di I Diavoli
«Mi chiamo Jean-Luc Mélenchon. Sono nato il 19 agosto 1951 a Tangeri, in Marocco. Sono alto 1.74 m. Peso 79 chili. Porto la taglia 41/42 per le camicie, la 42 (46 italiana, ndr) per i pantaloni. Calzo il 42. Tutti i miei capelli sono naturali e non sono tinti. Non ho ereditato un castello né un partito fondato da mio padre». Correva l’anno 2013 e l’allora presidente del Front de Gauche sciorinava i suoi personalissimi dati online. L’ironia era riservata a Marine Le Pen, leader del Front National di estrema destra, e all’amara battaglia di Francia per la pubblicazione dei patrimoni dei politici.
Spera di varcarla da presidente con la sua France insoumise, il movimento che rappresenta la Francia indomita e ribelle. La punta almeno da un anno, quella porta in Rue du Faubourg-Saint-Honoré 55, almeno dal dieci febbraio 2016 quando ha annunciato, prestissimo, la sua candidatura. Per lui è la seconda volta: nel 2012 arrivò quarto, con l’11,10% dei voti, preceduto da Marine Le Pen.
Già ministro con delega all’insegnamento professionale nel governo di Lionel Jospin tra il 2000 e il 2002, poi deputato europeo a partire dal 2009.
Mélenchon, vecchia roccia dei socialisti del PS dal 1977, poi frondista irrequieto fino allo strappo con il partito nel 2008, ma sempre agitatore di folle che strizza l’occhio al protezionismo e all’identità nazionale come collante sociale. Méluche, outsider d’estrema sinistra che si presenta in nome del “popolo” di Francia alla «conquista del caos» (come il titolo di un suo celebre libro scritto nel 1991). Il «ribelle» che pochi mesi dopo, rifiuta di partecipare alle primarie socialiste perché – dice – sono «inutili».
Proprio lui, battagliero sessantacinquenne che per il quotidiano di destra Le Figaro non è altro che una sorta di «Chavez in versione tricolore», o anche un «Maximilien Ilitch Mélenchon», un misto tra Robespierre e Lenin.
Con un programma populista à la française, tutto orgoglio delle produzioni locali e tricolore, non nasconde il suo passato da trotskista e la sua ammirazione per leader del calibro di Hugo Chavez e Fidel Castro. Mescola sovranismo ed ecologia, intimorisce i mercati, spaventa gli europeisti duri e puri.
In poco più di un anno, riesce a scalare i sondaggi. Secondo i dati Ipsos, pubblicati su Le Monde a metà aprile, il candidato di France Insoumise è al terzo posto con il 20% nelle intenzioni di voto. A precederlo, i grandi favoriti alle presidenziali del 23 aprile: Marine Le Pen ed Emmanuel Macron, con il suo En Marche, sono testa a testa al 22%, mentre il candidato repubblicano François Fillon, resta inchiodato al 19% e il socialista Benoît Hamon, vincitore delle primarie socialiste, non supera il 7,5%.
Secondo Mélenchon la Francia è una «nazione universalista» che «non ha niente a che fare con la Nato». E ancora, pro-Putin, il candidato all’Eliseo rifiuta di schierarsi apertamente contro il regime siriano di Bashar al-Assad in Siria e denunciarne i crimini. Per lui, la guerra non sarebbe altro che una questione di petrolio e gasdotti.
In un’intervista a Le Monde Idées, lo studioso Étienne Balibar, di Mélenchon e della sua «France universaliste» dice: «Se potessi parlare direttamente con lui gli direi che posso accettare questo discorso a condizione che sia inteso come l’equivalente di “noblesse oblige”, cioè: “République oblige”. La République obbliga a un certo universalismo che non può più fondarsi sull’identificazione della République con la nazione. Per rimanere repubblicana, la Francia dovrebbe andare oltre se stessa e formulare l’idea di un’estensione della cittadinanza oltre le frontiere».
Balibar continua e sembra guardare direttamente alle lacune di tutti i progetti che mescolano populismo e sovranismo, anche a sinistra: «Per quanto riguarda l’Europa, la questione consiste nel sapere se si possono risolvere i problemi dei francesi al di fuori di un contesto continentale. Sono convinto di no, e questo anche se l’Europa dà il peggio di sé come in Grecia. Ogni programma fondato sulla rinuncia al progetto europeo è destinato a sprofondare nello sciovinismo, se non nel trumpismo».
Poi tira in ballo l’ispiratrice di Mélenchon: «Quando affermo questo, persone come la mia amica Chantal Mouffe (filosofa e politologa belga, qui un suo intervento, ndr) mi rimproverano e mi dicono: “ma in che pianeta vivi? L’identità nazionale è il solo ambito che può permettere di difendere le classi popolari contro il capitalismo selvaggio!” Credo che si sbaglino, ma certamente bisogna dimostrarlo. Il mio punto fermo è questo: non voglio rinunciare né alla critica sociale né all’internazionalismo» (qui l’intervista integrale in italiano, tradotta da Alessandro Simoncini, ndr).
La rinazionalizzazione delle masse, insieme a detassazione e a pulsioni anti-élite, avvicina sfere politiche agli antipodi. Se il minimo comun denominatore è il ripudio della moneta unica e degli euroburocrati, la retorica isolazionista coagula le istanze locali. Lo stato sociale viene sfruttato nelle narrazioni anti-sistema come vessillo per compattare le identità collettive. E allora il rosso e il nero assumono, a tratti, gli stessi toni.
Dunque, i populismi di destra e di sinistra si sovrappongono, specialmente quando si tratta d’Europa?
Secondo i detrattori di Mélenchon (anche suoi vecchi compagni di partito come l’ex presidente François Hollande), il programma del candidato de la France Insoumise non si discosterebbe molto da quello della paladina della Frexit,Marine Le Pen.
Non è proprio così, almeno sulla carta. Andiamo con ordine. Durante il dibattito del 4 aprile scorso, Mélenchon ha detto:
«L’Europa è una grande idea, ma i trattati che la organizzano sono una calamità».
In francese suona come un vero e proprio slogan, visto che è anche in rima (idée-calamité). Meno di due settimane dopo, in un’intervista, precisa:
«Non sono io a distruggere l’Europa, sono i trattati europei. Comunque, sono ottimista. L’Europa e l’euro senza la Francia non si fanno. Se fossi eletto, mi ascolterebbero».
In un’altra ancora, aggiunge:
«Non sono io la minaccia, non sono io ad aver provocato la Brexit o le spinte nazionaliste. La mia posizione è rinegoziare i Trattati per favorire l’armonizzazione dei diritti sociali, quella dei sistemi fiscali e cambiare lo statuto della Bce, allargandone il ruolo alla difesa dell’occupazione».
La road map di Mélenchon per l’Unione è scritta nero su bianco (consultabile qui, ndr) e consisterebbe in due tappe:
«Il piano A riguarda l’uscita concertata dai trattati europei con l’abbandono delle norme esistenti per tutti i paesi che lo desiderano, e la negoziazione di altre regole. Il piano B consiste nell’uscita dai trattati europei da parte della Francia per proporre altre forme di cooperazione. L’UE, o la si cambia o la si lascia».
Quando si tratta, però, di moneta unica, e in caso di fallimento del suo piano, “Méluche” elogia la sovranità della Francia e si dice pronto anche a uscire dall’euro:
«Pronto? Certo e pure ad adottare la moneta cinese! Non mi faccio intimidire da domande del genere. La Francia è una grande potenza. L’Europa non si fa senza di noi. Quindi, se sarò presidente, le mie richieste dovranno essere ascoltate. Basta ripetere che non si può cambiare nulla, lasciando i popoli crepare come si fa in Grecia. Mi spiace, Merkel e Schaeuble non sono dei bravi amministratori dell’euro: la moneta unica deve tornare al servizio dei popoli».
Che significa al servizio dei popoli per il frontman de la France Insoumise? In tema di immigrazione – anche questo oggetto di frecciate da parte degli avversari – leggendo il programma ci si imbatte in questo passaggio:
«In Europa, sì, per uscire dall’impasse Schengen e Frontex. Il rafforzamento dei mezzi civili di soccorso nel Mar Mediterraneo per evitare le migliaia di morti annegati».
Fin qui, la posizione di “Méluche” non sembra proprio chiarissima, perché questa frase potrebbe intendere un’uscita da Schengen e quindi un ritorno alle frontiere nazionali, esattamente come chiede Le Pen.
In realtà – come spiegano a Le Monde gli organizzatori della campagna – l’auspicio di Mélenchon è ripristinare la piena libertà di circolazione all’interno di Schengen. Si supererebbe così «l’impasse» dei controlli alle frontiere imposti da Parigi negli ultimi due anni per motivi di sicurezza nazionale.
Sono due i nodi cruciali da affrontare, secondo Mélenchon: regolare le cause delle migrazioni e garantire una degna accoglienza alle persone che raggiungono la Francia.
L’intento, si legge nel programma, è lavorare per:
«una diplomazia indipendente e attiva al servizio della pace, per evitare che i migranti debbano abbandonare il proprio paese, fermando quindi le guerre e bloccando gli accordi commerciali impari che distruggono le economie locali.
Dunque, ripensare la politica europea di controllo delle frontiere esterne, rifiutando la militarizzazione del controllo dei flussi migratori; la creazione di un’Organizzazione internazionale per le migrazioni legata alle Nazioni Unite».
«Riaffermare il diritto di asilo a rifugiati attraverso una corretta amministrazione. Rispettare la dignità umana dei migranti, in particolare nei campi profughi.
Garantire il loro diritto fondamentale alla vita familiare fermando il collocamento in centri di detenzione dei bambini minori non accompagnati».
La proposta, inoltre, prevede il diritto di voto dei migranti alle elezioni locali e più cura rispetto alle pratiche di richiesta d’asilo.
Mélenchon è da sempre considerato abile oratore. La sua sicurezza, più che il suo programma, avrebbe stregato i francesi di sinistra che hanno perso fiducia nei socialisti (e non voteranno Hamon). Secondo l’ex presidente Hollande, per esempio, la tattica del leader della France Insoumise è tutta nei comizi e negli slogan: «Dietro alle semplificazioni, alle falsificazioni, c’è un pericolo: quello di guardare allo spettacolo del tribuno politico piuttosto che al contenuto del suo testo».
Parliamo, dunque, di contenuti. Mélenchon dice di essere contro il «dogma del libero scambio» dell’Unione europea. In una recente intervista, infatti, ha parlato di «protezionismo solidale»: «Vorrei scambi commerciali negoziati, il protezionismo solidale. Protezionismo, sì, perché dobbiamo proteggere i nostri settori produttivi. Poi, non si può fabbricare tutto. E allora applicherei un’organizzazione bilaterale o multilaterale degli scambi, con l’obiettivo di sviluppare i nostri Paesi. Non si deve far entrare qualsiasi cosa».
«Oltre i 100 miliardi d’investimenti, prevedo 172 miliardi di spesa pubblica supplementare su cinque anni. Si provoca un ritorno sull’evoluzione dell’economia. Siamo stati molto più moderati di una bolscevica riconosciuta come Christine Lagarde, che per un euro investito dice che ce ne sono 3 di attività generata e consiglia di indebitarsi sulla base di quelle proporzioni. Ecco, noi calcoliamo un moltiplicatore pari ad appena 1,5».
Un apparato fiscale che punta a colpire i più ricchi, è questa l’idea-chiave di Mélenchon in materia fiscale. Ergo: chi ha un reddito che supera i 400 mila euro annui verrebbe tassato al 100%. Il principio è rendere più progressiva l’imposta sul reddito, aumentando il numero degli scaglioni da 5 a 14.
Se dovesse vincere “Méluche”, inoltre, la patrimoniale sarebbe mantenuta e verrebbe imposta una nuova tassa sui prodotti di lusso.
E ancora, insieme a una fiscalità severa e a un’economia circolare di lotta contro gli sprechi, il candidato alla presidenza di Francia mira a integrare ecologia e République: 1) rinunciando al nucleare; 2) nazionalizzando Électricité de France(Edf) ed Engie; 3) scoraggiando ogni finanziamento alle energie fossili a sostegno, invece, delle rinnovabili.
Obiettivo numero uno del piano Travail di Mélenchon è la riduzione dell’orario di lavoro, che passerebbe a 32 ore settimanali. Il salario minimo, invece, sarebbe aumentato del 16%. La battaglia, si legge nel programma, è per quei 6 milioni di francesi senza lavoro (la disoccupazione è al 10% in Francia).
Secondo Mélenchon, che è uno strenuo oppositore della Loi de Travail attuale, inoltre, solo con la transizione energetica, la riduzione dell’orario di lavoro e più contratti ai giovani, si potrebbero creare fino a 3,5 milioni di posti di lavoro.
Per quanto riguarda le garanzie previdenziali, vuole riabbassare l’asticella della pensione a compenso pieno all’età di 60 anni. In programma c’è anche un «fondo sociale professionale» per chi perde il lavoro e una procedura più snella per la distribuzione dei sussidi ai più poveri.
Vago quando si tratta di radicalizzazione, austero e convinto quando invece deve rimarcare il suo sostegno alla Russia di Vladimir Putin con cui vorrebbe «cercare un’intesa», Mélenchon in tema di anti-terrorismo dice:
«Non si lotta contro un concetto. Gli atti di terrorismo sono una tecnica di guerra nella quale la religione è solo un pretesto. Sappiamo che sono atti ispirati da potenze straniere che si affrontano indirettamente in Siria e Iraq. Per far cessare la guerra bisogna creare una coalizione universale che includa tutti gli attori della regione».
Contro lo Stato islamico chiede, dunque, una «coalizione universale» che coinvolga anche i curdi. Ha intenzione di ritornare all’«indipendenza militare della Francia», nazionalizzando le fabbriche di armi e ripristinando il servizio civile-militare obbligatorio.
Ha una web tv, una radio che trasmette online, è attivissimo sui social network (facebook, Twitter e Snapchat). Nonostante i suoi 65 anni e per merito della sua direttrice della comunicazione, Sophia Chikirou, Mélenchon è il candidato più tecnologico in corsa all’Eliseo, usa la rete per coinvolgere gli elettori (qui per approfondire, ndr).
Grazie a un ologramma approdato sul palco al suo posto, è riuscito ad essere in simultanea a Digione (dove si trovava effettivamente) e in altre sei città francesi: Nancy, Clermont-Ferrand, Montpellier, Le Port, Nantes e Grenoble.
A pochissimi giorni dal primo turno, ha promesso ai francesi: gli effetti speciali non finiscono mai. E ha aggiunto scherzando: «Se sarò eletto, non avrete una Première Dame, perché sono single, quindi sarò un presidente meno caro».
Fonte: idiavoli.com
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