di Franco Chiarello e Giacomo Pisani
Il referendum costituzionale di ottobre costituisce un momento decisivo per il futuro politico del nostro paese. Il «no» alla riforma renziana non può essere un rifiuto nel senso della difesa della mediazione costituzionale Novecentesca, la cui base materiale è ormai completamente saltata. La risposta non può che essere un «no» costituente, che assuma l’eterogeneità della nuova composizione sociale e produttiva e ne faccia il terreno di sfida per un ripensamento complessivo, nel senso dell’universalità, delle politiche sociali.È su questa sfida che cercheremo di spendere qualche parola in questo articolo.
La Costituzione italiana, nel dopoguerra, era riuscita a fare del lavoro il terreno di organizzazione dell’intera società. La costituzionalizzazione della contrattazione collettiva – con l’efficacia erga omnes che il contratto collettivo ha acquisito nella prassi giurisprudenziale, oltre le difficoltà di attuazione legislativa – ha integrato la conflittualità operaia entro la mediazione politica e sindacale. Le soggettività collettive nate sul terreno della produzione di fabbrica, dunque, sono state messe a valore, divenendo il motore dello sviluppo costituzionale del paese. In questa «apertura» risiede la potenza formidabile della Costituzione, che più che una codificazione definitoria ha incardinato la produzione legislativa nell’immanenza dei rapporti sociali, entrando in fabbrica e circoscrivendo i limiti della decisione politica entro la mediazione fra capitale e lavoro.
Tale compromesso, tutt’altro che pacificato, è stato continuamente minacciato dall’eccedenza di una classe operaia tutt’altro che passiva rispetto alla norma dello sviluppo. Le lotte operaie a Mirafiori, la grande stagione di rivendicazioni negli anni ’70, hanno favorito una riscrittura di quella norma, piegando lo sviluppo industriale al riconoscimento di un orizzonte di diritti e di protezione sociale avanzato. Il nostro welfare assicurativo è in gran parte ereditato dal cosiddetto Trentennio Glorioso, coincidente con la stagione «sviluppista» del dopoguerra italiano.
La nostra Costituzione ha segnato mirabilmente il terreno di questa mediazione, vincolando lo sviluppo industriale al riconoscimento di una cittadella inviolabile di diritti per i lavoratori, aperta alle rivendicazioni operaie per mezzo dell’integrazione delle soggettività collettive entro la produzione giuridica, per mezzo della contrattazione collettiva. Lo Statuto dei Lavoratori ha rappresentato il momento più alto di questa mediazione. Oggi quel quadro è totalmente mutato. Da un lato si è assistito all’indebolimento progressivo della sovranità statale, incardinata all’interno di una governance trans-nazionale che credevamo orizzontale, neutra. A partire dal 2012, con il Fiscal Compact e l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, essa si è progressivamente disvelata nei termini della verticalità e della gerarchizzazione.
La troika a trazione tedesca ha fatto leva sul debito come dispositivo di ricatto per imporre le ragioni dell’efficienza economica, tradotte nella norma fondamentale dell’austerity. A farne le spese sono state proprio le politiche di welfare e i servizi pubblici di quei paesi indebitati – fra cui, appunto, l’Italia – colpevoli di non far quadrare i conti. Tali politiche, però, hanno potuto far presa su un tessuto sociale che aveva già totalmente rotto le coordinate di quella mediazione «lavorista» che aveva segnato i parametri della decisione politica fino all’inizio degli anni ’80. Una produzione sempre più eterogenea si traduce in una molteplicità di soggettività «eccedenti», spesso messe a lavoro senza un riconoscimento contrattuale effettivo, grazie alle nuove tecnologie digitali. L’accumulazione capitalista si estende a tutto il tessuto sociale, nell’ambito di una progressiva coincidenza fra forme di vita e forme di produzione.
L’intermittenza salariale e l’impossibilità di progettare il proprio futuro a lungo termine si traducono in un disagio esistenziale profondo, valorizzato nell’ambito delle tecnologie di auto – valorizzazione del capitale umano. Le nuove tecnologie governamentali tendono a incidere in maniera complessa sull’ambiente in cui l’individuo progetta la propria esistenza per far valere la ragione economica, fondata sull’auto-investimento individuale. Tale tecnologia di governo è stata spinta fino al superamento del salario come limite di definizione del contributo lavorativo. Lo testimonia la nuova frontiera del lavoro gratuito, andata in scena di recente, in pompa magna, all’Expo di Milano.
La riforma renziana si colloca nel solco di questo quadro, interpretando nella maniera più avanzata possibile le richieste dell’Europa. Di fronte all’ingovernabilità entro la mediazione costituzionale Novecentesca, l’attuazione della norma dell’austerity come dispositivo di governo necessita di un eccesso di esecutivizzazione e dell’esaltazione della decisione politica. Il governo del capo, oltre qualsiasi visione compromissoria, sociale della politica, retaggio del vecchiume novecentesco. A ciò si affiancano riforme elettorali iper-maggioritarie, per colmare il vuoto politico di una rappresentanza sempre più staccata dagli interessi sociali.
Il «no» alla riforma renziana, allora, non può essere un «no» difensivo. C’è piuttosto la necessità di costruire una nuova mediazione costituente, che riesca ad integrare quella molteplicità di soggettività che oggi risultano escluse dal welfare, dai diritti e, spesso, dal lavoro. Non semplicemente la richiesta di una protezione, ma la necessità di riorganizzare la società, oltre la valorizzazione capitalista. Da questo punto di vista, il reddito di base costituisce il riconoscimento della dignità e della possibilità di autodeterminazione di tutti i soggetti esclusi dal o messi ai margini nel mercato del lavoro. Perché se persino la sopravvivenza è costretta entro i «posti» che il mercato mette a disposizione, questo non è più una possibilità fra le altre, ma si configura come l’articolazione assoluta della realtà.
La garanzia di un reddito, inoltre, può aprire la strada ad una serie di sperimentazioni – cooperazione, forme di condivisione nell’ambito dellasharing economy, ecc. – che possono costituire una risposta dal basso alla crisi del vecchio modello di sviluppo, che tende a produrre sempre più emarginazione, insicurezza ed esclusione. L’accumulazione capitalista ha già investito il potenziale delle nuove forme di collaborazione e condivisione, che sempre più sono messe a valore in piattaforme online di proprietà di grosse corporation, con effetti di ulteriore degradazione – la cosiddettauberizzazione – delle condizioni e dei diritti dei lavoratori.
Il reddito di base può essere il punto di partenza per la costruzione di una nuova cittadinanza inclusiva ed eterogenea, che riconoscendo libertà e autodeterminazione universali valorizzi, al contempo, la possibilità di auto-valorizzazione e auto-gesione della cooperazione sociale. Per questo è necessario immaginare nuove istituzioni, anche a fronte di una sovranità statale ormai sbiadita. Il terreno costituente, allora, non può che essere quello europeo, l’unico – tra l’altro – su cui i paesi «incapaci», «colpevoli» e «indebitati» possono mordere il paradigma dell’austerity, che in questi anni ha proprio fatto leva sulle politiche dei singoli stati.
È necessaria, allora, la costituzione di un fronte trans-nazionale che si opponga alle politiche europee, sempre più produttrici di quell’esclusione e di quel disagio che, nelle periferie metropolitane, scatenano violenza e odio, ben sfruttati da vecchi e nuovi fondamentalismi. Sul fronte del «no», allora, dobbiamo subito cominciare a immaginare un’altra narrazione, che all’esclusione e al ricatto opponga diritti e democrazia per tutti.
Fonte: operaviva.info
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