di Luis Sepulveda
Parlare oggi della felicità, del futuro, non è facile perché per arrivare alla definizione della felicità bisogna prima individuare quali sono gli ostacoli che impediscono di realizzarla. La prima volta che ho cominciato a pensare a quest’idea della felicità, della possibilità di essere felice, non solamente come individuo ma come parte di una collettività, di una società felice, è stato nel mio paese, il Cile, nel 1971. Quell’anno ho avuto il grandissimo onore di far parte della scorta del compagno presidente Salvador Allende, della sua guardia personale. E mi ricordo che era un giorno del mese di marzo del ’71 quello in cui si presentò al palazzo presidenziale un giornalista, un filosofo che era stato insieme al Che nella guerriglia in Bolivia e che proprio Allende aveva salvato dal carcere, un politologo francese di nome Régis Debray.
Era venuto per realizzare un’intervista con il presidente Allende per Le Nouvel Observateur. E Allende decise che alcuni compagni della sua guardia personale potessero essere presenti, il suo era un modo per dirci «questo dialogo passerà alla storia, state attenti a quello che viene detto».
Era venuto per realizzare un’intervista con il presidente Allende per Le Nouvel Observateur. E Allende decise che alcuni compagni della sua guardia personale potessero essere presenti, il suo era un modo per dirci «questo dialogo passerà alla storia, state attenti a quello che viene detto».
E quel colloquio andò male perché Debray era un uomo di notevole arroganza intellettuale, convinto delle sue idee di teorico del marxismo. Anche Allende era un intellettuale, alla sua maniera, ma di grande umiltà, e non ostentava mai la sua intelligenza. Nel corso dell’intervista Debray avanzò una serie di critiche al modello cileno. Le sue critiche si basavano sul fatto che il processo rivoluzionario del Cile non rientrava nello schema classico di come si fa una rivoluzione, non seguiva un presunto ordine A, B, C di come si realizza un processo di cambiamento sociale. Per esempio, rispettava la pluralità politica, rispettava rigorosamente la libertà di espressione, la libertà di stampa.
Allende lasciò che Debray esponesse tutte le sue critiche e rispose a tutte le sue domande e alla fine gli disse: « Adesso ti voglio fare io una domanda ». La domanda era: « Tu sai qual è l’aspettativa di vita di un tedesco, di un francese, e qual è l’aspettativa di vita di uno scandinavo, di uno svedese, di un danese? E sai qual è invece l’aspettativa di vita di un cileno?». Debray non lo sapeva. E Allende gli disse: «In quest’epoca, i francesi e i tedeschi hanno una speranza di vita di sessantotto anni; gli scandinavi hanno una speranza di vita che arriva quasi ai settant’anni. Noi cileni abbiamo una speranza di vita di cinquantadue anni. Noi stiamo facendo questa rivoluzione per poter vivere sessantotto, settant’anni, come i francesi, come i tedeschi, come gli scandinavi. L’obiettivo è vivere a lungo, ma anche vivere in una condizione che è lo stato naturale dell’uomo, e che si chiama felicità».
Quella sera, quando Debray era andato via, Allende chiese ai compagni della scorta, e io ero presente: «Che ne pensate ragazzi? Come è andata questa intervista?». Il nostro commento fu: «Be’, le sue risposte sono state tutte giuste, forse lui non ha capito, ma non importa: il suo è stato un ottimo discorso ». E Allende disse: «Forse è stato un errore parlare di questo diritto alla felicità, nominare la felicità come lo stato naturale dell’uomo, della specie umana».
E cominciò a raccontare la sua idea della felicità. Raccontò una parte della nostra storia che credo fosse sconosciuta per una buona metà dei compagni lì presenti che facevano parte della sua scorta personale.
Raccontò che nel 1932 il Cile era stato protagonista di una piccola rivoluzione di cui non si legge sui libri di storia, come se fosse stata cancellata: una piccola rivoluzione durata solo dodici giorni che prese il nome di República socialista de Chile, organizzata da un signore che era un ufficiale dell’Aeronautica, progressista, socialista per la precisione, che si chiamava Marmaduke Grove e che in quei dodici giorni formulò una teoria secondo la quale l’unico vero obiettivo del Cile, questo paese collocato alla fine del mondo, è diventare un paese felice. E in quella rivoluzione fu fatto uno sforzo pedagogico per individuare quali sono gli elementi che si frappongono tra noi e la felicità. Naturalmente dopo dodici giorni arrivarono le forze della destra, che abbatterono quel governo rivoluzionario; la Repubblica socialista del Cile finì. Oggi in qualche negozio di antiquariato è ancora possibile trovare le monete coniate allora, che riportavano la scritta «República socialista de Chile».
E Allende volle affrontare anche un altro argomento, disse che era necessario non solamente teorizzare il modello produttivo, ma impegnarsi nello sforzo di identificare tutti i fattori che si frappongono tra noi e la felicità. E fece anche un altro esempio. A quell’epoca in Cile la sinistra si era unita intorno alla figura di Allende, in un conglomerato di partiti politici che formavano la cosiddetta Unidad Popular. Allende si mise a raccontare che nel 1934 in una parte della Spagna che curiosamente è quella in cui io adesso abito, cioè nelle Asturie, per la prima volta diverse forme del pensiero di sinistra riuscirono a raggiungere un accordo per lavorare insieme: c’erano i comunisti, i socialisti, gli anarchici. E fecero la rivoluzione operaia del 1934, con protagonisti i minatori del carbone, i pescatori, gente che lavorava nei cantieri navali, contadini, insegnanti. E l’articolo 1 del documento su cui si basava l’esistenza di questa República socialista asturiana diceva: « Il fine naturale dell’uomo è la felicità ».
E contemporaneamente si mise in moto un processo per identificare gli ostacoli che si frapponevano tra l’idea della felicità e i protagonisti, cioè gli abitanti di quella regione della penisola iberica. E nell’impegno per l’identificazione di questi elementi antagonisti dell’idea di felicità arrivarono a conclusioni davvero rilevanti, tanto che il governo della Spagna — c’era un governo repubblicano — decise che quell’idea basata sulla felicità era pericolosissima. E colui che per quarant’anni sarebbe stato dittatore, Francisco Franco, fece in quell’occasione la sua prima esperienza come macellaio del proprio popolo, perché fu uno dei generali incaricati di reprimere nel sangue la rivoluzione socialista asturiana del 1934. Ma da quel momento è rimasto impresso nella gente, in forma quasi inconsapevole, clandestina, il principio che la felicità è un diritto, e che è un diritto promuoverla, e che è fondamentale individuare quali sono gli elementi che si frappongono tra noi e la sua realizzazione.
Quella chiacchierata con Allende proseguì, fino ad arrivare a parlare dei fatti del 1962: quando la Spagna franchista veniva accolta nella Comunità europea, Francisco Franco confidava al cugino e segretario militare Francisco Franco Salgado-Araujo che le miniere di carbone spagnole avevano i giorni contati perché l’Europa voleva favorire lo sfruttamento del bacino della Ruhr, in Germania, e dei giacimenti della Polonia, che assicuravano una fornitura a costi inferiori.
I minatori del carbone delle Asturie proclamarono uno sciopero. Si trattò del primo grande sciopero dopo l’instaurazione del regime franchista nazional-cattolico. Chiedevano migliori condizioni lavorative, sicurezza sul lavoro, soldi, un salario giusto, diritti, e naturalmente furono contrastati dalla polizia del regime. L’idea di Franco era sconfiggerli riducendoli alla fame. E un giorno a quella gente che stava portando avanti uno sciopero in condizioni terribili giunse la notizia che dall’altra parte del mondo, nel Sud del Cile, in un paese che si chiama Lota, i minatori del carbone stavano facendo uno sciopero in condizioni ancora più terribili. Anche loro assediati dalla polizia, dall’esercito. La risposta dei minatori delle Asturie fu di condividere quel poco che avevano per la sopravvivenza e mandare ai compagni minatori dell’altra parte del mondo, in Cile, una nave carica di cibo, medicinali, tutto quello che era fondamentale per sostenere lo sciopero. Quello sciopero che si basava sullo stesso desiderio per cui lottavano loro: una vita migliore per diventare minimamente felici.
Non dimenticherò mai quella conversazione con Allende perché credo che la felicità sia il fine naturale e ultimo della specie umana. Non so se vivrò abbastanza per poter verificare che l’umanità è riuscita ad arrivare alla pratica quotidiana, normale di questo diritto alla felicità, ma sono convinto che lo sforzo di tanti per individuare tutto quel che si frappone tra noi e il diritto supremo alla felicità, sia il lavoro politico più importante che si può fare. E penso che forse, per aiutarci a identificare ciò che si frappone tra noi e la felicità, sia utile pensare all’idea delle “quattro libertà” proclamate dal presidente Franklin Delano Roosevelt come obiettivi irrinunciabili dell’umanità: la libertà di espressione; la libertà di pensiero; la libertà dalla miseria; la libertà dalla paura. Credo che la felicità sia legata indissolubilmente alla libertà.
Fonte: La Repubblica
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