla.
L’azzardo, oggi, ha ben poco a che vedere con vecchi paradigmi romantici. Il salto è avvenuto e poco o nulla ci possono insegnare lo stigma immunizzante del “grande giocatore” o l’idealtipo del gambler aristocratico o post-romantico su cui ancora si orienta l’immaginario di opinion e decision makers. A ben altro campo–abitato e agitato da ben altre forze – dobbiamo guardare. Gli autori – Salinari, Simoncini, Barbetta, Traversari, Pracucci, Paolella, Pelinen… tanto per citarne alcuni – di questo volume a più voci sembrano concordare su un punto: l’azzardo è una forma particolarmente invasiva di “financial predation against the poor”, di predazione finanziaria contro i poveri. Solo che questa predazione è talmente integrale, biopolitica nel senso più letterale del termine, che rischia di essere “naturalizzata” e immunizzata da un approccio unicamente e non criticamente clinico. Al contrario, questo “azzardo” è più un fatto sociale totale alla Durkheim che un epifenomeno del consumismo. È, quindi, costituzione non solo costrizione di soggetti a debito capace di mette a frutto un sapere complesso e stratificato al fine di reincantare il soggetto per consegnarlo a una sorta di “algoritmo totale” che rischia di coinvolgere anche chi, nel gioco e dal gioco, crede di sapersi tenere a distanza.
All’inizio del XX secolo, il sociologo Max Weber affermava che “l’uomo ha scacciato gli dèi e ha razionalizzato e reso calcolabile e prevedibile ciò che nelle epoche precedenti era apparso governato dal caso”. Forze di calcolabilità e prevedibilità, osservava Weber, disincanteranno il mondo in maniera tale che “non ci saranno più forze misteriose, incalcolabili capaci di entrare in gioco”. Non si sbagliava, ma al contempo non poteva considerare il fatto che, nell’attuale sistema, anche là dove si pongano cesure fra la sua struttura e quella della finanza globale (cosa non semplice, essendo il sistema governato e retto da hedge fund), il predatory gambling è la forma esemplificata e emblematica del disincanto e del tentativo di reincantare in forma perversa il mondo. Come? Ingabbiando la sorte, il caso, persino l’azzardo così come lo si era storicamente conosciuto. Liberato dalle sue ultime componenti meccaniche, il machine gambling si è accordato alla perfezione col passaggio dalle società disciplinari chiuse, alle società di controllo aperte, rivelandosi una strepitosa macchina non solo di assoggettamento, ma di produzione di soggetti conformi al nuovo ambiente tecnico. Il machine gambling non attiene allo stile di vita del giocatore, ma alla configurazione della sua forma di vita. Un passaggio su cui gli autori di questo lessico plurale, critico, aperto ci aiutano a gettare ben più di uno sguardo. Con un’avvertenza: solo nella critica è possibile preservare. Solo così, infatti, ci si può prendere cura di quella parte dell’umano che ha, da sempre, a che fare col gioco. Mai con la sua corruzione.
Fonte: il manifesto
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