Intervista a Salvatore Biasco di Gianni Saporetti
La fine del compromesso fra capitalismo e democrazia, fra mercato e controllo pubblico, causata anche da fattori oggettivi, e l’affermazione di un’ideologia neoliberista che, nella soggezione culturale della sinistra, ha finito per diventare pensiero unico; politica dell’offerta, alleggerimento dello Stato, flessibilizzazione del mercato del lavoro, arretramento sui canoni di protezione sociale; il fallimento del partito leggero, della “democrazia del pubblico”. Intervista a Salvatore Biasco. Salvatore Biasco ha insegnato Economia Internazionale all’Università La Sapienza di Roma. Autore di testi accademici a uno dei quali è stato conferito il premio St. Vincent per l’Economia, si è dedicato, specie negli ultimi anni, a temi di analisi politica. Nel 2016 è uscito il suo ultimo libro Stato Regole e uguaglianza. La posta in gioco nella cultura della sinistra e nel nuovo capitalismo, Luiss University Press.
La fine del compromesso fra capitalismo e democrazia, fra mercato e controllo pubblico, causata anche da fattori oggettivi, e l’affermazione di un’ideologia neoliberista che, nella soggezione culturale della sinistra, ha finito per diventare pensiero unico; politica dell’offerta, alleggerimento dello Stato, flessibilizzazione del mercato del lavoro, arretramento sui canoni di protezione sociale; il fallimento del partito leggero, della “democrazia del pubblico”. Intervista a Salvatore Biasco. Salvatore Biasco ha insegnato Economia Internazionale all’Università La Sapienza di Roma. Autore di testi accademici a uno dei quali è stato conferito il premio St. Vincent per l’Economia, si è dedicato, specie negli ultimi anni, a temi di analisi politica. Nel 2016 è uscito il suo ultimo libro Stato Regole e uguaglianza. La posta in gioco nella cultura della sinistra e nel nuovo capitalismo, Luiss University Press.
Possiamo partire dal "compromesso socialdemocratico”? Che cos’è?
"Il compromesso socialdemocratico è stato un connubio di principi democratici e partecipativi con il mercato, che lasciava alle imprese il compito di creare occupazione e innovazione, ma al contempo ne disciplinava il comportamento. Da questo punto di vista, le imprese erano concepite come una sorta di bene pubblico soggette a uno scrutinio pubblico nel quale lo Stato aveva una funzione di direzione, supplenza, ausilio. Quindi le imprese non sono le artefici incontrastate di decisioni che portano al benessere sociale. In più lo Stato ha il compito di assicurare che quel benessere sia accettabilmente distribuito. Certo, quel compromesso era favorito da una situazione internazionale che creava condizioni favorevoli -i salari crescevano, la produttività cresceva e i benefici si distribuivano, la domanda interna veniva sorretta da questi rimandi e quella esterna da analoghi processi che avvenivano in parallelo negli altri paesi- ma l’importante è che avesse internamente una sua coerenza in termini di democrazia economica dove per democrazia economica dobbiamo intendere la protezione dai rischi sociali, il disciplinamento dei conflitti di interesse, la capacità di mantenere un’occupazione sempre elevata e di proteggere il sistema da crisi produttive, la capacità di controllo dei cittadini sulle scelte private che influenzano l’ambiente di ciascuno, la permeabilità dello Stato alle istanze popolari assicurata attraverso i partiti di massa.
In definitiva, il compromesso socialdemocratico è stata una concezione a tutto tondo, dove capitalismo e democrazia si sposavano in un connubio abbastanza soddisfacente."
Questo connubio felice a poco a poco è andato in crisi. Perché?
"Innanzitutto per alcuni eccessi: eccessi di spesa, forse, un certo appesantimento burocratico, forse una presenza molto estesa dello Stato (la famosa protezione dalla culla alla morte), contro i quali, enfatizzandoli molto, si è poi scagliata la critica neoliberale, che vedeva i cittadini privati della libertà di scelte, la struttura dello Stato irrigidita, spese che risultavano in tassazione. La società si era molto più aperta per creare stati che non vedevano le proprie fortune legate a quelle collettive. Ormai un’élite dominante era stata resa molto più forte, più sicura del proprio ruolo sociale, grazie all’indebolimento delle controparti sindacali dovuta all’apertura internazionale e all’inflazione. Reclamava soprattutto che si riducesse la tassazione. E che si riportasse l’inflazione (imputata ai sindacati) sotto controllo. La tecnologia ha aiutato molto consentendo lo spezzettamento delle unità produttive (cioè, il "decentramento”, prima all’interno e poi internazionale). Consideriamo che una società più omogenea determina coalizioni più omogenee, gruppi sociali più definiti, identità molto più forti. Quindi è stato difficile per la sinistra, sia tenere un argine difensivo, sia produrre una controffensiva vera e propria sul piano culturale e sul piano delle proposte.
Quando poi c’è stata la liberalizzazione completa dei movimenti di capitale, che hanno reso il mercato mondiale un tutto unico, il potere dello Stato è diminuito moltissimo, ciascun paese è stato soggetto a uno scrutinio della finanza internazionale e anche le opzioni di politica economica si sono ristrette molto; se aggiungiamo la crisi fiscale che ha toccato quasi tutti i paesi, capiamo ancora di più come si determinino condizioni molto sfavorevoli alla sinistra, che lentamente hanno fatto mettere da parte politiche interventiste, di spesa, ma non solo, anche di interferenza nelle scelte private. Così è dilagata un’altra concezione del mondo che aveva ovvi connotati ideologici, ma che inizialmente è apparsa come un insieme di precetti quasi neutri per riconquistare un dinamismo dell’economia (che aveva perso nel frattempo il motore domanda interna-domanda internazionale). Il capitalismo, se vogliamo usare questa categoria, o le élites dominanti, o i settori benestanti della società, o il sistema sociale che è prevalso, in realtà non aveva più sfide interne, non aveva più una contrapposizione interna, ed è per questo che l’insieme delle proposte di conduzione delle politiche economiche è finito per apparire un fatto oggettivo senza alternativa, con impossibilità di andare al di là di certi binari. Ed è così che siamo a oggi."
Il neoliberismo ha conquistato un’egemonia culturale, ma sulla base di cambiamenti oggettivi, inevitabili. Ma la sinistra poteva fare qualcosa?
"Di quella trasformazione della società, di cui abbiamo parlato, la sinistra non è stata in grado di dare un’interpretazione adeguata, mentre ha avuto una sintesi a destra. Ma anche dal punto di vista culturale il cambiamento dei rapporti di forza, dei fatti impositivi esterni, di ciò che era possibile e ciò che non era possibile, si è volto sicuramente contro la sinistra. Il quadro culturale è stato lentamente dominato da un pensiero unico. Ed è proprio forse il piano culturale, più che il piano delle politiche, dove noi misuriamo la sconfitta della sinistra. Questa è stata in soggezione rispetto alla critica sociale portata dalla nuova ortodossia allo Stato "paternalistico, inefficiente e burocratico”. Non ha avuto idee su come affrontare, senza snaturare la sua visione del mondo, quella parte di parzialissima verità che quella critica ad "alzo zero” conteneva. Ha quindi accettato l’idea che non ci fossero alternative, che la via indicata dall’ortodossia fosse in fondo la via da seguire, quella cioè del mercato, della politica dell’offerta, dell’alleggerimento dello Stato, della flessibilizzazione del mercato del lavoro, dell’arretramento sui canoni di protezione sociale. In un certo senso ha ritenuto che la via della liberalizzazione dell’economia fosse l’unica capace di rendere dinamico il sistema produttivo. Accettato questo, ha finito per accettare anche tutto il corollario di elementi ideologici, che si presentavano come apparentemente neutri: la sovranità del consumatore che si sostituisce al cittadino, il fatto che non si parli più di compromesso sociale e di patto di cittadinanza, che non ci sia più uno spazio pubblico che vada difeso e condiviso con i cittadini, che sia necessario che le politiche discrezionali recedano rispetto all’universalismo del mercato.
Pensiamo ai servizi sociali, pensiamo al ruolo protettivo dello Stato. Si è accettato, come ho detto, che le politiche dell’offerta fossero l’unico criterio di governo, perché solo da queste poteva venire efficienza e stimolo all’investimento, mentre le politiche di domanda ormai erano bandite. Intorno a quell’unico criterio si costruiva la politica economica. La stessa architettura istituzionale europea non ha concepito altro che questo, bandendo strutturalmente la gestione della domanda, o politiche di occupazione come target, prevedendo che non vi dovessero essere né strumenti fiscali centralizzati, né strumenti monetari. Quelli che sono stati messi in campo sono stati una forzatura rispetto a ciò che prevedono i Trattati e lo Statuto della Banca centrale europea.
In più, questa idea del mercato, della competizione, è entrata anche a livello individuale; ciascuno di noi è sollecitato a fare un’analisi costi-benefici, a prendersi le responsabilità delle scelte: deve scegliere la scuola, deve scegliere la sanità, il fornitore di servizi pubblici; insomma una educazione a introiettare una concezione totalmente diversa del mondo, quella in cui una soggettività si forma attorno all’individuo che partecipa al mercato. Questo è penetrato poi ovunque. Pensiamo alla pubblica amministrazione: non è più la burocrazia che presidia lo Stato e la continuità amministrativa, o che fa valere un principio di statalità; è una burocrazia che deve simulare il settore privato come se agisse sul mercato, con criteri di valutazione. Pensiamo non solo all’operato dei singoli ma alla scuola o all’università, soggette a una simulazione di competizione tra centri diversi secondo criteri che poi sono sempre del tutto arbitrari, come sono del tutto arbitrari i criteri di efficienza privata applicati alla pubblica amministrazione. Questi creano una pubblica amministrazione spezzettata, che incorpora anch’essa il principio di competizione anche dentro se stessa. A tutto tondo, la società funziona secondo canoni che non sono più di cooperazione o di primato dell’interesse collettivo. Il primo è una parolaccia il secondo è demandato alla competizione medesima che lo assicurerebbe per definizione."
La sinistra ha ceduto completamente? Mi ha colpito l’espressione "Liberali per disperazione”.
""Liberali per disperazione” è un’espressione che ha anche una sua nobiltà. Io, come si capisce, sono alquanto avverso al neoliberismo, ma capisco anche chi è convinto che, per come è fatta l’Italia -per la burocrazia e la classe politica che si ritrova- forse è meglio non affidare a questi corpi le scelte discrezionali, forse è meglio che queste siano impersonali, fatte dal mercato, che in quanto tale può avere funzioni universalistiche, nel senso che disciplina tutto in termini uniformi. Ma il mercato non è questo e spesso fa peggio. Ma non tutti sono liberali "per disperazione”. A poco a poco, molti anche a sinistra hanno assunto la liberalizzazione dell’economia come cardine culturale centrale. Il riferimento storico importante l’hanno avuto nel blairismo, una posizione che negli anni Novanta si era dimostrata elettoralmente vincente. Per un certo tempo, poi, è sembrato che si potesse ovviare alla sconvolgimento sociale portato in Occidente dalla globalizzazione perché l’economia e l’occupazione crescevano. La crisi ha fatto giustizia di tutto questo. Se non ci fosse stato lo Stato a salvare le banche, a sorreggere l’economia e a tamponare le situazioni più disperate, non tanto in Italia quanto in Europa e negli Stati Uniti, saremmo entrati in una crisi spaventosa. Solo che ormai lo Stato è quell’istituzione che interviene in ultima istanza. Non gli è stato restituito un ruolo, né se lo è riconquistato. Ma le cose stanno cambiando moltissimo. Pensiamo che fino a cinque-sei anni fa l’espressione "politica industriale” era una parolaccia. "Pubblico” era una parola dai connotati negativi. Oggi la gente difende lo spazio collettivo e parlare di privatizzazioni è impopolare. La politica industriale è tornata d’attualità, certo non con la forza di prima. E le politiche industriali si fanno molto più negli Usa, che la vulgata vuole come il "paese della libertà economica per antonomasia”, di quanto non accada in Europa, dove la Corte di giustizia dell’Aja cassa qualsiasi intervento discrezionale. In questa parte del mondo agisce un meccanismo perverso. L’Ue è nata sull’idea che la libera circolazione di merci, persone, capitali fosse un diritto di rango costituzionale, e chiunque si senta danneggiato in questi suoi "diritti”, o pensi che la competizione sia ostacolata, va all’Aja e si prende la ragione che la Corte inevitabilmente gli dà, per di più quei pronunciamenti diventano immediatamente legge che fa premio su qualsiasi legge nazionale. È uno strumento potente di diffusione di un principio fondamentalista di competizione che ha sbilanciato le ragioni del mercato rispetto alle ragioni della politica, quelle delle imprese rispetto a quelle dei lavoratori e dello Stato. Soprattutto se le ragioni della politica, come spessissimo succede in Europa, si mettono in moto molto lentamente, e sono difficili da stabilire su base consensuale."
Tu parli del "welfare compassionevole”, un welfare che da fattore di emancipazione, di cittadinanza, diventa un mezzo per aiutare i poveri.
"Prima, nell’erogazione di alcuni servizi sociali era implicito un patto di cittadinanza. Pensiamo alla sanità per tutti, gratuita, finanziata dalla fiscalità generale. Poi comincia a essere una sanità selettiva, con i ticket, col fatto che chi ha possibilità va nel privato e gli altri si mettono in lista d’attesa, con le differenze territoriali.
Ora si tende a sorreggere solo le fasce più basse di reddito. Questo finisce per comprimere i ceti medi, che in qualche modo se la devono cavare oppure contribuire pesantemente ai costi. Ma poi non tutto è stato smantellato; elementi di stato sociale in sanità li troviamo ancora: tanto per fare un esempio, abbiamo ancora un pronto soccorso totalmente gratuito. Ma non abbiamo in Italia alcun sostegno per le ragazze madri; il sostegno alla povertà, poi, è relativo; avremmo dovuto in qualche modo regolarlo, finanziarlo e pensarlo per le famiglie numerose, o per chi ha a carico persone non autosufficienti. Sicuramente i costi del welfare aumenterebbero, ma se facciamo bandiera della sinistra la detassazione e questa va riducendo la progressività, certo non ci semplifichiamo la vita.
Capisco perfettamente che chi compete alle elezioni voglia i voti degli elettori e che gli elettori sono molto contenti quando vengono sgravati fiscalmente, però ci sono dei limiti. Credo che ci sia al fondo un problema di educazione a una visione collettiva delle cose. Finché avalliamo l’idea che ciascuno è solo con se stesso, è certo che tenterà di pagare meno tasse possibili. Sono climi culturali: non siamo più educati a pensare che i bisogni collettivi (che implicano consumi collettivi) vadano finanziati con la finanza collettiva. Capisco anche che se le persone si ritrovano una burocrazia inefficiente che non le è d’aiuto ma d’ostacolo, si ribellano e non riescano a capire il valore del consumo collettivo. In più c’è chi soffia sul fuoco e non fa percepire i vantaggi di questi ultimi, dove ci sono e sono evidenti."
Una situazione sociale di frantumazione, con le grandi fabbriche e i quartieri operai che non ci sono più, obbligherebbe un partito di sinistra a lavorare molto di più nel sociale, perché la socialità, in un certo senso, va ricreata. La tendenza, invece, è stata esattamente contraria, un partito d’opinione, leggero, votato solo al governo del paese...
"Sì, e questo processo in Italia ha avuto accentuazione specifiche. Assecondando tendenze della società, l’appiattimento verso la "democrazia del pubblico”, come si dice, ha avuto la prevalenza. E stato teorizzato che il partito dovesse essere di fatto un partito d’opinione, diretto a un pubblico generico al quale, come dice Salvati, vende la sua mercanzia; quindi, un partito non particolarmente strutturato, leggero, affidato ai media (con tutto quello che ne consegue: di fatto etero-orientato dai media). La società si è vendicata, però. Perché poi non è che l’avvento dei media abbia cancellato le differenze sociali. Gli operai, per esempio, ci sono ancora anche se non con la forza, la coesione, il tipo anche di ideologia e di visione del mondo che avevano e potevano costituire il centro di coalizioni che lottassero per l’uguaglianza. In generale, non si sono cancellate le spaccature profonde nella società, anzi queste sono più forti di prima e non sono soltanto divisioni lavorative. C’è una parte benestante -un po’ favorita dalla globalizzazione, un po’ da altri processi di professionalizzazione legati all’informatica, alle professioni emergenti- che non ha problemi di qualità della vita. Ma c’è un’altra parte della popolazione che vive un disagio che non è solo nel luogo di lavoro (dove comunque contano le routine, conta la gratificazione, la minore sicurezza di stabilità, le prospettive lavorative di avanzamento di carriera per molti ridotte), ma anche nelle condizioni generali di vita relative ai trasporti, alla casa, all’ambiente in cui si vive, e tanto altro.
Sono differenze notevoli e questa parte sente ormai sempre più i propri destini staccati dalla parte più benestante. Si sta determinando una frattura vera, anche spaziale, perché chi vive in zone residenziali ed è istruito si sposa con chi vive in zone residenziali ed è istruito e chi vive in periferia si sposa con chi vive in periferia ed è sottoposto agli stessi processi culturali. Quel poco di mobilità sociale che assicurava la scuola oggi è ridottissimo. Se non c’è un partito politico capace di tradurre questo disagio in proposta di governo, in protagonismo politico per cambiare i meccanismi, quel disagio diventa protesta indistinta. Lo stiamo vedendo adesso, con l’affermazione dei populismi un po’ ovunque. Leggevo su un social un tizio che affermava, nell’ambito della polemica politica di questi giorni, che la sinistra non capisce che la classe operaia non c’è più e quindi non c’è più nemmeno la lotta di classe e, non essendoci la lotta di classe, la sinistra insegue dei fantasmi. La presentava come un’analisi sociologica profonda, come se tutto ruotasse attorno alla classe operaia. Ma dico, le spaccature di questa società che sono così profonde non le vedete? Certo non sono classi come le abbiamo intese noi nella nostra tradizione, "classe in sé”, "classe per sé”; ora sono una serie variegata di gruppi sociali, di situazioni sociali, caratterizzati dall’assenza di identità specifica (men che meno collettiva) dove poi, come sempre avviene, ciascuno se la prende col gruppo che sta sotto, non con quello che sta sopra. Però è vero anche che i processi culturali sono stati lasciati a se stessi perché una proposta aggregante, un lavoro di educazione, una mobilitazione, una riappropriazione di questo disagio alla politica non li abbiamo più avuti. Il partito liquido ha portato a questo. Manca un elemento pedagogico. Si è soli con se stessi nel giudizio sulla società e quindi preda dell’antipolitica. Basta guardare i social per vedere quale dovizia di discussioni e di giudizi politici vi sia, ma che vanno tutti per conto loro senza ossatura (e si tratta di una parte più acculturata della popolazione). È un grande fatto democratico, però, nello stesso tempo, testimonia di un qualcosa che si sta sfilacciando nella consapevolezza collettiva dei problemi."
Parlando di valori dominanti, anche la ricchezza è diventata un valore...
"Sì, questo si sta verificando e fa parte di una cultura antropologica diffusa. La ricchezza è un valore, e va perseguita, e se non la raggiungo è colpa mia, non dei meccanismi della società. Sono io che non sono riuscito a "sfangarla”. Se voglio, posso risolvere tutto individualmente, emigrando, facendo altro, attivandomi; si è perso il valore collettivo della lotta insieme ad altri che si riconoscono come appartenenti a una stessa situazione sociale, per cambiarla. Ora ognuno vuole cambiare per conto suo la propria condizione, perseguendo ciò che la società e i valori dominanti gli propongono, e se non ci riesce perde pure l’autostima.
Però è anche vero che esiste un altro pezzo di società, quella che si esprime nel terzo settore, nel volontariato, che non è piccolo e non è soltanto di testimonianza, anzi. È molto esteso, e comprende persone che si spendono per gli altri e conservano una visione comunitaria. Lì si esprime un altro tipo di umanità, che viene in essere spontaneamente, forse come reazione al materialismo diffuso. Certo, individualmente in quell’area operano prevalentemente orfani della sinistra, ma questo mondo non riesce a trasferire i principi e i valori che lo muovono fuori dal suo raggio di azione, travasandolo nella società, in un progetto politico. E forse non sta nemmeno a loro concepirlo.
Se pensiamo alle lotte operaie degli anni 50-60, un conto era che ciascuna fabbrica lottasse per conto suo, altro conto era dare un raccordo a quelle lotte e fare diventare i protagonisti soggetti politici e portarli a un livello di consapevolezza sociale che investiva la società come un tutto. È ciò di cui abbiamo bisogno in relazione a questo mondo. In definitiva, c’è una società che si sfrangia, perde tessuti connettivi, però c’è anche una parte che lavora a ricomporla, e che andrebbe rappresentata politicamente, ma tutte le volte che si ha occasione di parlare con suoi esponenti si scopre che non si sente rappresentata politicamente. Torniamo, al solito, alla politica, al partito…"
Il volontariato, quindi. Tu nel libro parli di cooperazione, anche di mutualismo, e però vedi un ruolo molto forte del centro...
"Molti studiosi della società pensano che non ci sia altra strada che costruire dal basso iniziative e aggregazioni politiche. Però costruire dal basso, se fosse solo questo, implica anche una diagnosi pessimista che punta a mantenere una coscienza viva in attesa che una crisi della società produca le opportunità politiche. C’è al fondo uno scetticismo sulla possibilità di cambiare le cose altrimenti. Io penso, invece, che le due cose, costruzione dal basso e utilizzo dello Stato, dovrebbero andare assieme nel senso che ci vuole sempre un progetto che unifichi, anche quando non c’è un partito o una coalizione che abbiano la forza di far avanzare realisticamente e significativamente un disegno alternativo per la società. Molte delle realizzazioni sociali, di trasformazione della realtà, si possono avere soltanto attraverso l’azione pubblica. Così come attraverso l’azione pubblica sono stati difesi e fatti valere diritti sociali, civili, eccetera, eccetera. Per me le due cose devono andare assieme; almeno penso che il compito degli intellettuali sia di armare una classe politica a concepire un disegno complessivo per la società."
Tu descrivi una serie di misure economiche.
"Siamo molto vincolati dall’Europa. Come forza politica singola -quale che sia questa forza rappresentativa della sinistra- certo non possiamo incidere molto e dare i compiti all’Europa, però mi sorprende molto che le forze socialiste, anche quelle molto critiche verso l’Europa, non chiamino a raccolta le altre forze socialiste.
L’Italia ha avuto una contestazione con l’Europa, ma per cosa? Per ottenere la possibilità di spendere di più, non per cambiare i meccanismi. Certamente come paese siamo molto vincolati. Non possiamo aspettarci di poter svolgere politiche per la piena occupazione, né possiamo però aspettarci di cambiare molti criteri. Comunque, non è che in attesa di Godot non ci sia nulla da fare. Per quanto vincolato, non è vero che lo Stato nazionale sia morto. Lo Stato nazionale è ancora responsabile della coesione sociale, dello spazio pubblico, della fiscalità interna (parzialmente); è responsabile dell’assetto amministrativo, del tipo di rappresentanza. Insomma, si fa presto a dire "è morto”! Qualche alternativa c’è sempre, anche nelle politiche macroeconomiche.
Io penso che una forza di sinistra debba entrare nello specifico dei meccanismi. Difficile avere l’idea-chiave risolutiva e mobilitante. Bisogna governare questa società andando nello specifico. Non possiamo pensare di governare il Mezzogiorno attraverso incentivi. Bisogna piuttosto coordinare le Regioni con progetti di investimento specifico, vedere, che so, perché i porti non sono connessi ai centri turistici, chieder loro perché non funzionano le aree industriali, il trasferimento tecnologico e quant’altro. E, ovviamente, aiutarle. È tutto un lavorio da fare, di manutenzione.
Pensiamo alle riforme: ormai "riforma” è diventata una parola mitica. Non sappiamo più nemmeno che aggettivo metterci dietro. Il problema invece è governare effettivamente, fare politiche industriali. Possibile che non siamo riusciti ancora a informatizzare il paese?! Di fatto l’informatizzazione non è ancora partita, anche se qualcosa si muove dopo anni persi e dopo la privatizzazione di Poste, che, invece, avrebbe potuto essere un perno di questo progetto (mentre ora, privatizzata, si mette nel business della gestione dei patrimoni privati).
Poi dobbiamo capire dove vogliamo andare. Non c’è mai stato un dibattito, e questo è anche responsabilità della sinistra del Pd che non l’abbia aperta. Che cosa ne facciamo di questo paese? Portiamo a sistema le piccole imprese? Rafforziamo quel poco di industria pubblica che ancora c’è? Facciamo dell’Italia un hub della logistica nel commercio internazionale? Ne facciamo il centro di un rapporto dell’Europa col Mediterraneo? Ognuna di queste scelte porta delle conseguenze.
Non vedo un’idea specifica per la pubblica amministrazione, che pure dovrebbe essere l’ossatura di un progetto di governance nel merito. Quando si fa una riforma dell’amministrazione contro i dirigenti in una visione organica della pubblica amministrazione, non si va lontano. Al contrario, occorrerebbe entrare nella realtà specifica di ogni amministrazione, prevederne un governo secondo le sue regole specifiche, senza mortificare, anzi, dando responsabilità a chi la dirige, individuando la missione e casomai ricorrendo a una formazione permanente.
È ovvio poi che ci sono dei criteri minimi da rispettare: non sprecare i soldi, metterli in progetti che accrescano il capitale fisso sociale e il capitale sociale tout court; vedere sempre nel lungo periodo cosa questi progetti possono dare. Invece abbiamo sprecato molti soldi, anche quando presi a prestito. Questa vicenda referendaria è stata un disastro dal punto di vista di una sensata politica economica perché ha reso necessario comprarsi i voti attraverso una politica di bonus: se hai le scarpe nere hai diritto a un bonus! Se te le allacci il bonus cresce. Se uno va sul sito del Ministero e vede l’insieme di incentivi che sono stati concepiti e per quali azioni (molte volte per azioni che le imprese avrebbero intrapreso comunque) capisce cosa voglio dire. Bisogna concepire una strategia.
Anche gli 80 euro rientrano in questo, anche se non riesco a condannarli completamente. Ma molti miei amici e colleghi invece sì, perché, se messi su un piano di investimenti, avrebbero creato più occupazione, sostenuto la domanda, cambiato le aspettative; avrebbero costituito forse quella svolta per l’Italia; svolta che invece non c’è stata. Si poteva prevedere che i trasferimenti dati in questo modo non avrebbero generato un equivalente di consumi. Capisco anche che un governo si voglia accreditare con una politica accattivante, però è costata tantissimo e non c’è stata nessuna analisi costi-benefici. Ma il guaio vero è stato perseverare, andando alla ricerca dell’idea geniale che accattivasse una serie di ceti sociali."
Anche la detassazione sulla prima casa...
"La prima casa, certo, poi abbiamo ridotto la tassazione alle imprese dal 27% al 24%, per non parlare della quantità di soldi che stanno andando ai privati nell’informatizzazione, dove forse il governo avrebbe potuto agire in proprio."
Il federalismo, il decentramento non potrebbe essere una soluzione?
"L’esperienza ha dimostrato che non è così. Qui entrano in gioco di nuovo i "liberali per disperazione”. Insomma, se c’è stata una classe politica complessivamente inadeguata quella a livello regionale è stata la peggiore. Le regioni sono importanti, ma penso che una governance centrale ci debba essere proprio per ciò che dicevo prima. Non possiamo avere ventuno politiche industriali diverse per le piccole imprese, gli insediamenti, le aree industriali, la ricerca applicata, ecc. C’è bisogno di un coordinamento perlomeno di qualcuno capace di diffondere le best practices, cioè le azioni che hanno funzionato, e non far ripetere gli errori che sono stati fatti.
Va concepito in molti campi un disegno centrale che poi affidi compiti alle regioni. Ci vuole la forza propulsiva di uno Stato centrale dotato di visione. Solo così il decentramento diventa qualcosa di efficiente, propulsivo. Invece, abbiamo lasciato le regioni sole con se stesse, e ognuna s’è inventata quel che si poteva inventare. Devo confessare che la parte della riforma costituzionale che ricentralizzava molte funzioni verso l’Amministrazione centrale non mi trovava in disaccordo."
Ma come ci si può difendere, nella scena internazionale, da una competizione al ribasso che è formidabile?
"Qui entra in gioco sempre la Corte di giustizia dell’Aja che ha cancellato molte misure di intervento per paura che ci fosse qualche contraddizione con la libertà di stabilimento o di movimento di persone, cose e capitali. L’Italia aveva concepito la sua exit tax: se te ne vai, mi restituisci quello che ti ho dato. Oggi leggevo un’interrogazione avanzata da una senatrice riguardante una fabbrica che ha vissuto anche di prebende statali e che ha deciso di andare in Polonia licenziando 160 persone nel suo territorio. Non è una fabbrica in crisi, fa profitti, ma si giustifica parlando di riduzione della domanda interna, mentre in realtà vive del 75% di esportazioni. Insomma, non è una giustificazione. Vanno via per fare più profitti. Lo Stato deve poter pretendere che quello che ha dato per far prosperare un’attività gli venga restituito. Non ha messo solo soldi diretti, ma formazione, infrastrutture e quant’altro.
Adesso è anche vero che i salari cinesi stanno aumentando, ma perché si portino a livelli non competitivi ci vorranno ancora 30-40 anni. Tuttavia, vanno registrati anche fenomeni di rientro volontario visto che tante fabbriche che hanno internazionalizzato hanno mantenuto buona parte della produzione in Italia, l’hanno rafforzata e sopravvivono tranquillamente. Evidentemente questo è indice del fatto che non siamo destinati a perdere tutta la nostra industria. Molte volte, poi, chi se ne va via lo fa anche per sfuggire alla burocrazia.
Penso che la chiave stia nella capacità di salto tecnologico delle imprese. Dovremmo aiutarle in questo senso. Alcune ce la fanno da sole, però la ricerca pubblica latita. Prendiamo la Germania: perché è così forte? Perché c’è un sistema che gira a tutto tondo per proteggere e promuovere la competitività, dal modo con cui predispongono le scuole professionali, a quello in cui concepiscono l’apprendistato (che non è una forma di contratto ma un canale di formazione che fa parte dell’iter scolastico), per arrivare alle università, dove hanno un sistema di lauree più vicine alla creazione di professioni di alto livello; c’è, poi, l’Istituto statale di ricerca che produce piattaforme tecnologiche aperte e aiuta le piccole e medie imprese nel trasferimento tecnologico.
Dovremmo fare qualcosa vicino a tutto questo, da laboratori di sostegno ai distretti nella ricerca applicata a una ricerca di altissima qualità che competa nei bandi internazionali e sia indirizzata a progetti strategici. Il nostro modello di ricerca pubblica non è definito: abbiamo perso le imprese che facevano ricerca, perché erano quelle poi privatizzate, e non siamo riusciti a ricreare un modello coerente. Forse una cosa buona che ha fatto il governo Renzi è stato creare un’alternativa scuola-lavoro. Ma di istituti intermedi che creano professioni di alta specializzazione ce ne sono 7-8 in Italia, non di più, e anche all’università il triennio è propedeutico alla specialistica e quello professionalizzante non decolla. È questo che intendevo prima quando affermavo che c’è una governance dei processi che ci manca. Ma la classe politica è stata impegnata nel referendum o a sopravvivere a se stessa."
Tu vedi delle possibilità, vedi una strada. Ma vieni sentito dalle forze politiche? Ti chiamano?
"Adesso tengo in piedi un network di studiosi che un minimo di attenzione la riceve. Ma faccio un esempio: sono stato chiamato una volta in un seminario tematico della sinistra riformista, quella bersaniana. Un bel seminario, in cui ho parlato più o meno, ma in dettaglio, di queste cose che ti ho esponevo, mentre Trigilia ha parlato delle città e di politiche centrate sulla riqualificazione urbana, Viesti del Mezzogiorno.
Quello che abbiamo scritto e mandato è apparso per due giorni sul sito della sinistra riformista poi è sparito, non aveva più un rimando dalla homepage. Il sito era pieno di notizie tipo il discorso dei vari leader qui e lì per l’Itala, l’intervista a quel o quell’altro dirigente politico sulla politica contingente (a suo tempo sulle ragioni del no). Beh, insomma, questo mi ha fatto un po’ arrabbiare. Anche dal punto di vista strettamente strumentale, sarebbe stato necessario far vedere che si stava pensando all’Italia in termini strategici. Quelle indicate non saranno le linee da seguire, non saranno niente, ma sono un primo ragionamento che avrebbe consentito di mostrare che c’era un settore politico che stava guardando in avanti. E invece no, quelle relazioni non si trovano più. Né citate, né c’è traccia di un altro incontro tematico. Solo dichiarazioni e discorsi dei leader. Ecco, è un po’ tutto così. Non è che non ti chiamino: ti chiamano in funzione del consumo di quella tua riflessione in quel momento. Questo mi fa soffrire perché sono legato a quella sinistra e vedo questo eccesso di attenzione al contingente e alla "politica” come difetto che indubbiamente c’è stato e che li fa trovare più deboli nella scissione."
Fonte: unacitta.it
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