di Progetto Rebeldía
L’approvazione dei Decreti Legge nn. 13 e 14 dello scorso febbraio, che portano le firme del Ministro degli Interni Marco Minniti e di quello alla Giustizia Andrea Orlando, a soli tre giorni l’uno dall’altro, sancisce un ennesimo punto di non-ritorno. Ancora una volta il centro-sinistra – i “moderati”, i “progressisti” o che dir si voglia -, non solo sceglie di inseguire le destre sul terreno securitario del “sorvegliare e punire”, ma addirittura supera e inasprisce il terreno già seminato dal Decreto Sicurezza di Maroni del 2008. Nel 2009 il sociologo francese Loïc Wacquant pubblicava un libro dal titolo “Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale” dove evidenzia il sistematico nesso tra la distruzione dello “stato sociale” e il rafforzamento dello “stato penale”.
Studiando le trasformazioni del sistema carcerario statunitense, soffermando lo sguardo anche su quelle degli stati europei in ottica comparativa, Wacquant osserva come lo smantellamento progressivo del “welfare state” venga accompagnato, nonostante la retorica anti-statista e anti-welfare del neoliberismo, da un intervento sempre più massiccio dello stato nella gestione della sicurezza pubblica. In poche parole, lo stato neoliberista si sottrae dall’ottemperare ai suoi compiti nei confronti della “res publica” per liberare da lacci e lacciuoli l’indole più selvaggia del mercato, affinché sia possibile l’espandersi dei dispositivi penali per gestire le conseguenze sociali generate dalla disfunzionalità del mercato. A partire da questa situazione, emerge una nuova moralità pubblica, riflessa nelle logiche della punizione e dell’incarcerazione, che vede i gruppi meno abbienti come soggetti falliti nei loro progetti personali, individui parassitari e pericolosi per la coesione pubblica.
Studiando le trasformazioni del sistema carcerario statunitense, soffermando lo sguardo anche su quelle degli stati europei in ottica comparativa, Wacquant osserva come lo smantellamento progressivo del “welfare state” venga accompagnato, nonostante la retorica anti-statista e anti-welfare del neoliberismo, da un intervento sempre più massiccio dello stato nella gestione della sicurezza pubblica. In poche parole, lo stato neoliberista si sottrae dall’ottemperare ai suoi compiti nei confronti della “res publica” per liberare da lacci e lacciuoli l’indole più selvaggia del mercato, affinché sia possibile l’espandersi dei dispositivi penali per gestire le conseguenze sociali generate dalla disfunzionalità del mercato. A partire da questa situazione, emerge una nuova moralità pubblica, riflessa nelle logiche della punizione e dell’incarcerazione, che vede i gruppi meno abbienti come soggetti falliti nei loro progetti personali, individui parassitari e pericolosi per la coesione pubblica.
Dentro questo tracciato, lo stato neoliberista esonera sé stesso dalle responsabilità di non aver saputo contenere la galoppante ineguaglianza socio-economica, poiché è la punizione dei poveri che diventa autentica “politica sociale”. Nelle prigioni si moltiplicano le “vite di scarto” escluse dal magico mondo del mercato. L’imperativo assoluto è far scomparire dagli occhi del cittadino-consumatore quelle marginalità che si potrebbero incontrare nello spazio pubblico, nelle strade e nelle piazze.
Si esalta il “decoro” delle piazze a scapito della possibilità di attraversarle socialmente; la “bonifica” delle aree degradate e delle periferie” diventano la stella polare di una visione politica “sanitaria” dello spazio urbano. Il mantra di Matteo Salvini della “ruspa” e del “fare pulizia”, in realtà, non è affatto un rigurgito verbale proto-fascista di un’intolleranza di destra, ma sempre più la cifra qualificante delle politiche di sicurezza, ormai spacciate anche per politiche “sociali”, promosse sia dalle destre che dal così detto centro-sinistra.
I ministri Orlando e Minniti sostengono che la sicurezza è a tutti gli effetti un “bene pubblico”, per questo la sua continua garanzia, per risolversi, ha necessità di alimentare un paradosso, ovvero l’espulsione dalla società di coloro che il sistema stesso non è più in grado di includere. Il Governo si preoccupa quindi di muovere guerra nei confronti dei poveri, degli ultimi e degli emarginati.
Minniti e Orlando hanno ribadito come “sicurezza” sia una parola di sinistra (sic!) e in un periodo di ripiegamenti dovuti alla morsa della crisi, di fronte alla necessità di giustizia sociale ed equità, rispondono con politiche securitarie che non trovano alcuna giustificazione se non inseguire slogan populisti e razzisti, nella costante paura di non essere più rieletti.
La parola “Sicurezza”, checché ne dicano Minniti e Orlando, nel dibattito pubblico e nella percezione individuale, richiama alla mente di tutti politiche populiste, autoritarie e di destra: dalla Turco-Napolitano, passando per la Bossi-Fini fino al pacchetto sicurezza di Roberto Maroni. Dobbiamo pertanto dire chiaramente che non ha nulla a che fare con l’inclusione, la solidarietà, l’uguaglianza e con l’estensione dei diritti, né tanto meno con la giustizia sociale.
I Decreti Minniti-Orlando
1) Punire i poveri:
il Decreto n. 14 attacca duramente “accattoni”, “rovistatori” e i più emarginati dalla nostra società. Chi viene dai margini viene criminalizzato per la sola ragione di essere povero: pertanto chi vive fuori dal mercato del lavoro è privato di ogni diritto umano. Il neoliberismo non ammette l’appropriazione di un bene fuori dalle regole del mercato e per questo viene sanzionato l’accattonaggio, invece di immaginarsi forme di inserimento di soggetti svantaggiati in un circuito virtuoso.
Ma chi ha determinato l’aumento della povertà e quindi il moltiplicarsi di situazioni di marginalità e vulnerabilità se non appunto i governi di questi anni, di cui Minniti e Orlando hanno fatto parte? Appare qui più facile e utile eliminare dalla vista di tutti il prodotto delle loro politiche, o anche quello che potrebbe capitare ad ognuno di noi, a causa di quelle stesse politiche, perché non possa venire alla mente di voler cambiare e immaginarsi una vera e praticabile alternativa.
2) I sindaci sceriffi e “legibus solutus”:
A far rispettare i divieti ci penserà il sindaco sceriffo, una figura che viene di fatto istituzionalizzata allargandone poteri e discrezionalità in materia di ordine pubblico e sicurezza urbana, al termine di un lungo processo iniziato oltreoceano a fine degli anni ’90 con il mantra della “Tolleranza Zero” del sindaco di New York Rudolph Giuliani e subito applicato da sindaci leghisti come il trevigiano Giancarlo Gentilini o gli ex-comunisti Dominici a Firenze e Zanonato a Padova.
Ci troveremo di fronte alle ordinanze “capriccio” dei fantasiosi sindaci che promulgheranno ordinanze al fine di accontentare le pulsioni più varie di parti di quello che vedono ormai solo come elettorato. Un modo solo per nascondere questioni o problematiche, senza realmente affrontarle e risolverle.
3) Daspo Urbano, occupazione di immobili e repressione del dissenso politico:
Gli stadi sono da sempre un laboratorio di repressione che si sta allargando al resto della società, infatti il così detto Daspo metropolitano applica un dispositivo, ideato e sperimentato nelle curve di tutta Italia, a chi manifesta. Una logica che abbiamo recentemente visto all’opera lo scorso 25 marzo nella capitale, in occasione delle manifestazioni per la celebrazione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, quando decine di manifestanti hanno ricevuto fogli di via preventivi, dal territorio romano, senza nemmeno poter arrivare in città e manifestare. Un provvedimento che potrà essere applicato a chi viene denunciato o fermato per reati minori, ma anche per chi sostiene la lotta per il diritto all’abitare, dei lavoratori in sciopero o promuove le lotte collettive per il riuso e il riutilizzo degli spazi abbandonati. Un obiettivo chiaro è quello di punire, preventivamente, il dissenso o l’alternativa di chi cerca invece di estendere diritti e verificare quella giustizia sociale, di cui ormai l’Italia ha abbandonato il senso e l’importanza.
4) I richiedenti asilo:
a loro è dedicato il primo dei due decreti che si occupa di accelerare i procedimenti giurisdizionali volti al riconoscimento dello status di rifugiato e di contrastare l’immigrazione clandestina. Siamo di fronte all’azzeramento di una serie di diritti costituzionalmente garantiti, su tutti, la giurisdizionalizzazione delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione e l’abolizione del secondo grado di giudizio. La prima previsione contrasta con l’art. 111, secondo comma della Carta costituzionale, secondo cui ognuno ha diritto a un giudice terzo e imparziale. Le Commissioni non possono evidentemente assurgere a tale compito, trattandosi di organismi a tutti gli effetti interni alla Pubblica Amministrazione. Quanto, poi, all’abolizione del secondo grado, basta richiamare l’art. 113 Cost., che non ammette vengano limitati in alcun caso i mezzi di impugnazione esperibili avverso i provvedimenti amministrativi. Infatti, per i richiedenti asilo non sarà più garantita l’audizione da parte del Giudice, il quale potrà limitarsi a visionare la videoregistrazione dell’audizione in Commissione territoriale. Ciò contrasta con uno dei principi cardine del nostro ordinamento giuridico, il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento assicurato dall’art. 24 della Costituzione ed il diritto al Contraddittorio ex art 111 Cost.. Il processo si svolgerà quindi alla stregua di una volontaria giurisdizione ai sensi dell’art. 737 c.p.c., senza udienza, senza partecipazione, senza avvocati. Una riforma così non riuscì neppure al Governo Berlusconi, il quale aveva nella Lega Nord di Bossi e Maroni il suo pugno di ferro più violento.
5) L’aumento dei CIE:
questo criminale dispositivo d’internamento amministrativo di cui conosciamo bene le aberrazioni di cui sono stati negli anni portatori, viene rivitalizzato con la nascita dei CPR (Centri di permanenza e rimpatrio). Non è chiaro quale sia la differenza con gli attuali CIE, ma ne viene disposta la nascita di uno a regione, nei pressi o addirittura all’interno degli aeroporti. Un dispositivo che vuole mirare all’efficienza e alla celerità dei rimpatri e delle espulsioni, a discapito ovviamente delle garanzie giuridiche e dei diritti dei richiedenti asilo. Viene quindi riproposto un luogo di confinamento, internamento e repressione che non poggia su alcuna base giuridica, comminando la detenzione amministrativa.
6) Il lavoro gratuito e l’istituzionalizzazione per legge dello sfruttamento:
il lavoro gratuito per i rifugiati diventerà legge, chi scappa dalla guerra e dalla fame, solo per citare alcune delle cause dei flussi migratori, se vuole restare se lo deve meritare, nella perversa logica di barattare i diritti con un presunto “merito”. A questo punto i diritti divengono a tutti gli effetti privilegi. La pericolosità di questo dispositivo che istituzionalizza una nuova forma di schiavitù, è evidente sia in termini di diritto del lavoro che di ricaduta sulla “percezione dei fenomeni”, a cui si dà sempre molta importanza e per cui viene da pensare che sia voluto e intenzionale inasprire la “guerra tra poveri” e instillare odio e intolleranza verso la componente migrante e richiedente asilo della cittadinanza.
Il decreto appena approvato dunque, non solo non offre nessun tipo di risposta ai problemi che si prefigge di risolvere, ma riesce a far ammettere ancora una volta ad un governo (che ha la pretesa di essere) di “sinistra” una scelta securitaria, repressiva e, su molti aspetti, anche chiaramente anticostituzionale. Non una parola in termini di welfare, di possibilità di miglioramento dell’accoglienza, sulle esperienze di integrazione buone e giuste che ci sono state e continuano ad esserci in Italia; neanche una singola parola sul malsano utilizzo del concetto di “sicurezza” che colpisce senza alcun ritegno ancora i più deboli e permette ai sindaci di poter gestire la cosa pubblica come se tutto ruotasse attorno all’ordine e alla lotta al degrado. Si lascia il problema com’è e si acuisce la rabbia, l’odio e il disprezzo, che sia questo rivolto verso un immigrato o verso una famiglia sfrattata, o verso chi continua a voler fare sentire la propria voce tramite il dissenso e azioni di autodeterminazione e di informazione. Nessuna propositività, nessun impegno a lungo termine, ma solo un altro muro costituito da norme e un altro calcio in faccia alla nostra Costituzione.
Fonte: comune-info.net
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