di Piergiovanni Alleva
La convinzione, o quanto meno la fiducia, che anche grandi problemi possano avere, in realtà, una soluzione semplice e, per così dire, a portata di mano, purché sorretta da chiarezza di obiettivi politici e conoscenza adeguata dei dati socioeconomici e normativi, ha ispirato la presentazione da parte del Gruppo assembleare L’Altra Emilia Romagna di una proposta di legge regionale all’apparenza modesta ma, nei suoi scopi, certamente ambiziosa. Si tratta, infatti, di una proposta di legge in tema di riduzione dell’orario di lavoro tramite incentivazione dei contratti collettivi aziendali di solidarietà “espansiva” che mira a realizzare un triplice obiettivo.
Da un lato quello di migliorare decisamente la condizione esistenziale dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici, riducendo la settimana lavorativa da cinque a quattro giornate con una modestissima incidenza, peraltro sul livello salariale, da un altro lato – ed è lo scopo più importante ed urgente – riassorbire in parallelo in modo massiccio e tendenzialmente totalitario la disoccupazione giovanile, e dall’altro lato ancora, preparare una futura riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, resa indispensabile, in prospettiva dall’automazione crescente delle attività produttive.
Conviene spiegare subito, in breve, di cosa si tratta e la sostanza tecnico-normativa della proposta, posponendo la illustrazione dei vantaggi e possibilità ma anche delle obiezioni e delle resistenze. Si rammenta, dunque, che nel nostro ordinamento giuridico del lavoro esiste da molto tempo, ed esattamente dalla legge n° 863/1984, uno specifico istituto, detto “Contratto di Solidarietà”, che consiste in un contratto collettivo aziendale con il quale si riduce l’orario lavorativo dei dipendenti, distribuendo tra loro la riduzione del monte-ore complessivo.
Del “Contratto di Solidarietà” esistono, però, due tipi: quello “difensivo”, che viene utilizzato in ipotesi di crisi aziendale con esubero conseguente di personale e consiste nel ridurre l’orario lavorativo di tutti o di molti allo scopo di non licenziare nessuno, ed il contratto di solidarietà “espansivo” (quello che qui interessa) destinato ad imprese non in crisi, nella quale la riduzione d’orario distribuita fra i lavoratori in forza serve a “creare spazio”per l’assunzione di nuovi lavoratori.
Si comprende bene che se, ad esempio, quattro lavoratori passano(di loro volontà, beninteso) da cinque a quattro giornate lavorative alla settimana, nasce la possibilità di assumere un nuovo lavoratore che anche lui lavori quattro giornate alla settimana, senza che muti il monte-ore complessivo lavorato, né venga aggravato il costo del lavoro sopportato dal datore. Anzi, il datore di lavoro trae dall’operazione beneficio economico, perché già la legge 863/1984 ed ora l’art. 41 Dlgs n°148/2015 che ha nuovamente disciplinato il contratto di solidarietà espansivo, prevedono la decontribuzione previdenziale, per un triennio, dei nuovi rapporti così stipulati, mentre la contrattazione collettiva nazionale ammette la possibilità di corrispondere ai nuovi assunti un “salario d’ingresso” ridotto rispetto allo standard.
Vi è, però, una sostanziale differenza concreta di disciplina normativa rispetto ai contratti di solidarietà “difensivi” che ha gravemente handicappato i contratti “espansivi”: nei contratti di solidarietà “difensivi” la riduzione salariale, proporzionalmente conseguente, in teoria, alla riduzione di orario, viene compensata, con l’intervento della CIG, al 60% ed inoltre vengono accreditati ai fini pensionistici contributi figurativi su tutta la riduzione d’orario. Sicché,ad esempio, quei lavoratori lavorano non più 40 ore settimanali, ma solo 32 ore e tuttavia ricevono il salario per 36,8 ore, mentre la copertura contributiva, grazie all’accredito figurativo da parte dell’INPS, resta di 40 ore. Non meraviglia, pertanto, che i contratti di solidarietà “difensivi” abbiano avuto un crescente successo, tanto da essere ormai la forma più usata e “desiderata” di ammortizzatore sociale concordata in sede sindacale.
Invece, per il contratto di solidarietà “espansivo” non è prevista dalla legge, nessuna compensazione per i lavoratori che accettino di ridurre il loro orario, così da “far posto” a nuove assunzioni e questa “lacuna” è stata, fino ad ora esiziale, perché il sacrificio retributivo è stato troppo grave e disincentivante, pur essendo l’acquisto di una giornata libera in più la settimana molto desiderato, in particolare dalle donne lavoratrici coniugate. Di contratti di solidarietà “espansivi” se ne sono, di conseguenza, stipulati molto pochi e non si comprende davvero per quale motivo l’art.41 Dlgs n° 148/2015 non abbia fatto tesoro dell’esperienza e lasciata aperta quella lacuna.
Proprio qui, allora, si inserisce il progetto di legge regionale dell’Emilia-Romagna, che tecnicamente, vuole realizzare per i contratti di solidarietà espansiva, e utilizzando risorse locali, una compensazione salariale uguale o simile(60%della perdita) a quella dei contratti di solidarietà difensivi per i lavoratori che accettino(si tratta sempre di una scelta rigorosamente volontaria) di ridurre la loro settimana lavorativa da cinque a quattro giornate, così aprendo la via a nuove assunzioni.
Prima, però, di illustrare i meccanismi-peraltro semplici-attraverso cui realizzare tale compensazione, va sottolineato che il pregio della proposta-ma per altro verso anche la sua laboriosità di realizzazione-è costituito dalla circostanza che essa implica una diffusa contrattazione collettiva aziendale(eventualmente sulla base di intese-quadro regionali) nella quale moltissime specificità e problemi di dettaglio possono trovare soluzioni “su misura”. Quella che qui segue è, peraltro, solo una esemplificazione a scopo di chiarezza concettuale, senza portata precettiva.
Le condizioni-base previste nel progetto di legge sono, infatti, solo tre: che si tratti di riduzione delle giornate di lavoro settimanali (e non di orari giornalieri); che la riduzione di orario sia assolutamente volontaria da parte del lavoratore; che la compensazione salariale non sia inferiore al 50% della perdita.
Si ammetta, allora, scendendo alla esemplificazione, che il lavoratore il quale accetta la riduzione d’orario da cinque a quattro giornate, riceva un salario netto mensile di euro 1.300, il quale pertanto, con la riduzione dell’orario di lavoro del 20%(da cinque a quattro giornate) si ridurrebbe anch’esso del 20%, scendendo ad euro 1.040. Questa perdita di euro 260 gli viene, però, compensata al 60% nel senso che il datore gli mantiene un salario, come potere d’acquisto, di euro 1.200, di talché, in definitiva, il lavoratore, a fronte del notevolissimo beneficio di un giorno libero in più alla settimana, perde solo euro 100 mensili, ossia l’8% e non il 20% del salario.
Sembrerebbe, però, che ciò comporti un grave onere per il datore di lavoro, ossia l’accollo della compensazione pari ad euro 160 mensili(60% di euro260), ma così non è perché il datore di lavoro realizza un immediato recupero mediante tre fattori:
1) la fruizione della decontribuzione e del salario di ingresso dei lavoratori neo-assunti grazie al contratto di solidarietà espansiva. Ammesso, ad esempio, che il salario d’ingresso sia del 15% più basso dello “standard”, così da risultare pari ad € 1.100, e la contribuzione risparmiata su tale importo sia del 30%, ossia di € 330, si vede che il datore recupererebbe in complesso oltre € 500 per ogni nuovo assunto, e cioè recupererebbe di buona parte della compensazione concessa ai quattro lavoratori che hanno accettato la riduzione di orario. Va da sé che i lavoratori accettanti la riduzione dovrebbero essere invece cinque, se il lavoratore neo-assunto scegliesse di non lavorare anche lui su quattro giornate, bensì su cinque, come da orario ordinario. Va precisato però in in ogni caso che il recupero datoriale si aggira sugli € 80/100 per ogni accettante la riduzione. Va ancora precisato che il contratto di solidarietà espansiva, in quanto contratto collettivo aziendale, può assumere la fisionomia, di “contratto di prossimità” ai sensi dell’art. 8 legge 148/2011, visto che ha, appunto, lo scopo di aumentare l’occupazione, ed è quindi libero di fissare qualsiasi salario d’ingresso, anche in deroga ai CCNL. Questa “leva” può dunque essere più o meno lunga ed efficiente, ma nel nostro esempio ci si è limitati alla misura medio-bassa (15% di differenza) ordinariamente prevista anche dalla contrattazione nazionale per i salari d’ingresso.
2) La fruizione degli sconti e risparmi di spesa derivanti dalla corresponsione parziale del corrispettivo del lavoro mediante titoli rappresentativi, nel quadro del cosiddetto “welfare aziendale”. Il meccanismo è semplice: dopo le trasformazioni intervenute nella distribuzione commerciale, ogni famiglia spende non meno di € 100 settimanali presso supermarket per l’acquisto di beni di prima necessità ed anche di diverso tipo. Basterebbe, allora, che il lavoratore che ha accettato la riduzione di orario, mantenendo però un salario di € 1200, accettasse di spendere quasi € 400 tramite titoli rappresentativi (“buoni acquisto”) che il datore di lavoro può acquistare, all’ingrosso, con uno sconto ( verificato presso primarie organizzazioni commerciali)del 15%, perché se realizzi un recupero di ulteriore € 60 sulla compensazione accordata ad ogni lavoratore accettante la riduzione di orario. Anche questa seconda “leva” può essere “allungata” (o accorciata) dalla contrattazione: a titolo, di esempio se i lavoratori accettassero un pagamento con titoli rappresentativi per € 800, anche il recupero datoriale raddoppierebbe e potrebbe prospettarsi una rivendicazione di innalzamento della compensazione della riduzione di orario al 100% della perdita salariale. Si tornerà sul punto più sotto, trattando delle obiezioni e resistenze al progetto di legge, segnalando che una lunghezza “normale” della leva, di euro 400 corrisponde alle abitudini di consumo già acquisite.
3) La fruizione di un contributo regionale al datore di lavoro per ogni lavoratore assunto, ovvero – il che è lo stesso – per ogni lavoratore accettante la riduzione. Il ruolo della Regione nella proposta di legge è, ovviamente, ben più ampio :è un ruolo di dinamizzazione di stimolo alle parti sociali, di partecipazione alla negoziazione, ma deve comprendere, per ragioni anzitutto politiche, anche una partecipazione di tipo economico trattandosi di una tematica – il riassorbimento della disoccupazione giovanile – che è al primo posto tra gli obbiettivi strategici e programmatici.
In definitiva, per concludere l’esemplificazione, il datore di lavoro assicurerebbe una compensazione della riduzione pari ad euro 160 (il 60% della perdita) con recupero di euro 60 dai vantaggi di nuove assunzioni, di ulteriori euro 60 per utilizzo del welfare aziendale e di 40 di contributo regionale. Se si “allungano” le prime due leve, può anche diminuire (ma non annullarsi) il contributo regionale o aumentare la percentuale di compensazione (es. dal 60% al 80%), prospettiva, quest’ultima importantissima, perché, ovviamente, l’aumento della propensione ad accettare la riduzione non è lineare ma più che proporzionale con il crescere della compensazione stessa. Non si può dubitare che con una compensazione all’ 80 – 85%, tutti o quasi tutti i lavoratori vorrebbero avere un giorno libero in più alla settimana, a fronte di una riduzione salariale, a quel punto di soli euro 50 mensili.
§2) Vantaggi, possibilità, sviluppi della proposta
le potenzialità della proposta sono dunque amplissime, pur tenendo conto dei limiti e delle difficoltà che verranno più sotto tratteggiati.
Si consideri che in Emilia-Romagna ci sono circa 2 milioni di lavoratori dipendenti di cui circa 700.000 donne e che i disoccupato sono circa 160.000, per un terzo giovani. Se solo la quarta parte degli occupati aderisse alla riduzione della settimana lavorativa, con tutti i suoi vantaggi esistenziali, la disoccupazione sarebbe riassorbita e certo integralmente quella giovanile.
E del tutto intuitivo che alcuni strati della popolazione ne trarrebbero vantaggi enormi: i giovani disoccupati,anzitutto, ai quali sarebbe offerta finalmente una soluzione lavorativa vera, non precaria, con tutte le prospettive di successivo sviluppo professionale, in cambio di un sacrificio( “il salario d’ingresso”) che è comunque ormai normalmente accettato per il primo triennio d’impiego, sempre che, ora, si riesca a reperirlo. Ma anche i disoccupati più anziani ne trarrebbero vantaggio, proprio nulla impedisce che in occasione dei contratti di solidarietà espansiva si prevadono per loro quote di riserva ed il cumulo delle altre provvidenze legislative stabilite dalla normazione nazionale e regionale.
Sul lato invece dei soggetti accettanti la riduzione di orario, i beneficiari ed i destinatari di elezione sono sicuramente le donne lavoratrici con carico familiare, che dal giorno libero in più settimanale, trarrebbero un prezioso sollievo alla loro fatica esistenziale, mentre la presenza, con ogni probabilità, di un secondo reddito familiare proveniente dal coniuge renderebbe sopportabilissimo e quasi irrisorio il peso della perdita salariale residua(gli euro 100 della nostra esemplificazione).
Quanto ai datori di lavoro potrebbero finalmente puntare ad un ringiovanimento della forza lavoro impiegata, mentre il costo del lavoro avrebbe una diminuzione notevole nel primo triennio( con l’apprensione di una parte, almeno, della decontribuzione e della differenza salariale da salario d’ingresso) e, poi resterebbe, comunque, invariato, mentre una volta trascorso il triennio la nuova contrattazione collettiva nazionale si incaricherebbe di realizzare nuovi equilibri. D’altro canto tutte le politiche di incentivazione occupazionale si muovono in un orizzonte triennale, quanto ai vantaggi sociali sarebbero sicuramente importanti: l’aumento dell’occupazione, significa ripresa dei consumi e della produzione e miglioramento inestimabile del clima sociale, mentre l’aumento del tempo libero di ogni lavoratore comporta il fiorire dei contatti sociali, del volontariato, della cultura ecc.
Poi, il consolidamento e l’estensione territoriale dell’esperienza porrebbe sicuramente la questione della sua stabilizzazione e generalizzazione, fino alla fissazione per legge nazionale della settimana lavorativa a 30/32 ore settimanali.
Certamente, infatti, la dimensione regionale dell’esperienza dovrebbe poi essere superata, e, tuttavia, non è, “medio tempore” superflua, ma anzi necessaria: occorre dimostrare la efficienza e la potenzialità del metodo negoziale nella gestione degli orari e dell’occupazione e, in questo senso, una terra di elezione della contrattazione collettiva aziendale, quale l’Emilia-Romagna appare essere, almeno sulla carta, il laboratorio ideale. Ma la legislazione nazionale, da parte sua, non può restare in posizione di semplice attesa: il suo compito sarebbe colmare, finalmente, quella “lacuna” nel regime dei contratti di solidarietà “espansiva” rispetto a quelli difensivi e riconoscere anche per questi ultimi una compensazione alla riduzione di orario. Basterebbe anche una misura ridotta rispetto al 60% di compensazione della perdita prevista per i “contratti difensivi”: già con una compensazione a carico della finanza nazionale del 25-30% si perverrebbe in aggiunta al ricordato 60% procurabile con risorse locali, a quella compensazione superiore all’ 80% che significherebbe adesione totalitaria da parte dei lavoratori e riassorbimento totale della disoccupazione.
Il costo sarebbe, comunque, inferiore a quello, gigantesco quanto inutile, della decontribuzione triennale che ha accompagnato l’introduzione del contratto di lavoro a tutele crescenti. Un costo pari a euro 24.000 per ogni nuova assunzione, ai sensi dell’art. 1 comma 118 Legge 194/2014 e che si è risolto, in realtà, in un enorme regalo agli evasori, visto che i contratti di lavoro precari “trasformati”, a carissimo prezzo, in contratti a tempo indeterminato ed a “tutele crescenti”, (ma senza la tutela dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori) erano quasi sempre, o nove volte su dieci, irregolari e quindi, agli occhi della legge, già a tempo indeterminato( e per di più muniti della tutela dell’art. 18).
La legislazione nazionale dovrebbe, infine, consentire di estendere l’esperienza al settore del lavoro pubblico, ambiente in teoria ideale per un riassetto degli orari lavorativi con riduzione delle giornate di lavoro settimanale( è già previsto il “part-time”) bilanciata da nuove assunzioni. Proprio nulla si oppone, infatti, in linea concettuale e teorica ad estendere a quel settore l’istituto del contratto di solidarietà espansiva in sede di contrattazione decentrata, che potrebbe, appunto, ricomprendere anche tali contenuti.
§3) Confutazione di alcune obiezioni e resistenze al progetto di legge
Non è inutile concludere questo breve scritto con una seppur sommaria confutazione delle obiezioni e delle riserve che da alcune opinioni sono state affacciate per il progetto, accanto ad altre opinioni del tutto favorevoli. Alcune obiezioni hanno un carattere tecnico, e rispondono soprattutto ad una necessità di chiarimento. Così quella che pone il problema di una “reversibilità” della scelta di riduzione della settimana lavorativa da cinque a quattro giornate ed al ritorno al salario “pieno”, ovviamente rinunziando alla compensazione.
La risposta è, in linea di massima, senz’altro positiva, visto che si tratta, teoricamente, di trasformazioni “a part-time” del rapporto e che la reversibilità del “part-time” è normalmente possibile, sull’accordo delle parti, seppur nei limiti e modi solitamente previsti dalla contrattazione collettiva. Quest’ultima, per lo più, stabilisce una durata minima(es. un anno) della scelta di riduzione d’orario e talvolta condiziona la reversibilità alla sopravvenienza di una nuova domanda di “part-time” da parte di un altro lavoratore, che riequilibri quella di ritorno al “full-time”. Si tratta in sostanza di un tema che deve trovare la sua regolamentazione nello stesso contratto aziendale di solidarietà espansiva.
Altra diffusa preoccupazione è quella che riguarda le conseguenze previdenziali, ovvero pensionistiche della riduzione d’orario. Va, allora, chiarito che la regola di concessione della contribuzione figurativa da parte dell’INPS per l’intera riduzione d’orario, valida per i contratti di solidarietà “difensivi”, non può non valere anche per quelli “espansivi”, specialmente ora che un recente intervento normativo (Dlgs 185/2016) ha consentito la “trasformazione” dei contratti di solidarietà “difensiva” in contratti di solidarietà “espansiva”.
In altri termini, alla fine del contratto di solidarietà difensiva e, dunque, della crisi aziendale, invece di tornare all’orario pieno, i lavoratori restano ad orario ridotto, per consentire nuove assunzioni( è questo “il passaggio” alla solidarietà espansiva), conservando i benefici in essere, e, dunque, anche l’assoggettamento della riduzione d’orario a contribuzione figurativa. Ne consegue, dal punto di vista dell’interpretazione sistematica e di un principio di non contraddizione dell’ordinamento che anche per i contratti di solidarietà espansiva, per così dire “originari” deve applicarsi il beneficio della contribuzione figurativa.
Altre obiezioni, invece, hanno, sorprendentemente, una natura o intonazione tutta ideologica, quasi a giustificazione, da parte dei singoli e dei sindacati datoriali e dei lavoratori, di una qual certa accidia, della riluttanza cioè di non imbarcarsi in una faticosa campagna di contrattazione azienda per azienda. Da una parte dei singoli lavoratori viene poi talvolta rivendicata una non meno sorprendente “libertà di consumo”, unita a riluttanza rispetto all’accettazione di un pur modesto sacrificio finanziario(8% del salario) ancorché bilanciato dal giorno libero in più settimanale.
È emersa, in altre parole, seppur in una limitata area di opinioni, soprattutto maschili, un di a sorta di risposta individualistica e incattivita dalla crisi, che potrebbe così suonare” i soldi mi servono tutti, e me li spendo dove mi pare”, con il sottinteso “e al diavolo i disoccupati”. Salvo, però, manifestare subito una contraria, interessata adesione alla proposta di un giorno libero in più a settimana, ove la compensazione salariale si avvicini o raggiunga il 100%.
La lunga crisi capitalistica ha, dunque, inciso negativamente sul senso di solidarietà, un tempo assai diffuso nella classe lavoratrice, e occorre prendere atto, puntando, attraverso la massimizzazione – pure possibile – della compensazione per riduzione d’orario, su un risveglio d’interesse per le sorti proprie ed altrui.
Quella della “libertà di consumo” è, invece, solo una reazione nevrotica contro il clima di oppressione e mancanza di alternative indotto in genere dalla crisi: già adesso, infatti, ogni lavoratore spende almeno un terzo del suo salario per procurarsi, ovviamente presso la grande distribuzione, e non presso i punti vendita tradizionali, i generi di prima ed anche seconda necessità, e, d’altro canto, la scelta sarebbe amplissima tra tipologie di prodotti ed imprese di distribuzione commerciale.
Con la messa in esecuzione del progetto, quindi non cambierebbe in realtà nulla nelle abitudini di consumo dei singoli, ma l’utilità sociale di questo utilizzo “virtuoso” del “welfare aziendale” sarebbe grandissima. Allo scopo di sincerarsi della effettiva propensione dei protagonisti del progetto,-o ssia dei lavoratori già occupati-, alla riduzione d’orario (compensata almeno al 50%) il Gruppo assembleare dell’ “L’Altra Emilia Romagna” ha commissionato un sondaggio d’opinione convenientemente articolato, con la fiducia che proprio dai soggetti che più avvertono il peso di un doppio lavoro, ossia dalle donne lavoratrici con impegni familiari, verrà l’adesione più convinta al progetto solidaristico.
L’utilizzo del “welfare aziendale” per altro verso, lascia dubbiose le organizzazioni sindacali, le quali temono, non senza ragione, l’involuzione aziendalista e discriminatoria potenzialmente connessa alla sostituzione di parte del salario monetario con “benefit” e compensi in natura e servizi. Si tratta, a nostro avviso, di una obiezione del tutto ideologica, ed inoltre per più versi infondata: intanto perché il pagamento attraverso “welfare aziendale” sarebbe molto parziale (nel nostro esempio, 400 euro su 1.200), e poi perché quello auspicato sarebbe un modo di mettere in realtà sotto controllo, rivolgendola a scopi sociali di primario rilievo(l’assunzione di disoccupati) una tendenza che, altrimenti, potrebbe davvero inclinare verso l’individualismo, la discriminazione e l’abbandono della contrattazione collettiva che, invece così, verrebbe molto potenziata.
L’altra obiezione, anch’essa tutta ideologica, riguarda la qualità e funzioni di “contratto di prossimità”, ai sensi dell’art.8 Legge 148/2011, che il contratto di solidarietà espansiva assumerebbe nel regolare la materia del salario d’ingresso dei neo-assunti. La norma ora ricordata è la famosa “Legge Sacconi”, forse la più odiata dai sindacati e da tutti i giuristi democratici perché consente al contratto aziendale, in determinate condizioni e con certe modalità, di derogare(ovviamente “in peius”) alle previsioni del CCNL ed anche delle leggi del lavoro.
Per i sindacati quindi è considerata – e giustamente – come il fumo negli occhi, ma qui il ricorso a quella norma servirebbe soprattutto a rendere omogenee e determinate certe regolamentazioni dei salari dei neo-assunti e non a comprimerli al di là di quanto, in modo disordinato, abbia già fatto la contrattazione nazionale di categoria. Anche qui, come nel caso del “welfare aziendale” è la gestione politica che determina la bontà o la dannosità degli effetti di strumenti, in sé certo delicati e pericolosi, ma controllabili ed indirizzabili a fini altamente positivi da un sindacato consapevole.
Quanto alle organizzazioni datoriali, la ritrosia non è dovuta a ragioni economiche, di cui abbiamo già illustrato la insussistenza, ma ad una tradizionale ostilità verso la contrattazione diffusa e verso l’aumento, comunque, dell’occupazione in fabbrica, poiché come si sa, ogni capitalista si augura l’aumento degli occupati nell’insieme del contesto socio-economico, perché valgono, allora, come consumatori, ed invece la diminuzione a parità di produzione quelli da lui direttamente impiegati e pagati. A ciò si somma una tendenza paternalistica a concedere, caso per caso, riduzioni dell’orario “a part-time”, ai lavoratori che espongano di averne bisogno, senza dover sottostare in tale materia a veri e proprio “diritti-doveri” in tale materia.
Per superare queste inerzie, fortunatamente tutt’altro che invincibili, occorre un movimento rivendicativo dei diretti interessati alla realizzazione dei due scopi “gemelli” del progetto di legge, sia, cioè ad una vita meno stressante con diverso rapporto quantitativo tra tempo di vita e tempo di lavoro, sia alla realizzazione, dopo anni di disoccupazione e precariato, del sacrosanto diritto al lavoro. L’Altra Emilia Romagna ringrazia tutti quelli che, accettando di discutere la proposta, contribuiranno a costruire quel movimento.
Questo articolo è stato pubblicato sul sito di Piergiovanni Alleva che lo ha ripreso dall’ultimo numero di Critica marxista, rivista bimestrale di riflessione politica e culturale
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