di Andrea Fabozzi
Il decreto Minniti-Orlando è legge. I numeri della camera all’ultimo passaggio dicono questo: l’Italia ha introdotto nel suo ordinamento un rito processuale di serie B, con meno garanzie, che sacrifica i diritti universali di una categoria particolarmente debole, i richiedenti asilo, grazie a una maggioranza molto scarsa, appena sufficiente, e garantita da un solo partito: il Pd. Neanche tutto il Pd, visto che all’appello sono mancati circa ottanta deputati del gruppo, prova tangibile dei malumori provocati dalla stretta repressiva. Alla fine i sì al decreto, dopo che martedì era passata la fiducia al governo legata al provvedimento, sono stati 240, molto al di sotto della teorica maggioranza di governo e anche della maggioranza assoluta. Se la legge non è stata fermata è stato ancora una volta per il largheggiare delle «missioni» e le assenze delle (teoriche) opposizioni, Forza Italia soprattutto con più di mezzo gruppo a spasso, ma anche Fratelli d’Italia. Conferma indiretta dell’apprezzamento di cui gode Minniti a destra.
Molti assenti (un terzo) anche nel gruppo 5 Stelle, ma i grillini ieri hanno fatto notizia più per le dichiarazioni anti rumene di Di Maio. Dei 240 sì, ben 205 appartengono al Pd, il resto è contorno centrista – e pure da quelle parti prevalevano gli assenti. Nella calda mattinata di ieri era più facile incontrare deputati in giro per la città tra bar e musei che in aula, dove è stato convertito un decreto che scardina il principio dell’uguaglianza davanti alla legge. Ma a finire sotto accusa è stato il gruppo Mdp-Articolo 1, bersaglio degli attacchi dei renziani. I deputati bersanian-dalemiani ex Pd ed ex Sel hanno votato no alla legge, come annunciato martedì quando invece si erano divisi sulla fiducia, con gli ex democratici che non se l’erano sentita di negare l’appoggio al governo. Ieri invece sono rimasti più o meno uniti, dal no della maggioranza del gruppo si è distinta una pattuglia di otto deputati che preferito la mossa più soft di non partecipare al voto.
Un attimo dopo l’approvazione, il capogruppo del Pd Rosato ha sorvolato sulle assenze dei suoi deputati ma ha attaccato Mdp, definendo «inaccettabile» il voto contrario di un partito che fa parte della maggioranza. «Se vogliono destabilizzare la legislatura lo dicano espressamente – ha detto – sono sulla strada giusta per farlo, i decreti sono un pezzo dell’azione di governo». Insomma, la colpa delle fibrillazioni attorno a Gentiloni non è della voglia di Renzi di correre alle urne, ma dei bersaniani. Che hanno risposto tentando di spiegare il differente atteggiamento tra camera e senato, dove avevano votato sì alla fiducia e dunque al decreto: «C’era l’impegno a modificarlo alla camera, ma ci è stato impedito», ha detto il capogruppo Laforgia. Un ragionamento del genere sta dietro le assenze «politiche» dei deputati Pd, anche se pochi – Bruno Bosio, Monaco – hanno reso pubblico il dissenso.
Lo hanno fatto invece al senato Manconi e Tocci, anche loro del gruppo Pd, che non hanno partecipato al voto sulla fiducia con la quale ieri, parallelamente, si è compiuto il ciclo dell’altro decreto Minniti, quello sulla sicurezza urbana, ugualmente contestato da giuristi e associazioni. Anche in questo caso nessun dibattito vero, nessuna modifica possibile e volontà del governo blindata con la fiducia. E ancora numeri molto bassi, solo 141 sì, un altro record negativo per l’esecutivo Gentiloni. Sufficiente però per andare avanti, calpestando diritti e garanzie.
Fonte: Il manifesto
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