di Virginia Negro e Paolo Marinaro
Se me olvido otra vez que solo yo te quise (Mi sono dimenticato di nuovo che solo io t’ho amato), cantava l’idolo messicano Juan Gabriel in una delle sue più struggenti canzoni d’amore. Un verso che sembra un grido lanciato oltre al muro, al paese vicino. Infatti, anche quella tra Stati Uniti e Messico è sempre stata una relazione di dipendenza, economica prima di tutto, una storia di sudditanza tra una moneta forte e una debole, di vicinanza, di necessità ma anche di diniego. Mai come oggi, all’alba della vittoria di Donald Trump, il rapporto tra le due culture si è mostrato in tutta la sua difficile complessità. L’ultimo presidente USA ha vinto le elezioni anche grazie ad una campagna anti-latinos e a promesse politiche di stampo razzista.
Zacatecas è lo stato del sale, delle miniere di argento e degli internet point. Nel municipio di Nochitlan è difficile incontrare uomini tra i 20 e i 40 anni, la città è in mano alle donne e il censo indica ogni anno un abbassamento della popolazione. Le coppie si parlano per skype, e i figli si educano al telefono. Huimilpan è una cittadina nello stato di Queretaro di 35.000 abitanti. Quest’anno dati di INEGI (l’Istituto nazionale messicano di statistica) parlano di 12.000 persone residenti negli Stati Uniti. Humilpan si aggiunge alla lunga lista delle città messicane governate dalle donne, e non perché finalmente si sia abbattuto il patriarcato, semplicemente perché gli uomini sono una netta minoranza.
La mano invisibile che muove l’economia di queste terre è quella dei migranti, che attraversando il confine ogni anno inviano 2 500 milioni di dollari allo Stato messicano, facendo sì che le rimesse di questi ultimi siano la maggior fonte di ingresso del paese, davanti anche all’esportazione del petrolio. Con i dollari che vengono mandati a casa ogni anno sopravvivono intere famiglie, e addirittura interi paesi. A Zinapecuaro, Michoacan, hanno asfaltato le strade, ristrutturato scuole e ospedali, grazie al capitale migrante, che ha reso possibile costruire infrastrutture necessarie ma anche dare lavoro alla popolazione locale. Michoacán e Zacatecas non sono le sole regioni che vivono delle rimesse, secondo dati della Banca Nazionale Messicana anche Guanajuato, Jalisco, Estado de México e la capitale del paese fondano la loro economia sui dollari mandati alla famiglia da chi ha attraversato il confine.
Inoltre, Trump ha proposto una riforma della legge antiterrorismo conosciuta come Patriot Act che prevede che solo chi si trova in possesso di un regolare permesso di soggiorno possa effettuare operazioni e trasferimenti bancari. Buona parte dei 24.000 milioni di dollari che ogni anno arrivano dagli Stati Uniti provengono da migranti messicani senza un regolare permesso di soggiorno. Durante la sua campagna elettorale Donald Trump dichiarò che questa riforma non è che il dazio che Messico deve pagare per non volersi assumere la responsabilità di costruire il famoso muro.
«Sarà complicato per il governo Trump rendere effettive queste misure», afferma Marco Antonio Castillo, leader dell’associazione messicana APOFAM, Assemblea Popolare delle Famiglie Migranti, «il progetto del presidente nordamericano è poco chiaro e soprattutto poco realistico, i controlli si concentrerebbero soprattutto sulle grandi imprese di invio commerciale come ad esempio Western Union: finalmente le rimesse verrebbero comunque mandate tramite agenzie meno conosciute o per vie informali. Quello che più spaventa è il discorso xenofobo».
«Viviamo in una piccola comunità rurale: Guadalupe Peñazco, Oaxaca. Qui, nei nostri monti d lavoro ce n’è poco, per questo i nostri mariti, i nostri fratelli emigrano da quando ne ho memoria. Partono per il nord, verso Florida, Minnesota, Wisconsin. Alcuni mandano soldi ogni mese, altri invece abbandonano le loro mogli e i loro figli, chissà formano un’altra famiglia, un’altra vita, e dimenticano quello che hanno lasciato qui» racconta una ragazza di origine mixteca della comunità che lavora nella cooperativa tutta al femminile «Ñaa Ka Jani, mujeres soñando», dove una cinquantina di donne di tutte le età producono artigianato che poi vendono nei mercati dei villaggi vicini. «In comunità riusciamo a sostenerci. Inoltre, è una forma per rivendicare le nostre origini mizteche: la cooperativa è un simbolo di identità collettiva».
Un ulteriore problema che nasce con la migrazione soprattutto maschile verso gli Stati Unti è il tema delle malattie a trasmissione sessuale. «C’è stato un enorme aumento dei casi di aids ed altri virus sessualmente trasmissibili, perché al ritorno, molti uomini che hanno contratto il virus avendo rapporti non protetti negli Stati Uniti, infettano la compagna senza neanche saperlo», spiega Marco Antonio Castillo.
Maria del Carmen Mata è originaria dello Stato di Oaxaca, ma come tanti altri braccianti messicani, all’età di nove anni si è’ trasferita insieme alla sua famiglia al nord del Paese, in Baja California. Maria ha vissuto una vita da nomade, migrando costantemente fra diverse regioni, spesso fra gli Stati Uniti e il nord del Messico, seguendo le stagioni dei raccolti. Fin dalla sua infanzia è stata vittima del sistema di caporalato che regola le relazioni lavorali dei braccianti, ma l’anno scorso ha partecipato alla protesta organizzata dai lavoratori giornalieri di San Quintino, Baja California. «Il 17 di marzo ci siamo uniti con la pretesa di un aumento salariale, di ottenere alloggiamento degno per i lavoratori, con acqua potabile, elettricità, fognature e strade asfaltate. Vogliamo essere trattati come esseri umani».
Lo sfruttamento e gli abusi che vivono i braccianti di San Quintino, secondo il comunicato dell’organizzazione, sono conseguenza del trattato NAFTA, che libera le imprese dalle proprie responsabilità sociali e sindacali. Durante le manifestazioni dell’anno scorso i contadini messicani sono stati repressi violentemente dalla polizia, dall’esercito, da uomini di imprese agricole e sindacati, che hanno sparato sui manifestanti in diverse occasioni. Maria, durante un incontro presso l’Università della California Berkeley, ha convocato i cittadini e i movimenti sociali statunitensi a promuovere il boicottaggio della Driscoll, che produce more e frutti di bosco, una fra le più grandi delle 26 imprese nazionali e transnazionali che impiegano circa 80.000 braccianti, originari dello Stato di Oaxaca, Guerrero, Veracruz e Chiapas, soprattutto indigeni Trichi, Mistechi e Zapotechi.
«Ci sono sempre più casi – soprattutto nelle comunità toccate da disastri naturali come Guerrero – di intere famiglie che migrano insieme. Una volta superato il confine, spesso vengono divise. La tragedia è quando i genitori vengono deportati in Messico e i figli, minori, affidati a delle strutture statunitensi», continua Castillo. Vere e proprie odissee familiari, spesso per trovare lavori umili, irregolari che non permettono una vita dignitosa, storie di esistenze che per necessità lasciano le origini, dimenticano le loro tradizioni oltre che i loro affetti. «Anche il ritorno è spesso problematico. Sradicati per anni, a volte decenni, basta immaginare… Figli che non li riconoscono, mogli che hanno altre relazioni: insomma, famiglie disintegrate». Ma anche davanti a queste conseguenze il flusso migratorio più grande del mondo non sembra volersi fermare, «il muro non sarà certo un deterrente efficace alla miseria da cui scappano intere comunità», conclude Castillo.
Fonte: operaviva.info
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