La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 20 aprile 2017

Il mantra del debito pubblico e l'Europa

di Ascanio Bernardeschi
Abbiamo già discusso in passato sul mantra del debito pubblico e sull’inconsistenza delle elucubrazioni sul suo carattere nocivo alla prosperità di una nazione. Non intendiamo tornarci sopra se non per ribadire che sia sul piano analitico che su quello dell'evidenza empirica il tabù del debito pubblico non regge. Che poi esso sia piuttosto un'arma in mano alla classe dominante per opprimere e ricattare i popoli e che sia necessario il suo ripudio, ce lo ha già raccontato il compagno Sergio Cimino in questo giornale. Basti pensare al dato di fatto che il Giappone naviga con un rapporto debito/Pil del 220 per cento, contro il 90 per cento nell’area Euro, eppure nessuno dubita sulla sua stabilità finanziaria, e che negli Usa tale rapporto è raddoppiato negli ultimi 10 anni ed è destinato a salire nei prossimi.
Allora sbagliano quei politici e quegli economisti che si preoccupano per il nostro debito, e gli speculatori a scommettere sull'instabilità delle economie dei paesi mediterranei? Si e no.
Vediamo perché. Emiliano Brancaccio, in compagnia di altri economisti [1], in diversi suoi lavori, ha sottolineato che il problema maggiore non risiede nel debito pubblico, ma nel saldo della bilancia commerciale, che è la differenza fra le importazioni e le esportazioni di una paese. Quando un paese esporta molto meno di quanto ha necessità di importare, il saldo della bilancia è negativo; lo stato e gli operatori economici si indebitano verso l'estero. Un alto livello di indebitamento peserà notevolmente in termini di interessi passivi, di dipendenza dai creditori e di esposizione alle speculazioni. Se gli italiani sono indebitati, anche il debito pubblico, i titoli di stato, dovranno essere collocati in gran parte all'estero.
Una nazione che abbia piena disponibilità dei suoi strumenti di politica economica può affrontare una simile situazione sia favorendo l'innovazione, divenendo più competitiva per questa via nel mercato internazionale, sia con la svalutazione della propria moneta che fa divenire più a buon mercato, e quindi meglio vendibili all'estero, i propri prodotti mentre fa divenire più costose le importazioni, scoraggiandole.
La prima delle due possibilità è difficilmente praticabile nell'immediato in Italia, dal momento che tutti gli strumenti di politica industriale sono stati smantellati, a cominciare dalle partecipazioni statali, e che in fatto di ricerca siamo il fanalino di coda, costringendo i nostri migliori cervelli ad emigrare. La seconda è impossibile per via della gabbia della moneta unica che infatti sta ampliando la divergenza fra i paesi più competitivi – la Germania in primis, che vanta un fortissimo saldo attivo dei conti con l'estero, nonostante che ciò sia proibito dal trattato di Maastricht – e i cosiddetti PIIGS (i “maiali”, che poi sarebbero Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna).
I pagamenti internazionali si effettuano tramite banche, e in particolare nell'eurozona attraverso una serie di scritture contabili che interessano le riserve delle banche commerciali a valere sui depositi presso le banche centrali nazionali e presso la Banca Centrale Europea. Tali scritture consistono in addebiti sulle riserve delle banche dei paesi debitori e accrediti su quelle creditrici. Pertanto le banche dei paesi con deficit verso l'estero risultano indebitate nei confronti delle banche dei paesi in avanzo. E se non riescono a recuperare i crediti nei confronti delle imprese in difficoltà, difficilmente potranno a loro volta onorare i loro debiti verso, per esempio, le banche tedesche.
I cosiddetti “salvataggi” delle banche, peraltro effettuati con fondi a carico degli stati, che così si indebitano, servono quindi ad assicurare le banche dei paesi forti contro il rischio che i loro crediti diventino inesigibili. In pratica il debito privato viene trasformato in debito pubblico e vengono messe al sicuro le banche dei paesi forti.
Il lettore de La Città Futura ne potrebbe dedurre che le crisi finanziarie si autoalimentino o che dipendano dal disordine nelle istituzioni finanziarie; e domandarsi quanto c'entra, quindi, tutto il discorso che abbiamo fatto sulla crisi partendo dalle contraddizioni del modo di produzione capitalistico messe in luce da Marx. Per rispondere è utile riportare un brano dei Grundrisse di Marx: “Riguardo al suo operaio ciascun capitalista […] desidera restringere il più possibile il suo consumo, […] il suo salario. Egli si augura naturalmente che gli operai degli altri capitalisti siano il più possibile grandi consumatori della sua merce”. [2]
Una volta introdotto nell'analisi il commercio internazionale, la contraddizione secondo cui il capitalista vede nel salario dei propri operai un costo da abbattere e nel salario degli operai altrui un'opportunità per vendere le proprie merci, può essere traslata, su scala allargata, in questo nuovo contesto: i capitalisti di una nazione premeranno per deprimere il costo della forza-lavoro all'interno del proprio paese, attraverso politiche di austerità, ma augurandosi di incontrare negli altri paesi una domanda solvibile adeguata, quindi politiche espansive della domanda stessa. Poiché non contano i desiderata ma le azioni, in ogni paese si stanno attuando politiche deflattive, anche nei paesi che, come la Germania, eccedono nell'avanzo della loro bilancia commerciale. Ciò a discapito dei conti con l'estero dei paesi meno competitivi, quale l'Italia.
Un'uscita del nostro paese dall’Euro, dunque, consentirebbe di praticare la strada della svalutazione della propria moneta. In questo modo sarebbe possibile anche la ridenominazione dei titoli del debito pubblico in lire. La conseguenza sarebbe che il valore reale dei titoli ridenominati seguirebbe le sorti della lira, quindi andrebbe a svalutarsi, alleggerendo il peso del debito pubblico, il che preoccupa molto gli speculatori stranieri, i quali, per assicurarsi da questo rischio, pretendono tassi di interesse più elevati rispetto, per esempio a quelli dei titoli di stato (bund) tedeschi.
La tanto chiacchierata questione dello spread fra i tassi di interesse è dovuta, quindi, più al timore dei finanzieri, preoccupati che a un certo punto ai paesi più fragili non rimanga altra strada che quella di ritornare alle vecchie valute, piuttosto che all'angoscia per l'entità del debito pubblico. La stabilità del Giappone, che non è oggetto di attacchi speculativi, per esempio, è dovuta al fatto che ha i conti con l'estero in ordine, non ha deficit commerciali e pertanto il suo pur ingente debito pubblico è detenuto prevalentemente dagli investitori interni. Gli Usa, invece, che sommano il disavanzo pubblico a un elevatissimo saldo commerciale negativo con l'estero, hanno invece il vantaggio di poter manovrare agevolatone il dollaro, che è la moneta con cui si effettuano principalmente i pagamenti internazionali.
Ma non esiste solo la svalutazione “esterna”. È possibile anche una svalutazione interna, cioè rendere più economiche le nostre merci svalutando il lavoro, abbattendone il costo. È esattamente la politica che finora è stata praticata dai nostri governanti e caldeggiata dalle istituzioni europee. Un abbattimento del costo del lavoro comporta anche una riduzione della domanda interna. Se una considerevole parte di questa domanda veniva soddisfatta direttamente o indirettamente (acquisto di materie prime, tecnologie, semilavorati ecc.) dalle importazioni, ed è il caso dei PIIGS, allora i conti con l'estero miglioreranno anche per questa via (meno domanda uguale meno importazioni). È vero anche il contrario: aumentando la domanda, per esempio attraverso la spesa pubblica, aumentano le importazioni e peggiora la bilancia dei pagamenti. Per questo le politiche espansive della domanda sono state messe al bando, col pretesto del debito pubblico. La recessione, attraverso l'austerità. è quindi l'unica cura che ci hanno prescritto per migliorare i nostri conti con l'estero. Così il capitale prende due piccioni con una fava, perché è vero anche che meno costo del lavoro uguale più profitti!
Un esame dell'opportunità di uscire o meno dall'euro deve partire da questi dati di fatto. Tale uscita e la conseguente svalutazione richiederebbe certamente sacrifici in quanto comporterebbe inflazione e riduzione dei salari reali, specialmente in assenza di uno strumento per la loro indicizzazione. Ma tali sacrifici vanno confrontati con quelli cui andremmo con certezza incontro proseguendo con gli attacchi al mondo del lavoro e alla svendita delle nostre migliori risorse. L'abbandono delle politiche liberiste, dunque, consentirebbe anche di rimettere le mani sulla politica economica, riqualificare l'apparato produttivo orientandolo ai bisogni delle classi lavoratrici, rilanciare il percorso verso un'economia ecologicamente e socialmente sostenibile e verso l'attuazione della nostra Costituzione, che antepone l'interesse generale a quello dell'impresa. Se ne avvantaggerebbero anche i rapporti di classe, interrompendo il processo di disgregazione del mondo del lavoro e togliendo spazio ai populismi destrorsi e xenofobi.
In ogni caso, volenti o nolenti, sarebbe miope non prendere in considerazione la possibilità, sempre meno remota, che deflaghi la costruzione dell'Europa.

Note:

[1] Per esempio Sergio Cesaratto ne suo “Sei lezioni di economia”, Ed. Imprimatur, 2016.

[2] K. Marx, “Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica”, vol. II, p. 26, ed La Nuova Italia, 1970.

Fonte: lacittafutura.it 

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