di Claudio Conti
Niente come la crisi costringe, in certi momenti, a mostrare la realtà dei fatti, persino al caduco giornalismo italico. O più semplicemente, nulla come gli interessi divergenti – tra “catene del valore” di sistemi diversi e difficilmente integrabili, a questo punto – obbliga persino gli opinionisti più ferocemente avvinghiati a un’idea di “Europa” poco corrispondente alle pratiche messe in atto dall’Unione Europea a spiegare come alcuni fenomeni “cattivi” siano da ricondurre ai comportamenti decisamente speculativi dei presunti “buoni”.
Davanti al montare dei “populismi di destra”, soprattutto nell’Est europeo, siamo stati sommersi per anni da analisi preconcette che, grosso modo, facevano risalire il tutto all’eredità del “socialismo reale”, oppure all’arretrezza culturale dei popoli slavi, o a fenomeni ancora più misteriosi per noi “fortunati” dell’Occidente. Nessun indizio di ordine economico o sociale, nessun dato sulla produzione e lo spostamento di ricchezza.
Poi, una mattina (quella di oggi), esce la rivelazione illustrata sootto un titolo giù esplosivo (Colletti blu sottopagati. I populismi dell’Est hanno origine a Ovest?): “le economie emerse dal socialismo presentano una differenza di fondo con quelle occidentali: in nessuna di esse esiste la contrattazione salariale – né in azienda, né per settore – salvo che per le sedi distaccate di poche multinazionali. Per chi lavora nelle fabbriche si applica solo il salario minimo di legge e questo è immancabilmente basso, anche rispetto al costo della vita dei territori centro-orientali. Non c’è un solo Paese passato dal Patto di Varsavia alla Ue nel quale il salario minimo si avvicini ai 3 euro l’ora o ai 500 euro al mese; è lo standard del settore manifatturiero”. Il problema, e la frustrazione “populistica”, è che i prezzi delle merci sui mercati anche dell’Est sono invece di “livello europeo”.
Colpisce il legame diretto tra impossibilità della contrattazione collettiva e basso livello del salario, che contraddice apertamente il comando unico impartito da oltre 25 anni in tutta Europa (“meno intermediazione sindacale, più contratti aziendali legati alla produttività”, ecc). Là dove non si fa contrattazione, i salari sono da fame e cresce l’odio verso l’Unione Europea…
Che strano, non trovate? Invece di essere contenti di stare finalmente da questa parte della barricata, di poter votare per chi vi dicono, di vedere un po’ di tv commerciale… si lamentano e attribuiscono all’Europa la causa della propria povertà.
Due numeri aiutano a dimensionare lo squilibrio economico: “dal 2008 al 2015 nell’elettrotecnica, nella meccanica e nell’auto la quota di import tedesco da Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Slovacchia e Romania è salita dal 18 al 23,4% (a scapito dell’Italia). Da lì arrivano a prezzi stracciati i pezzi del made in Germany. Le linee produttive ormai sono così integrate che il Fondo monetario parla «catena di fornitura German-Central European», un sistema produttivo unico dove la grandissima parte del valore è catturata dalle imprese di grande marchio in Germania. Così l’operaio tedesco, a 35 euro l’ora, guadagna al lordo oltre dieci volte quello polacco, ungherese o slovacco, ma la sua produttività effettiva è molto lontana dall’essere tanto superiore. Si spiega così perché dal 2011 quasi un milione di europei orientali, i più giovani e istruiti, sia affluito in Germania arricchendone le risorse umane”.
Così, effettivamente si capisce quasi tutto. Si capisce perché il Corriere della Sera abbia aperto questa finestra (l’import tedesco guarda di più all’Est europeo, riducendo la quota di semilavorati proveniente dall’Italia, con grave danno per le imprese locali); perché ci sia un così grande flusso migratorio slavo verso Berlino e dintorni (che va a sommarsi ai flussi provenienti da Africa e Medio Oriente); perché si diffonda la xenofobia anche in Germania (il lavoro dei migranti – a prescindere dal colore – è fisiologicamente a più basso costo rispetto agli standard considerati accettabili per un “tedesco doc”); perché, soprattutto, la classe dirigente teutonica sia così ferma nella difesa di un sistema di trattati europei che le concedono un diritto di prevalenza su qualsiasi terreno. Eccetera…
Sorprendente, a questo punto, anche la conclusione: “Non si spiega, invece, perché la Ue si ostini a non raccomandare ai Paesi dell’Est ciò che sarebbe ovvio: permettere ai lavoratori di contrattare collettivamente i salari. Quanto a Merkel, anche su questo tace”.
A ciascuno il suo, ci mancherebbe. Ma a questo punto, non si spiega perché il Corriere resti così ferocemente abbarbicato alla "ricetta tedesca" sul piano delle relazioni industriali in Italia, dove continua a predicare deflazione salariale, precarietà lavorativa e dunque esistenziale, flessibilità totale e riduzione del welfare pubblico, "disintermediazione" nei rapproti tra impresa e lavoratori (ossia meno contrattazione collettiva).
La riflessione, infatti avrebbe dovuto essere immediata: “non è che stiamo proprio noi, neoliberisti italici, a fomentare il populismo in casa nostra?”.
Come si diceva una volta, scherzando, l’autocritica degli altri è sempre più facile…
Fonte: contropiano.org
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