di Anna Irma Battino e Marco Sandi
La conferma definitiva sul voto di domenica in Turchia la si è avuta nella mattinata di oggi, quando Donald Trump ha telefonato ad Erdogan per complimentarsi del risultato. Prima del tycoon americano si erano congratulati solo i gruppi jihadisti ed islamisti combattenti di tutto il Medio Oriente, da Ahrar al-Sham fino Al-Fatah. Le cancellerie europee rimangono fredde e distaccate mentre vengono presentati i vari rapporti degli osservatori Ocse presenti in Turchia. Su un fatto tutti concordano: il referendum si è svolto in un clima intollerabile di minacce e violenza ed il risultato del voto è stato macchiato da enormi brogli, ampiamente documentati.
Il risultato del referendum costituzionale restituisce al mondo un’immagine di un paese diviso, se ancora vi fosse bisogno di un’ulteriore conferma. Tutte le previsioni, dalle più rosee alle più oscure, consegnavano ad Erdogan la vittoria: chi parlava di un plebiscito per il Presidente forse peccava o di troppo disfattismo oppure di estrema superficialità, mentre chi parlava e di una vittoria del no invece ha peccato di troppo idealismo. Invece è stato un testa a testa fino all’ultimo.
Si parla una Turchia spezzata in due, di tre Turchie contro Erdogan, di fratture non politiche e non religiose, di città contro campagna. Molto probabilmente tutti questi fattori sono parte delle motivazioni del voto, ma l’unico dato veramente inconfutabile è che Erdogan ha perso consenso nelle nei grandi centri urbani come Istanbul e Ankara, dove il No (Hayir) ha vinto, ma non stravinto. Il secondo dato viene dalla fedeltà del bacino elettorale storico dell’Akp e di Erdogan, ovvero la quasi totalità delle provincie anatoliche, escludendo ovviamente il sud-est a maggioranza curda. Ed è proprio lì, nella provincie curde che si registra il maggior numero di notizie di brogli e minacce.
Non serve quindi fare una cronaca della giornata nei seggi in Anatolia perché sarebbe solo l’ennesima ripetizione di un copione che viene rispolverato ad ogni tornata elettorale: minacce, vessazioni, brogli, violenze e uccisioni. Sì (Evet), anche domenica è successo così.
Oramai, a giochi fatti, è troppo tardi. Nemmeno le proteste popolari, nemmeno le richieste formali di riconteggio dei voti, nemmeno gli appelli agli organi preposti al controllo del processo democratico potrebbero cambiare risultato.
Ma il tempo, ormai, per questi appelli è passato e non è tardi da oggi, o da domenica, è tardi dal fallito colpo di Stato dello scorso luglio. Da quei giorni grigi di luglio più di 50.000 persone sono finite in carcere e altre decine di centinaia di migliaia di persone hanno perso il lavoro. Tra loro politici, giornalisti, avvocati e attivisti per i diritti civili che si pensa si sarebbero opposti al Referendum del Presidente. A questi vanno aggiunti oltre 500.000 curdi che materialmente non hanno potuto votare perché non più residenti nelle loro città, distrutte negli scorsi mesi dall’esercito turco, con motivazioni di terrorismo.
Ma forse il dato più eclatante che questo referendum ci consegna è il desiderio di conservazione espresso dai turchi in Europa. Infatti il Sì (Evet) nel voto proveniente dall’estero ha consegnato ad Erdogan un milione e 600.000 voti, che nello stretto margine finale, rappresentano un cospicuo bottino. Le comunità turche di Francia, Olanda e Germania, che sono le più numerose diaspore turche al mondo, rappresentano quindi un baluardo dell’Akp.
I cambiamenti sulla scena politica turca saranno radicali. Se da sempre Erdogan è accusato di essere un megalomane e di voler accentrare tutti i poteri nelle sue mani, l’esito del quesito referendario non è che l’inizio del suo piano. Tutto quello che abbiamo visto fino alle 16.59 di domenica 16 aprile 2017 non è stata che la preparazione, o l’antipasto. Le opposizioni turche e curde, quelle ancora non incarcerate, avranno vita ancor più dura; tutti gli attivisti dovranno stare ancora più attenti nelle loro attività e gli avvocati che dovranno difenderli dalle accuse di terrorismo dovranno essere attenti a loro volta in caso di ritorsione.
Non a caso, la prima mossa del Sultano è stato prolungare per altri tre mesi lo stato di emergenza.
L’Erdoganismo ha vinto, ma non stravinto, sul piano politico; potrebbe esserci ancora qualche speranza, ma gli equilibri sono al momento troppo fragili perché ci sia la possibilità di una ri-organizzazione. Certo è che il controllo totale della Turchia nelle mani del Sultano non fa ben sperare; un presidente che non si è prefissato o si accontenta di gestire il potere politico, ma che vuole gestire l’intera società. Siamo davanti alla megalomania di un piccolo uomo che ha lottato da 15 anni - di fatto riuscendoci domenica - per riuscire ad incarnare lo stato turco. Ormai lo spazio politico più importante non è il Palazzo Bianco di Ankara, è la testa del Presidente: benvenuti in Erdoganistan, perché la Turchia ormai è un ricordo.
Fonte: globalproject.info
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