di Giuseppe Civati e Stefano Catone
Chi vive a certe latitudini si ricorda bene i tempi in cui, dal governo delle regioni fino alle amministrazioni locali dei più piccoli comuni della valli alpine, esponenti leghisti e forzisti attuavano le proprie politiche a suon di ordinanze e di discriminazioni. Erano i tempi delle ordinanze anti-kebab, delle ordinanze contro le insegne etniche, delle ordinanze contro i senzatetto. Ma erano anche i tempi di politiche regionali che segnavano separazioni etniche (razziali?) nell’accesso a servizi fondamentali per la garanzia dei diritti della persona. Erano gli stessi tempi in cui deputati e senatori del centrosinistra, così come l’ultimo dei consiglieri comunali di centrosinistra, denunciavano la violazione tramite atti amministrativi di diritti costituzionalmente sanciti, e in cui il centrosinistra proponeva una visione diversa, politica e culturale, non solo delle migrazioni, ma anche della sicurezza e dell’inclusione sociale.
Alle ronde padane (ve le ricordate, le ronde padane?) in tanti rispondevamo con la riqualificazione dei quartieri (in tanti, ma non tutti: c’era qualcuno che già allora parlava di “ronde democratiche”) e ci impegnavamo per contrastare la retorica leghista e i luoghi comuni sull’immigrazione (cfr. Mandiamoli a casa, i luoghi comuni, e le bozze in .pdf, 2010 e Nessun Paese è un’isola, 2016), che proprio in quegli anni hanno gettato le basi per la costruzione di una visione del mondo che vede nell’immigrato la causa di tutti i mali. Ed ecco perciò l’insistere sulla parola “clandestino” e il collegato reato di ingresso e soggiorno irregolare (semplificato in “reato di clandestinità”, appunto), i rimpatri, i CIE, gli accordi con la Libia, i respingimenti. La retorica dell’invasione.
Alle ronde padane (ve le ricordate, le ronde padane?) in tanti rispondevamo con la riqualificazione dei quartieri (in tanti, ma non tutti: c’era qualcuno che già allora parlava di “ronde democratiche”) e ci impegnavamo per contrastare la retorica leghista e i luoghi comuni sull’immigrazione (cfr. Mandiamoli a casa, i luoghi comuni, e le bozze in .pdf, 2010 e Nessun Paese è un’isola, 2016), che proprio in quegli anni hanno gettato le basi per la costruzione di una visione del mondo che vede nell’immigrato la causa di tutti i mali. Ed ecco perciò l’insistere sulla parola “clandestino” e il collegato reato di ingresso e soggiorno irregolare (semplificato in “reato di clandestinità”, appunto), i rimpatri, i CIE, gli accordi con la Libia, i respingimenti. La retorica dell’invasione.
E’ su questa ondata di intolleranza che la coalizione di centrosinistra che si presentava alle elezioni politiche del 2013, scrivendo che il primo atto che avrebbe compiuto sarebbe stato quello di prevedere per legge che ogni bambino nato e cresciuto in Italia avrebbe avuto la cittadinanza italiana. Non è stato il primo atto di alcuno dei tre governi che finora hanno caratterizzato questa legislatura. E non sarà nemmeno l’ultimo, se pensiamo che il testo di riforma della cittadinanza – bloccato al Senato – introduce uno ius soli molto temperato e cioè fondato sul reddito dei genitori. E non sarà di certo questa una legislatura che porterà quel cambiamento culturale e normativo che tanti ci auguravamo all’inizio di questa storia.
Alla mancata introduzione di uno ius soli “pieno” si sommano, infatti, la mancata riforma della legge Bossi-Fini, che attraverso irrealistici meccanismi di ingresso e di espulsione non è altro che una fabbrica di irregolarità, e la mancata cancellazione del reato di ingresso e soggiorno irregolare nonostante la delega approvata dal Parlamento, ritenuto ormai da tutti un reato inutile e capace solamente di ingolfare i lavori della giustizia.
A tutte queste mancanze si sommano iniziative normative che fanno invidia alle politiche leghiste richiamate in precedenza: la stretta sui rimpatri degli irregolari, accordi con il governo(uno dei) libico per impedire le partenze e esternalizzare gestione di confini e rifugiati a un paese che non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra (non è un caso che nel memorandum ricorra con paurosa sistematicità il termine “clandestini”), accordi con le tribù libiche con le stesse finalità, l’eliminazione di un grado di giudizio per i richiedenti asilo e la soppressione di alcune garanzie procedurali, la riapertura dei CIE sotto falso nome, l’istituzionalizzazione della lotta ai poveri a mezzo di ordinanze sindacali. La perdurante esportazione di armi con le quali l’Arabia Saudita bombarda lo Yemen – paese colpito non solo dalle bombe, ma anche da una gravissima crisi alimentare – in spregio alla legge italiana.
Il lavoro sporco, insomma, l’ha fatto il Partito Democratico, quello stesso partito che si proponeva di introdurre lo ius soli come primo atto governativo. E l’ha fatto cavalcando la retorica leghista e razzista, dal “non possiamo accoglierli tutti” (ma tutti chi?), ai “patti di sangue” tra governo e tribù libiche, ammantandola di un’aura di serietà e rigore che permette alla peggior destra di dire che «sì, va bene, ma non è abbastanza», e allora bisogna essere più brutali e spietati, e lasciar affogare i migranti in mare, piuttosto che salvarli.
Ecco perché Minniti, insieme a coloro che sono incapaci di muovere almeno una timida critica a quanto fatto in questa legislatura, sarà responsabile dell’ulteriore scivolamento verso il cattivismo e la conseguente discriminazione di chi ha la pelle di un colore diverso, di una società più chiusa, incapace di dare il benvenuto a persone che scappan dalla guerra ma che esulta per il rimpatrio di quaranta persone in Sudan, sul cui presidente pende un mandato d’arresto internazionale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Noi ci schieriamo dall’altra parte: la parte dei diritti umani, della costruzione della convivenza, la parte di chi ripudia la guerra e la violenza. Sempre dalla stessa parte.
Fonte: possibile
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