La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 18 aprile 2017

Il futuro del capitalismo secondo Wolfgang Streeck

di Stefania Jaconis
I rapporti tra sociologia ed economia hanno spesso dei momenti di criticità, tanto che ai più rigidi fautori dell’ortodossia neoclassica l’espressione stessa ‘sociologia economica’ appare come una sorta di ossimoro. A dimostrare invece quante siano le intersezioni possibili fra le due discipline ci sono studiosi come Wolfgang Streeck, il quale nel corso degli anni ha portato avanti una ricerca che, oseremmo dire, ha in un certo senso capovolto i termini della relazione di ‘embeddedness’ ideata da Granovetter: infatti per lo studioso tedesco sono i fatti sociali (comprese le strutture di classe e i conflitti che ne derivano) ad essere ‘incorporati’ nelle realtà economiche. (Non a caso Streeck, direttore del prestigioso istituto di ricerca Max Planck, dichiara apertamente di esitare a ripudiare del tutto l’approccio marxiano.)
Con questo taglio e sulla scorta delle riflessioni che da alcuni decenni rivolge a temi prettamente economici – dalla crisi fiscale degli stati moderni alle politiche del debito pubblico – lo studioso è arrivato a identificare l’iter che è stato percorso, a partire dagli anni ’60, da quella grande costruzione sociale che è il capitalismo. Nel suo penultimo libro, uscito in Italia con il titolo ‘Tempo guadagnato’ (Feltrinelli, 2013), Streeck giungeva infatti alla conclusione che solo un’analisi delle trasformazioni socioeconomiche verificatesi in questo lasso di tempo ci può dare gli strumenti per capire la crisi attuale, scaturita in presenza di uno stato ‘in via di consolidamento’, che tenta invano di riconquistare la propria sovranità rispetto ai ‘mercati’.
‘How will Capitalism end?’ (Verso, 2016), il più recente volume dato alle stampe dal sociologo tedesco, segna nei vari saggi di cui si compone l’evoluzione logica e l’ultima tappa dello sviluppo della sua ricerca, e si pone la domanda cruciale: qual è il destino finale di questo capitalismo delle “intersezioni”, per il quale non esiste a tutt’oggi una scienza sociale in grado di comprenderlo in tutte le sue sfaccettature, tra cui quella che interessa di più lo studioso, il capitalismo come ‘polity’? E’ infatti questo aspetto (più che quello relativo al capitalismo come cultura o come modo di vivere) che va a toccare più direttamente il nervo scoperto del rapporto con la democrazia, deterioratosi progressivamente a partire dall’abbandono del modello postbellico – quello, per semplificare, del keynesismo applicato.
Il problema, secondo Streeck, era che la sostenibilità di quel modello dipendeva dalla necessità che il lavoro mobilitasse una quantità sufficiente di potere politico ed economico, e che questa circostanza si poteva verificare solo in economie nazionali più o meno chiuse. All’interno dei confini nazionali, il capitale doveva accontentarsi di bassi profitti, come pure di essere ‘confinato a una sfera economica strettamente delimitata’ – una condizione che era disposto ad accettare in cambio di stabilità economica e pace sociale. Questo stato del mondo, come sappiamo, è venuto a mutare con la fine del modello di crescita postbellico, e la trasformazione si è ulteriormente accentuata con l’avvento della globalizzazione, ossia di quella che è diventata la ‘formula’ politico-economica dominante per la legittimazione del capitalismo neoliberale. Questo nuovo modello di capitalismo ha al suo centro il settore finanziario (quello più globalizzato di tutti), nel quale in poco più di un decennio ha assunto un ruolo chiave il sistema finanziario statunitense – diventato, di fatto, il sistema finanziario del mondo globalizzato. E in questo processo, nota Streeck, l’industria della finanza globale è riuscita ad eludere il controllo democratico in tutto il mondo (tranne, forse, proprio gli Stati Uniti).
Sul ‘decoupling’ di economia politica e democrazia nell’era della globalizzazione il libro propone pagine magistrali, vorremmo dire à la Polanyi. In linea con l’esigenza teorizzata dall’autore, questa separazione emerge dalla disamina dei principali fatti economici degli ultimi decenni, accanto all’analisi delle ‘dislocazioni sequenziali’ che nel tempo hanno visto mutare l’epicentro dei conflitti interni al capitalismo: dal mercato del lavoro all’arena elettorale, dalla finanza ai mercati dei capitali internazionali. Sullo sfondo di queste dislocazioni stanno i fenomeni che più o meno direttamente hanno provocato la recente crisi: l’eccesso di capitale, la ricerca di profitti speculativi, la diseguaglianza crescente, l’aumento dell’indebitamento pubblico e privato, la conseguente necessità di consolidamento delle finanze statali.
Ovviamente il libro, di taglio molto ‘europeo’, non trascura gli aspetti peculiari di questo consolidamento all’interno di quella cosa peculiare che è l’Unione Europea: una realtà che permette di scaricarne gli oneri non sulle strutture finanziarie ma sui cittadini degli stati membri.
Al di là delle etichette, e rifuggendo quindi dalle categorizzazioni proprie della letteratura sulle varietà di capitalismo, l’autore del libro si sofferma poi su uno degli aspetti che considera cruciali per il destino del capitalismo come formazione socioeconomica, e cioè su quella che egli definisce la diseguaglianza ‘oligarchica’, osservabile oggi nelle realtà geografiche (ma non anche sistemiche?) più diverse, dall’Ucraina agli Stati Uniti. In tutti questi paesi, secondo Streeck, quella che vige oggi è una redistribuzione dettata dalla presenza di quei ricchi a dismisura che definiamo ‘oligarchi’, il cui regime di accumulazione si basa sul fatto che viene rescisso il legame keynesiano tra il profitto dei ricchi e il salario dei poveri, e che ciò avviene in un contesto di ricostruzione neoliberale dello stato e di restringimento del settore pubblico.
Qual è dunque il destino che attende questo capitalismo ‘degli oligarchi’ in conflitto crescente con la democrazia, in qualunque modo si voglia definire quest’ultima? (Il libro non ne dà una definizione operativa.) Un capitalismo senza oppositori, scrive Streeck, viene lasciato ai suoi meccanismi interni, che non comprendono l’autolimitazione. Al momento attuale, aggiunge, osserviamo che il capitalismo ha distrutto quella che era la sua opposizione, e, in un certo senso, si sta spegnendo per una overdose di se stesso. Fuor di metafora, lo scenario più probabile sembra essere, per lo studioso tedesco, quello di un capitalismo in cui il declino economico si accompagna a quello morale, secondo un’involuzione progressiva che avviene in un mondo caratterizzato da una sorta di anarchia globalizzata, privo com’è di un centro di riferimento geopolitico. La bassa crescita non permetterà di usare risorse finanziarie per appianare i tanti squilibri distributivi e garantire un regime di pace sociale, e ciò mentre le politiche monetarie liberali contribuiranno, attraverso il potenziamento del settore della finanza, ad aumentare l’iniquità distributiva. In conclusione, secondo Streeck, non è da escludere un scenario socioeconomico basato sulla ‘guerra di tutti contro tutti’, sullo sfondo di un’economia stagnante e per di più minata dal rischio dell’esplosione ricorrente di bolle speculative.

Fonte: eticaeconomia.it 

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