La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 20 aprile 2017

Popolo o Sinistra? Sinistra di popolo! In Francia la partita è aperta

di Lorenzo Carchini
Visto dalla “Luna”, Jean-Luc-Mélenchon, vecchia volpe della politica transalpina, capace di attraversare tante stagioni restando uguale a sé stesso, è il candidato della “extreme gauche”, o della “gauche dure”, la sinistra dura, che ha rotto con tutto ciò che è istituzione, sin da quella parola, “Gauche”. “Insoumise”, ribelli piuttosto, capaci di mettere in piedi una delle campagne elettorali più innovative della storia francese, di cui ora, sondaggi alla mano, starebbe raccogliendo i frutti, a discapito di un Partito Socialista mai così debole.
Popolo o Sinistra? Questa è stata la domanda fondamentale che ha scosso le sinistre quest’anno. Una questione strettamente legata al contesto storico, in cui la destra si è raccolta ed ha “sequestrato” crisi e paura del declino come proprio combustibile ideologico in chiave elettorale. Un dibattito che ha avuto diverse anime non solo al di là delle Alpi, ma anche oltremanica, con Jeremy Corbyn, nel tentativo estremo di guarire i Labour dal morbo di Blair, così come oltre i Pirenei, è toccato a Podemos, pur con dispositivi e funzionamenti assai più raffinati e consapevoli, mentre nell’Egeo era stata Syriza, a suo tempo, a farsi prima portabandiera.
Nei mesi scorsi il “non-dibattito” fra Hamon e Mélenchon non è mai passato attraverso le proposte, ma sulla capacità di comunicare con cittadini che sempre meno si identificano spontaneamente con la “Sinistra”, con quella sinistra al governo da 5 anni tra scandali, militarizzazione della società e Loi Travail.
Conscio di quello che altro non sarebbe che un peso ad oggi insostenibile, il leader “ribelle” ha volutamente eluso il patrimonio organizzativo e simbolico della sinistra, ancorché radicale, non appoggiandosi alle tradizionali strutture di partito e riconoscendo mercati e neoliberismo come elementi di disturbo ormai assimilati dai Socialisti. Questo ha permesso di creare un nuovo spazio di rappresentanza nel quale Mélenchon si è inserito perfettamente con un verbo “populista di sinistra” antagonista e parallelo a quello lepenista (giacché entrambi fanno propri elementi identitari e sociali) e quella sorta di “populismo-elitario” di Emmanuel Macron.
Lo stesso rifiuto categorico di partecipare alle primarie di una sinistra allargata – da qualcuno definito un bonapartismo – rientra nell’idea per la quale è più importante e radicale l’unione popolare rispetto ad un matrimonio di comodo fra le sinistre. “Il socialismo tradizionale è ideologicamente morto”, ha detto, come dargli torto? La verità, infatti, è che pur su posizioni euroscettiche, Melenchon non ha dovuto far altro che guardarsi intorno, il movimento a cui egli aspira già esiste ed ha un respiro internazionale.
Ce lo confermano le parole di Sophia Chikirou, direttore delle comunicazioni e braccio destro del candidato ribelle: “Se vinciamo in Francia, ci sarà un effetto domino. Mélenchon diventerà la locomotiva di un movimento che già esiste, ma avrà ancor più forza in diversi paesi in Europa e nel mondo”. La stessa scelta della Chikirou nella campagna è stata un segnale significativo, dal momento che nel 2016 ha passato quattro mesi a seguire la campagna del senatore del Vermont Bernie Sanders per le primarie democratiche statunitensi. Secondo quanto ha raccontato a El Paìs, le impressioni raccolte negli Stati Uniti sono state le medesime raccolte in Francia: che “il movimento deve essere trasversale, che non sono i partiti politici a fare la democrazia e che si devono lasciare le organizzazioni tradizionali”.
Tutto ciò in una Francia che, comunque andrà, si appresta a chiudere l’esperienza della V Repubblica, da tempo afflitta da cali di fiducia nelle istituzioni, diffidenza verso i partiti tradizionali, in generale una crisi di quell’identità politica che ha accompagnato mezzo secolo di storia. Così, quest’idea di “rivoluzione popolare” fortemente connotata soprattutto nel mondo latinoamericano, ha trovato terreno fertile. Chikirou lo ribadisce citando il parere di Inigo Errejòn, numero due di Podemos: “Abbiamo superato il divario destra-sinistra per dirigersi direttamente al popolo e cercare di unirlo attorno ad un progetto sociale che risponde alla crisi democratica e sociale derivante dalle politiche di austerità che tutti i paesi hanno subito”.
Vista in quest’ottica, quel filo rosso che da Sanders in America, arriva a Podemos in Spagna, fino a Mélenchon in Francia, nasce dall’importante lezione che la crisi della socialdemocrazia ha fornito nel corso dell’ultimo decennio. Una linea che mostra diverse continuità, ma anche delle differenze. Se, infatti, Sanders ha dovuto piegarsi alle regole della campagna americana, Mélenchon si è categoricamente rifiutato di entrare nel “sistema”, guardando fattualmente ai nuovi mezzi di comunicazione, più agili, immediati rispetto a quelli tradizionali. Twitter, YouTube, Facebook, ologrammi, a livello comunicativo i suoi rivali in patria sono stati polverizzati, mentre tutti i modelli sono stati importati ed applicati.
Dietro questo grande sforzo, però, è bene ricordare che Mélenchon finora è riuscito ad evitare lo “storico” errore della generazione politica a lui successiva: il medium non ha finito per essere il messaggio, bensì ha permesso di collegare un movimento internazionale, alternativo e progressista. Il popolo di Mélenchon non è lo stesso che si è sentito tradito dai cinque anni di presidenza Hollande, bensì si presenta come un complesso soggetto politico che può essere tagliato trasversalmente da un programma politico capace, all’occorrenza, di recuperare alcuni codici propri della sinistra tradizionale.
Una strategia possibile perché, ancorché populista e in rottura con la sua precedente esperienza nel Front de Gauche: la proposta politica di Mélenchon affonda le radici nel dibattito politico e sociale dell’ultimo trentennio, dal post-Marxismo di “Egemonia e Strategia Socialista” di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, fino alla critica del “populismo autoritario” tatcherista di Stuart Hall, fino alla natura delle relazioni sociali nello stato di Bob Jessop.
In queste opere, non soltanto si faceva – per la prima volta – i conti con la realtà del neoliberismo occidentale, ma anche con quei sentimenti di paura di decadenza e crisi (allora era la nostalgia vittoriana inglese), contrastabili solo accettando la possibilità di un non ritorno all’idea di stato sociale precedente, ma ad una nuova forma di democrazia con al centro il tema delle libertà individuali.
La chiave, in particolare secondo Laclau e Mouffe, stava nel bisogno di comprendere i nuovi movimenti sociali in fermento: urbani, ecologici, anti-autoritari, anti-istituzionali, femministi, antirazzisti, etnici (in particolare nell’America Latina), regionali. Tutti caratterizzati da profonde differenze verso le lotte sociali tradizionali, mirati a occupare spazi sociali in quella che gli autori consideravano una possibile egemonia alternativa a quella allora emergente in America ed Europa.
Questi nuovi movimenti, così, costituivano una pluralità di antagonismi, una “moltitudine di lotte”, nelle quali la strategia di una “democrazia radicale” deve provvedere ad una “creazione egemonica di unità”. Un principio che Mélenchon ha pienamente imbracciato, nella sua ricerca del consenso. Una strategia che non può che essere populista, in quanto mirata a unire diverse esigenze sociali, alcune delle quali anche in contraddizione fra loro.
Recentemente intervistata, Chantal Mouffe ha ammesso di vedere in Jean-Luc Mélenchon l’unica figura in grado di costruire una narrazione parallela ed opposta a quella lepenistsa, che, rigettando le etichette di destra e sinistra, parli delle paure delle classi sociali ma su basi di eguaglianza. Una posizione che, ovviamente, genera anche alcune preoccupazioni, come quella di Roger Martelli, storico del comunismo francese e uno dei leader del Partito Comunista transalpino, che ha parlato di una “dialettica pericolosa” in quanto porrebbe temi di sinistra in una lotta nella quale “il populismo di destra vince sempre”.
Sta di fatto, che di populismo, sia esso xenofobo, elitario o egualitario, si tratterà. Sarebbe stato tale anche nel caso in cui il favorito fosse stato Fillon. Ovviamente i mercati giocheranno la loro partita, scommettendo su Macron o male che vada sulla destra di Fillon o di Le Pen; ma lo “spauracchio” comunista, agitato su media francesi e stranieri, in realtà rappresenta un segnale ben più importante e che spiega la crisi endemica delle socialdemocrazie, risultate alla prova del tempo (e della crisi economica) sottoposte ad un processo di invecchiamento molto più forte di quanto non fosse lecito aspettarsi.
Assorte nei dubbi amletici alla base della propria struttura “post-ideologica”, essi infatti vivono le contraddizioni di fondo di un sistema neoliberale quasi interamente piegato al mercato e allontanatosi progressivamente dal proprio elettorato. Sono bastate, infatti, poche semplici idee piuttosto tradizionali come laicità, sovranità, statalismo e protezionismo ad incanalare seppur parzialmente la protesta sociale mettendo in ginocchio le due torri della politica francese.
Con ogni probabilità, molti neogollisti finiranno per essere divisi fra Le Pen e Macron, così come i socialisti si divideranno tra il giovane candidato socialista e Mélenchon. Sarà così l’inizio di una nuova fase della democrazia repubblicana in Francia, più vicina alla “peuplecratie”, una politica alto-basso in una società fratturata tra élite e popolo. In Italia, nell’ultimo decennio, abbiamo visto qualcosa di simile, ma con una preparazione politica del tutto improvvisata, la Francia probabilmente ne darà un’immagine più significativa e radicale.

Fonte: sinistraineuropa.it 

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