di Pasquale Voza
Dei tre populismi italiani individuati da Marco Revelli nel suo ultimo libro (Populismo 2.0, Einaudi) vale a dire quelli incarnati da Berlusconi, da Grillo e da Renzi, il secondo viene efficacemente definito «cyberpopulismo», in quanto poggiante non più sul «popolo televisivo», ma sul «popolo della rete», sul «popolo del web». Si tratta naturalmente di una specificazione concreta, imprescindibile per chi voglia mettere a fuoco il fenomeno nella sua genesi e nelle sue modalità specifiche. D’altro canto, ciò non toglie che, al di là delle varianti italiane, si debba tener conto della modalità fondativa del discorso populista.
LACLAU, A SUO TEMPO, delineava in questi termini ‘innovativi’ la sua idea di formazione dell’egemonia: «Dato che nessuna forza è l’incarnazione dell’universale in sé per sé, una “volontà collettiva” riuscirà a consolidare la sua egemonia, solo se riuscirà ad apparire agli altri gruppi come la forza che è in grado di garantire la migliore sistemazione sociale al fine di assicurare ed espandere un’universalità che la trascende».
Dunque, egemonia come lotta per l’apparenza: essa in quanto tale espunge da sé il piano della critica della società, sostituito dal piano del confronto tra insorgenze e nodi discorsivi, narrativi, che costituirebbero la nuova tessitura della società e attenderebbero di essere trasfigurati in una sintesi “vincente”. Ad avviso del filosofo argentino questa è la logica di «ogni processo di costruzione egemonica del “popolo”».
Ed è una logica altresì che inerisce alla nozione di «capitalismo globalizzato», che per lui rappresenta – come è detto in La ragione populista– «un nuovo stadio nella storia del capitalismo, che spinge verso un approfondimento delle logiche di formazione dell’ identità», dal momento che si è avuta una moltiplicazione orizzontale di «effetti disgreganti, dislocatori» e una proliferazione di «nuovi antagonismi»: ciò fa sì che il popolo si costruisca,vada costruito,dentro questa post-moderna lotta per l’apparenza (o per l’apparire).
ACCANTO A QUESTA modalità fondativa vanno poi certamente sottolineate le distanze del populismo grillino dalla realtà esplicita della destra populista italiana ed europea,in cui – come osserva Roberto Biorcio – «l’idea di “popolo” proposta è fortemente caratterizzata in senso etnico e nazionalista», con attacchi espliciti e virulenti agli immigrati; laddove gli obiettivi programmatici del populismo grillino sarebbero «soprattutto orientati a favorire la democrazia partecipativa dei cittadini, a difendere uno stato sociale di tipo universalistico, a tutelare e valorizzare i beni comuni e/o pubblici (reddito di cittadinanza,difesa degli investimenti per la scuola e sanità pubblica»).
Ma va anche osservato che non mancano, in Grillo e in altre voci del movimento, accenti a lor modo xenofobi, oltre che proposte sostanzialmente ispirate ad una ratio neoliberista. Il problema di fondo è un altro. Una volta ‘costruito’ il popolo, quello che gli si profila non è il cielo della politica, ma quello della tecnica: ed è lì che tutte le scelte propriamente non sono né di destra né di sinistra, ma si configurano come passaggi obbligati di una governance indefettibile.
Alla dialettica populistica del basso contro l’alto, del popolo contro la casta, subentra poi, nella versione grillina, la situazione di un basso festoso e vociferante nel web, che fruisce di un alto severo e asettico: l’alto della tecnica. (Vengono in mente talune, recenti considerazioni televisive di Casaleggio junior, tendenti a sottolineare un primato quasi esoterico della governance tecnologica).
AL DI LÀ DELLE APPARENZE, si potrebbe parlare di una convergenza sostanziale di tale governance con quella propriamente neoliberista. Entrambe presuppongono una condizione di fondo, che è di segno politico, sociale, antropologico, e riguarda l’assenza radicale (senza sospetto alcuno) della necessità di una critica pratica della condizione dell’”essere in debito”, intesa come condizione costitutiva prodotta dal capitalismo finanziario, che ha fatto sì da ingenerare – come è stato osservato – la varietà estrema delle attuali forme di assoggettamento e di passivizzazione: è da questa condizione di fondo,’invisibile’,che è segnato sia il disagio indistinto del populismo grillino sia il suo essere in cerca di un autore, vale a dire di un governo tecnicamente superiore e insondabile (che bisogna lasciar lavorare ecc.).
Come sappiamo, oltre il populismo grillino, la dialettica alto-basso ha prodotto e produce attualmente forme più o meno violente di sovranismo nazionalistico, orientate a destra. Ma dal basso si è andata anche formando in generale da tempo una varietà di esperienze e di forme di lotta e di resistenza conflittuale (da Occupy agli Indignados a Nuit Debout alla recentissima insorgenza femminista di Non una di meno). Non è vero, nemmeno in Italia, che, in questa fase, nella crisi può crescere solo la destra (come giustamente hanno osservato di recente, sul manifesto, Caruso e Mastropaolo).
A questo riguardo andrebbero sviluppate alcune considerazioni ulteriori. Nel tempo attuale di una vera e propria colonizzazione della vita (in cui la vita è messa al lavoro e insieme è manipolata), si dovrebbe riuscire a volgere lo sguardo alla radicalità nuova, inedita delle forme che può assumere il conflitto capitale-vita (accanto al conflitto capitale-lavoro, che non è certo scomparso): ove si pensi che uno stigma del nostro tempo è la diffusione (non l’assenza) di un dolore sociale, reso sempre più muto, invisibile e frammentato. Si dovrebbe anche tener presente che le parole che designano spesso oggi la varietà dei movimenti e dei conflitti sono indignazione, rivolta, furia. Ora queste non sono parole immediatistiche e/o prepolitiche: sono lemmi di un possibile, nuovo lessico biopolitico e dunque anche di una nuova frontiera di lotta politica.
Fonte: Il manifesto
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