di Alessandro Visalli
Tra pochi giorni ci sarà il primo turno delle elezioni francesi, il candidato socialista, fuoriuscito dal vecchio Partito Socialista quando è stata chiara la sua svolta liberale, Jean-Luc Mélenchon, sta sorprendentemente risalendo le posizioni e potrebbe anche accedere al ballottaggio. Qualche giorno fa abbiamo provato a dare una prima lettura ai programmi nel post “Qualche appunto sulle Presidenziali francesi”, ora diamo un’occhiata più da vicino al tipo di cultura politica che esprime “La France Insoumise”, il movimento politico (in cui alla convenzione a Lille in cui fu adottato il Programma due terzi dei delegati erano stati sorteggiati) che ha lanciato più o meno un anno fa e che si rifà alle esperienze di Podemos in Spagna e Sanders in USA.
Il primo elemento al quale prestare attenzione è semplicemente questo: sono in testa nel primo turno due movimenti appena lanciati ed un Partito fortemente anti-establishment come il Fronte Popolare (anche il candidato di testa, Emmanuel Macron, ha lanciato la sua formazione in marzo), e sono indietro i due partiti classici della politica francese, che al momento faticano a restare complessivamente nell’ordine di un terzo dei consensi.
Si tratta di un evento impensabile solo fino ad un paio di anni fa, una vera vendetta della storia.
Il riferimento del movimento “France Insoumise” a Podemos, lo iscrive nel quadro del cosiddetto “populismo di sinistra”, ovvero di quei movimenti che cercano di riarticolare uno spazio politico oltrepassando i classici confini destra/sinistra per come si sono consolidati nel novecento e dando primaria rappresentazione alla frattura establishment/popolo. Su questa mossa abbiamo negli ultimi tempi letto alcuni contributi: l’intervento di Nadia Urbinati, che tende a vedere il lato illiberale nel richiamo al “popolo” (termine che in senso proprio è invece sempre plurale), quello di Jurgen Habermas, e di Jan-Werner Muller, sulla stessa linea della Urbinati, il testo del 2009 di Ernesto Laclau “La ragione populista”, che è il più strutturato riferimento teorico della corrente in oggetto, e poi Nancy Fraser, Nicolao Merker, che inquadra il populismo di destra in chiave filosofica, infine la ricostruzione di Marco Revelli.
È chiaro che c’è una enorme dispersione di significati nel termine, che si avvicina molto ad essere per questo inutilizzabile, pur tuttavia è forse possibile distinguere tra i “populismi” delle tradizioni cui si riferisce Merker, essenzialmente europei, e concentrati sulla frattura nazionalista in chiave di ostilità all’altro ed allo straniero e quindi di purezza del “popolo” come ethnos, e “populismi” ripresi in alcune tradizioni sudamericane (cui Laclau si rifà). Una simile distinzione l’ha fatta di recente un grande influencer che conosce bene ciò di cui si parla come papa Francesco. In unaintervista a gennaio su “El Pais”, infatti, il gesuita sudamericano asceso al soglio di Pietro, parla del rischio che comporta per il mondo non avere l’uomo ma il denaro al centro, dell’immensa ineguaglianza, quando un piccolo gruppo ha l’80% della ricchezza, e della “cultura dello scarto”. Ma quando l’intervistatore gli chiede di commentare i movimenti “populisti o antisistema” che stanno prendendo piede, il papa, inaspettatamente, afferma che:
“Sono quelli che chiamano i populismi. È una parola fuorviante perché il populismo in America Latina ha un altro significato. Lì significa che i popoli sono protagonisti, per esempio, i movimenti popolari. Si organizzano tra di loro... è un’altra cosa. Certo, le crisi provocano delle paure, delle allerte. Per me, l’esempio più tipico dei populismi europei è quello tedesco del ‘33. Dopo [Paul von] Hindenburg, la crisi del 30, la Germania è in frantumi, cerca di rialzarsi, cerca la sua identità, cerca un leader, qualcuno che gli ridia la sua identità e c’è un ragazzetto di nome Adolf Hitler che dice ‘io posso, io posso’. E tutta la Germania vota Hitler. Hitler non rubò il potere, fu votato dal suo popolo, e poi distrusse il suo popolo. Questo è il pericolo. In tempi di crisi, non funziona il discernimento e per me rappresenta un punto di riferimento continuo. Cerchiamo un salvatore che ci restituisca la nostra identità, difendiamoci con muri, con fili spinati, con qualsiasi cosa dagli altri popoli che possono toglierci la nostra identità. E questo è molto grave. Per questo cerco sempre di dire: dialogate tra voi, dialogate tra voi. Ma il caso della Germania nel ‘33 è tipico, un popolo che si trovava in quella crisi, che ha cercato la sua identità e a cui è apparso questo leader carismatico che ha promesso di dare loro un’identità, e diede loro un’identità distorta e sappiamo che cosa è successo. Dove non c’è dialogo.... Si possono controllare le frontiere? Sì, ogni Paese ha il diritto di controllare i propri confini, chi entra e chi esce, e i Paesi che sono in pericolo — per il terrorismo o cose del genere — hanno più diritto di controllarli maggiormente, ma nessun Paese ha il diritto di privare i suoi cittadini del dialogo con i vicini”.
La distinzione che propone è dunque tra un movimento reattivo e difensivo, una sorta di collasso della capacità di confrontarsi con il mondo, e con i problemi che ci pone, ed un movimento di liberazione in cui si attiva un processo di auto-organizzazione. Non è una distinzione facile, del resto neppure pacifica entro la chiesa, il giudizio dello stesso ordine dei gesuiti sulle esperienze populiste (in primis quella venezuelana), ma anche nel documento che nel 2007 tutti i vescovi del continente sudamericano (Bergoglio incluso) pubblicarono in cui al par. 74 si guardava con preoccupazione alla “regressione autoritaria per via democratica che sfocia in alcuni casi in regimi di orientamento neopopulista”. In questo testo la chiave, che non è necessariamente in contraddizione con il più recente pronunciamento, è che “non basta una democrazia puramente formale, fondata sulla trasparenza dei processi elettorali, ma che è necessaria una democrazia partecipativa e sostenuta dalla promozione e dal rispetto dei diritti umani. Una democrazia senza valori come questi ricordati si trasforma facilmente in una dittatura e finisce col tradire il popolo”.
È chiaro, dunque, che la critica al neopopulismo è condotta da un versante “democratico” e coinvolge anche le altre deformazioni, in primis quella neoliberale (che vi giunge per la via opposta di estremizzazione della neutralizzazione del “popolo”).
Ma cosa significa “popolo”, qui? In un discorso del novembre 2015 Francesco lega l’unità vivente con Dio alla “relazione concreta delle persone con il mondo e con gli altri intorno a sé”, ciò significa che “il singolo si sente intessuto in un popolo, cioè in una ‘unione originaria degli uomini che, per specie, paese, ed evoluzione storica nella vita e nei destini sono un tutto unico” (citazione del papa da “Il senso della chiesa”, 2007). Nel recuperare questo pensiero, da un teologo italo-tedesco degli anni venti, è chiaro cheBergoglio prende in piena coscienza una posizione non liberale.
Come dice:
“Guardini intende il concetto di ‘popolo’ distinguendolo nettamente da un razionalismo illuministico che considera reale soltanto ciò che può essere colto dalla ragione (cfr “Il mondo religioso in Dostoevskij”, p. 321) e che tende a isolare l’uomo strappandolo dalle relazioni vitali naturali. Il popolo, invece, significa «il compendio di ciò che nell’uomo è genuino, profondo, sostanziale» (ibid., p. 12). Possiamo riconoscere nel popolo, come in uno specchio, il «campo di forze dell’azione divina». Il popolo – continua Guardini – «sente questa dappertutto operante e ne intuisce il mistero, l’inquietante presenza» (ibid., p. 15). Per questo a me piace dire – ma ne sono convinto – che ‘popolo’ non è una categoria logica, è una categoria mistica. Forse possiamo applicare le riflessioni di Guardini al nostro tempo, cercando di scoprire la mano di Dio negli eventi attuali. Così potremmo forse riconoscere che Dio, nella Sua sapienza, ha inviato a noi, nell’Europa ricca, l’affamato perché gli diamo da mangiare, l’assetato perché gli diamo da bere, il forestiero perché lo accogliamo, e l’ignudo perché lo vestiamo. La storia poi lo dimostrerà: se siamo un popolo, certamente lo accoglieremo come un nostro fratello; se siamo solamente un gruppo di individui più o meno organizzati, saremo tentati di salvare innanzitutto la nostra pelle, ma non avremo continuità”.
Dunque la questione del “populismo” si lega a quella del liberalismo. Vedono molto bene Nadia Urbinati, e anche Jan-Werner Muller, la questione è del liberalismo, dell’individualismo (metodologico), della creazione del politico come separazione/protezione dalla natura umana, considerata intrinsecamente malvagia, ferina. Ovvero del proceduralismo di cui parla anche Jurgen Habermas.
Dunque la questione del “populismo” si lega a quella del liberalismo. Vedono molto bene Nadia Urbinati, e anche Jan-Werner Muller, la questione è del liberalismo, dell’individualismo (metodologico), della creazione del politico come separazione/protezione dalla natura umana, considerata intrinsecamente malvagia, ferina. Ovvero del proceduralismo di cui parla anche Jurgen Habermas.
Sono questioni di altissima complessità, che evocano dilemmi su cui l’occidente si affatica da secoli, e che non si prestano ad essere tagliati con l’accetta.
Proviamo quindi a calare la cosa nella concretezza della politica attiva e nell’attualità, leggendo della interpretazione che di queste fratture dà Chantal Mouffe (filosofa, ex moglie di Ernesto Laclau e coautrice di molte delle sue opere, tra le quali vale segnalare “Egemonia e strategia socialista”, con Laclau, e “Il conflitto democratico”) muovendosi nell’ipotesi che il mondo stia per diventare multipolare e sede di autentico pluralismo sia politico sia culturale. Vedremo che è la stessa ipotesi diPierluigi Fagan e di Parag Khanna.
Ma la filosofa belga trae, dall’ipotesi di declino dell’impero americano (e quindi anche della sua dominazione culturale), strettamente connesso con la mondializzazione di cui è il motore immobile e necessario, conseguenze di natura politica non banali. Nell’Articolo che vorremmo commentare Mouffe distingue il “populismo” dalla demagogia (con la quale viene normalmente associato), riconducendolo ad un “modo per stabilire un confine politico”. Ovvero per segnare una differenza tra un “noi” ed un “loro”.
Ma il confine, “mistico” per Bergoglio, è un costrutto appunto “politico” per la filosofa, come lo era per Laclau. E come costrutto può essere proposto ed identificato in modo molto diverso a seconda del progetto politico che si ha. Una lettura economicista, ad esempio, porterebbe ad identificarlo come frattura secondo la posizione dei gruppi (resi tali dalla rappresentazione imposta) nel quadro della riproduzione economica della società; dunque “proletariato” e “borghesia”, chi ha e chi non ha il possesso dei mezzi di produzione. Una lettura populista invece tra “quelli in basso” e “quelli in alto”, tra “popolo” ed “establishment”. I termini sfocati di cui parla Revelli.
Ma questa lettura è comunque una “reazione di rigetto” per il declino della democrazia, dunque è un movimento reattivo nel contesto della post-democrazia. In questo modo siamo entro la diagnosi di Revelli e siamo a monte del bivio indicato da Bergoglio tra diversi “populismi”. Qui alligna il rischio, in altre parole. Un movimento reattivo non solo può essere colonizzato dal potere, può anche generare esso stesso un potere che per altra via si allontana nella direzione della chiusura e dell’ostile indifferenza all’altro. Ovvero del nazionalismo (vorrei distinguere, però, come faremo tra nazione, patriottismo e nazionalismo).
Tuttavia questa reazione, come vede anche il papa, è ben motivata, perché le democrazie rappresentative hanno ecceduto in direzione della protezione elitista (ad esse connaturata) ed hanno creato il vuoto tra i cittadini e il governo della cosa pubblica, che è sempre più schermato e irraggiungibile. La sovranità popolare è diventata un mito e un fantasma. Per come la mette la Mouffe: “è stata rimossa dal vocabolario politico, perché è il principale nemico del neoliberismo che vuole stabilire la sovranità del mercato e tecnocrazia”.
Ecco che la democrazia si ripresenta quindi da un’altra parte, recupera il suo carattere di progetto incompiuto e agonistico, di tensione antielitaria; ma può farlo in modi diversi: richiamandosi ad una tradizione etno-nazionalista (descritta con toni forti da Merker) o cercando di articolare intorno alla “fraternità”, gli ideali della “uguaglianza” e giustizia. Per ottenere questo risultato occorre un nuovo vocabolario, cioè un “populismo di sinistra”.
La differenza è “come la gente è costruita”. “La gente” è il modulo rappresentativo chiave del “populismo”, ma è a tutta evidenza un’astrazione. Esistono solo persone, attraversate da innumerevoli fratture, differenze, ma anche connesse da innumerevoli ‘comuni’, e in contatto in una circolazione incessante di sentimenti, umori, emozioni, discorsi. Cosa è “la gente”? Evidentemente una costruzione di un discorso. Precisamente di un “discorso politico”, cioè rivolto ad uno scopo politico.
Dunque Le Pen e Jean-Luc Mélencon intendono costruire popolo in modo diverso. Però, attenzione: “costruire popolo” significa allontanarsi dalla logica stessa del liberalismo, che opera con una versione molto più parsimoniosa di sociale, legandolo al concetto-chiave di “interesse”, e questo ad una sorta di dispersione o disseminazione, la cui ricomposizione è affidata solo all’istituzione del mercato, nel quale si creano e soddisfano interessi sotto forma di “domande”.
Ma si allontana anche da parte della tradizione socialista, che il “popolo” lo vede in essere a partire da alcune “strutture” oggettivamente esistenti (ovvero “materiali”). In qualche modo la mossa di Laclau e Mouffe (fondata in “Egemonia e strategia socialista”) rovescia nuovamente Hegel, riportandosi, con strumenti messi a disposizione dalla cosiddetta “svolta linguistica” anglosassone, in un contesto idealista: è il linguaggio, e le pratiche connesse, che genera il reale.
Invece il reale come essenza, quel che Mouffe chiama “essenzialismo”, in sé esistente, ovvero come “struttura” dei fenomeni, è la mossa che hanno in comune liberalismo e socialismo marxista (a ben vedere è anche ciò che rende neutralizzabile la politica da parte della tecnica, della scientizzazione dell’azione delle élite). Per la filosofa le identità politiche non dipendono da un insieme imperscrutabile di interessi che costituiscono domande e si manifestano solo nei mercati (da lasciare liberi di suscitarle), ma neppure “dalla posizione dell'attore sociale, nei rapporti di produzione, i rapporti che determinano la coscienza”, come vorrebbe la vulgata marxista.
Non c’è alcuna identità politica predefinita, nessun “noi”.
Dunque non si tratta neppure, per Mouffe, di “rappresentare degli interessi collettivi esistenti”. Ci sono innumerevoli, diverse, richieste democratiche che hanno diritto di essere ascoltate: economiche e non. Si tratta di mettere insieme delle eterogeneità percostruire un “noi”. E per farlo è necessario un conflitto, occorre costruire una “volontà collettiva” che deve avere un obiettivo ed anche un altro da sé.
È questo altro da sé che fa la differenza, perché è questo che crea il “popolo”, e dunque la “volontà”.
Ciò che oggi polarizza il campo è, per Mouffe, la “globalizzazione neoliberista” , termine con il quale indica un insieme di fenomeni connessi con l’egemonia imperiale anglosassone ed in particolare con la versione presa all’indomani della completa liberalizzazione dei flussi finanziari (processo avviato nel ’71 e proseguito per un ventennio abbondante in cui l’Europa ha avuto ruoli decisivi e la Francia in particolare), che hanno generato perdenti ai quali è stato raccontato anche dalla sinistra che Non Ci Sono Alternative. Di fronte a chi ti dice che non ci sono, e che devi rassegnarti a veder declinare il tuo potere contrattuale, e i redditi (ai quali ti è stato detto di ancorare la tua stessa personalità), e che la politica deve essere solo amministrazione tecnica, vince chi propone una descrizione semplice che individua l’alternativa nell’espulsione dell’altro. E questo “altro” è ovviamente lo straniero. È questo che crea il terreno fertile per il populismo di destra, per il Fronte Nazionale.
È dunque questa Europa (di cui l’Euro è solo logico coronamento) a creare le condizioni fertili per l’insorgenza del Fronte Nazionale.
Quale è l’alternativa, allora? Non certo negare che il problema esista (incluso quello posto dalla moneta unica senza stato, o meglio con una forma post-democratica di impero), e neppure che abbia anche una declinazione di classe, ma collegarsi agli antagonismi che si generano entro la società per proporre quella che chiama una “radicalizzazione della democrazia”: una democrazia intransigente.
Ma una democrazia che si ancori nelle lotte, nella creazione di antagonismi, necessita di un momento di traduzione, di convergenza. Necessita, cioè, della costruzione di “popolo”. E’ chiaro che a fare da articolatore deve essere il movimento politico, e la direzione, e qui entra il tema delicato del leader.
E, per creare questa unificazione, che determina la forza politica è necessario anche connettersi con gli “investimenti libidici” esistenti, evitando di lavorare con un concetto limitato di ragione (un concetto razionalistico che espelle le emozioni dal campo pubblico), tra questi la “nazione”, dunque il “patriottismo” che non deve necessariamente portare a forme di nazionalismo negativo.
L’investimento patriottico si manifesta anche esso come forma di opposizione, come antagonismo, ma in alcuni casi come rivendicazione di autogoverno, di autodeterminazione. Ovvero come opposizione ad una struttura percepita come “coloniale”. È il caso del nazionalismo scozzese (verso la dominazione con poca egemonia inglese), ma anche della proposta neocoloniale del quasi-imperialismo europeo. Il patriottismo, insegna McInthyre, è una virtù che comporta fedeltà come il vincolo coniugale, l’amicizia, l’amore familiare. Implica un investimento emotivo specifico, non astratto, non impersonale.
Questo è un altro piano nel quale la proposta neo-populista della Mouffe (e di Mélenchon, che articola espressamente un “patriottismo di sinistra” in relazione all’Unione Europea) si distanzia dalla mossa liberale, connessa all’ideale della impersonalità. Dall’ideale di non farsi influenzare da particolarismi, da ciò che impedisce di giudicare razionalmente in modo neutro e astratto, di non farsi trattenere dalla preferenza per i propri interessi, legami, affetti e posizione sociale (è l’elenco del filosofo scozzese). Qui, mi pare, si torna dalle parti di Bergoglio: per MacIntyre “E’ in generale, solo all’interno di una comunità che gli individui diventano capaci di moralità, sono sorretti nella loro moralità, e sono costituiti come attori morali dal modo in cui le altre persone li considerano – e considerano ciò che è loro dovuto così come ciò che dovuto da parte loro- nonché dal modo in cui essi stessi considerano se stessi”.
Il “patriottismo” è situato nell’ordine morale, anzi rende possibile il comportamento morale, mentre il chiamarsi fuori di ogni comunità, se libera dai relativi vincoli, determina anomia. Fa l’uomo solo e preda della logica astratta delle strutture sistemiche in cui è inserito (denaro e potere amministrativo).
Dunque andiamo a comprendere meglio come Mélenchon articola, questi temi proposti da Mouffe nella campagna “La France Insoumisse”. Per farlo ci riferimento ad un articolo su Jacobin di pochi giorni fa. L’intervista è a Raquel Garrido, uno dei portavoce e compagno del leader sin dal 2008.
Il tema dichiarato come principale (dunque la principale chiamata di “popolo”) è chiaramente una versione di sinistra del senso di anti-politica che pervade le nostre società: la proposta di superare la schermatura dei partiti politici e dei pubblici funzionari politici, attraverso una radicare riscrittura della costituzione. L’attuale forma costituzionale francese, di cui queste elezioni sono conseguenza, è criticata come “monarchia presidenziale”, un eccesso di poteri e scarsità di contrappesi che generali una torsione oligarchica ben connessa con il sospetto che il liberismo ha, da sempre, per la volontà popolare. La chiamata è fortemente ancorata con le tradizioni proprie francesi, inquadra un patriottismo come progetto delle proprie virtù storiche e formatore di equilibri più umani, all’altezza della propria migliore storia (ovvero di ciò che si designa come migliore storia): un’Assemblea Costituente che costruisca una Repubblica “per il popolo, dal popolo”.
I “popoli protagonisti” di papa Francesco, qui diventano “una comunità di persone che esercitano il potere insieme”. Siamo lontani dal concetto immateriale, interconnesso ma anche frammentato, funzionalmente specializzato ed astratto nella sua razionalità, del liberalismo.
Quindi ci sono i temi propri di una situazione di grande ineguaglianza:
- L’abrogazione della “Loi du travail”, fortemente voluta da Valls al punto da violentare l’Assemblea Nazionale per forzare l’ala sinistra del Partito, provocando alla fine la distruzione dello stesso;
- La rifondazione dei Trattati Europei (in alternativa un “Piano B” di denuncia unilaterale degli stessi e dell’Euro);
- L’attuazione di un piano di transizione energetica verso le rinnovabili al 100% nel 2050 (un obiettivo non certo sfidante), ma implicante anche l’abbandono del nucleare;
- Il diritto di revocare un eletto con un referendum;
- La tutela dei beni comuni come aria, acqua, cibo, vita, salute, energia o denaro, potenziando servizi pubblici per garantirli;
- Separazione delle banche di investimento da quelle di raccolta credito, e creazione di un polo bancario pubblico;
- Introduzione di un salario minimo da 1.326 euro netti per 35 ore e aumento dei salari pubblici congelati al 2010;
- Denuncia dei Trattati di libero scambio TAFTA o CETA, in favore di un “protezionismo responsabile”.
Una delle questioni più centrali è chiaramente l’Unione Europea. Ora, la strategia negoziale proposta da France Insoumisse, è di puntare ad un completo rovesciamento della logica neoliberale incardinata (sin dall’origine) nell’ambiguo progetto europeo, uscendo dalla logica della competizione generalizzata, in particolare dei lavoratori europei, andando verso un quadro armonizzato fiscale e sociale (che implica anche controlli sui capitali e limitazioni commerciali, ovvero il rovesciamento delle attuali priorità). Ma di farlo, se non si riesce con un aggressivo negoziato (viene ricordata la “crisi della sedia vuota” di de Gaulle), allora si fa con chi ci sta (è il “Piano B”), cioè con i paesi del sud Europa.
Qui vale la scelta della linea di demarcazione fondamentale, individuata dal progetto costituzionale, invece che il “Noi/Loro” tra “Francesi/Altri” (Europei o no), proposto dalla destra, France Insoumise propone una demarcazione tra “Oligarchie/Popolo Costituente”, e questa linea attraversa anche la questione europea. Non è sbagliato in essa il fatto di non essere francese, ma di essere oligarchica. Cioè di colonizzare il francese, come l’italiano, il tedesco, lo spagnolo…
Garrido rivendica la natura “patriottica, non nazionalista” del movimento. Ovvero l’essere orientato “dall’amore per il proprio” e non “dall’odio per gli altri”. Come sottolinea molto bene McInthyre “il patriottismo è un’empatia, un affetto verso i propri compatrioti”, ma anche un orgoglio, che esprime molto bene nel seguente modo: “crediamo davvero che, nella misura in cui la nostra nazione è stata una nazione civica a partire dalla Rivoluzione francese, non è definito da qualsiasi religione o colore della pelle o anche il linguaggio, è universale. La nostra patria [ Patrie ] è repubblicano”.
Un patriottismo può dunque essere universalista, essere connesso con le migliori tradizioni del paese. Con quelle tradizioni che si propongono come le migliori.
Come avevamo proposto nel post sul “patriottismo costituzionale”, si tratterebbe allora anche per noi italiani, di nutrirsi di una esplicita interpretazione dei momenti più alti della nostra storia e dell’ancoramento alla sostanza di liberazione delle nostre istituzioni, anzi dello “spirito oggettivo” di queste, che, nella loro eticità, non è affatto incompatibile con gli obblighi che intendiamo auto assumerci nei confronti dell’umanità in generale, ma li sostanzia. La causa dell’umanità si sostiene, infatti, difendendola entro di noi e nelle istituzioni con le quali abbiamo a che fare, compiendo la “buona gara” di renderle ognuna esempio per l’altra.
Dunque anche qui si tratterebbe di “fare popolo” intorno alla valorizzazione della nostra storia recente come felice fusione delle culture politiche intorno ad un comune interesse per la crescita democratica, quindi anche il rigetto della logica del “vincolo esterno” e il rispettoso confronto non subalterno con la cultura luterano-calvinista del “capitalismo del nord” (pur con tutte le sue differenze).
Ciò, in modo non dissimile dai nostri amici francesi, implica la rivendicazione di un orgoglio, che è anche amore e passione, per la capacità storica di trovare una sintesi alta, insieme all’affermazione del diritto di autoderminarsi secondo i nostri, propri, termini.
Fonte: Tempo fertile
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