di Lorenzo Guadagnucci
Rex Tillerson, ministro degli esteri statunitense, ha scelto Sant’Anna di Stazzema per legittimare il recente lancio di missili in Siria e annunciare futuri interventi militari. “Noi vogliamo rispondere a quanti colpiscono gli innocenti in qualunque parte del mondo”, ha detto il segretario di stato, due giorni dopo l’attacco missilistico alla Siria e tre giorni prima del lancio della “madre di tutte le bombe” in Afghanistan. Parole che fanno tremare perché corrispondono – appunto – a bombardamenti, esplosioni, lanci di missili: azioni di morte compiute in nome di “innocenti” ma che colpiscono – immancabilmente – altri “innocenti”.
Il messaggio di Tillerson, salito a Sant’Anna in compagnia di Angelino Alfano e di Federica Mogherini durante una pausa del vertice G7 a Lucca, è molto chiaro, com’è chiaro il suo modo di considerare e fare tesoro di una memoria dolorosa, qual è il ricordo della “guerra ai civili” condotta dall’esercito di occupazione tedesco in Italia fra ’43 e ’45. Tillerson dice: a Sant’Anna furono barbaramente uccisi degli innocenti e in loro nome è giusto e necessario colpire chi compie oggi atti simili nel mondo. Nel ’44 l’eccidio fu compiuto da reparti delle SS naziste, negli anni Duemila gli interlocutori sono altri, gli Hitler dei giorni nostri: da ultimo il siriano Assad, giudicato a tambur battente responsabile di un attacco chimico contro la popolazione; in precedenza c’erano stati l’Afghanistan, rifugio dei terroristi dell’11 settembre; l’Iraq del dittatore Saddam Hussein con le sue ipotetiche armi di distruzione di massa; la Libia di Gheddafi, caduto in disgrazia dopo una vita da amico/nemico dell’occidente; il gruppo Stato islamico, nato e cresciuto sotto le bombe occidentali.
Sono state guerre umanitarie, di esportazione della democrazia, di lotta al terrorismo, secondo variabili definizioni, con un bilancio a dir poco disastroso, sia per chi ha subito le aggressioni militari, costate centinaia di migliaia di morti, sia per chi le ha messe in atto (i governi occidentali guidati dagli Stati Uniti), se pensiamo all’attuale clima di insicurezza generale e alla guerra asimmetrica in corso, con gli atti terroristici che da Stoccolma e Mosca a Londra, da Nizza e Parigi a Berlino, hanno portato il conflitto anche in Europa.
Ma il punto, parlando di Sant’Anna di Stazzema, non è nemmeno l’efficacia di queste guerre, mai sottoposte a una vera e sincera analisi circa i risultati ottenuti. Il punto è il senso della memoria storica, il rapporto che vogliamo stabilire con chi visse e soprattutto morì in quel modo nel ’44, come “danno collaterale” di una guerra combattuta senza esclusione di colpi. A che cosa pensiamo quando pensiamo a Sant’Anna? A che ci serve salire lassù? Perché lo facciamo? Che cosa proviamo camminando sul selciato davanti alla chiesetta, dove furono falciate a colpi di mitragliatrice circa 150 persone? E davanti all’ossario in cima al colle?
Sono possibili molte risposte. Una l’ha data Tillerson e quasi toglie il fiato, perché promette guerra e morte, ovviamente guerra giusta o necessaria o inevitabile, e morte – anche, anzi soprattutto – di innocenti (in ogni guerra accade così da un secolo a questa parte). Ma non è per questo – per giustificare e legittimare nuove guerre – che saliamo a Sant’Anna. Se c’è una cosa che ci spinge, è la consapevolezza di raggiungere un luogo tanto speciale quanto disturbante, dove si è manifestato l’esito terribile di pulsioni diffuse nelle società umane organizzate: l’uccisione di massa di innocenti, per mano di eserciti regolari, giustificate da superiori interessi politici.
È successo a Sant’Anna e in molti altri luoghi in Italia nello stesso periodo storico, ma è accaduto spesso anche nei decenni seguenti, a nazifascismo sconfitto, ad esempio in Bosnia e Cecenia, se vogliamo restare in Europa; o in Vietnam e in Afghanistan, e poi in Iraq, Siria, Yemen, Somalia, Congo e altri paesi ancora, se volgiamo lo sguardo più lontano. È stato a volte ad opera di forze armate manovrate da regimi dittatoriali e altre volte le stragi sono avvenute per mano di eserciti “democratici”.
Le stragi di civili inermi a colpi di mitra e di granate, con missili e bombe lanciate da droni, sono una costante, non un’eccezione, delle guerre moderne.
Saliamo a Sant’Anna di Stazzema coscienti che le nostre società, nel 1945, non hanno davvero voltato pagina, sebbene i cinque anni di guerra mondiale e il biennio di occupazione tedesca diedero un’impronta decisiva sul piano storico, morale, politico e anche psicologico al dopoguerra di tutti. Rinacquero in Europa e nel mondo regimi democratici, fu creata l’Onu e approvata una solenne Dichiarazione sui diritti umani; nella nostra Costituzione “scritta col sangue dei resistenti” (e con quello dei caduti nelle stragi) entrò il decisivo articolo 11, per dire che l’Italia rifiuta la guerra come metodo per la risoluzione di controversie internazionali. Un articolo essenziale ma fra i più dimenticati, o meglio calpestati.
Salire a Sant’Anna di Stazzema ci aiuta a capire meglio da dove veniamo e ci spinge a guardare il mondo attorno a noi con il massimo di sincerità. L’aura che promana dai corpi sepolti all’ossario e nelle fosse comuni ancora sparse nella zona è un messaggio di verità che permette di scorgere nel mondo le sant’anna di oggi; che induce a provare empatia per chi subisce sulla propria pelle, nella propria casa, guerre decise chissà dove; che spinge a cogliere nel volto di un profugo di guerra sbarcato a Lampedusa lo stesso sguardo, la stessa angoscia, dei bambini rimasti orfani nell’eccidio, a loro volta profughi (interni) di guerra e letteralmente “minori non accompagnati”.
Ecco dunque a che serve visitare i “luoghi della memoria”. Serve ad entrare in contatto diretto e personale con la storia, a vivere l’esperienza di calarsi nei panni altrui, in un’altra epoca, e da lì, stando in quei panni, in quel tempo, pensare al presente, a quel che abbiamo fatto finora, e al futuro, a quel che potremo fare per non ripetere ancora quegli errori, per non assistere ancora a simili tragedie.
In questo senso Sant’Anna e gli altri luoghi che compongono l’Atlante delle stragi sono siti scomodi e preziosi. Fanno star male ma stimolano pensieri nuovi. Conoscere de visu la portata delle violenze che vi furono compiute, può essere un grande sprone ad agire, affinché le collettività cambino rotta, a patto che vi siano libertà di pensiero e apertura a battere sentieri che portano fuori dal discorso corrente, un discorso che oggi banalizza la violenza e legittima la guerra come opzione possibile e anzi necessaria, mentre deride l’ipotesi di agire per spingere la guerra fuori della storia.
A Sant’Anna, dietro l’ossario, c’è una lapide coi quasi quattrocento nomi dei trucidati riconosciuti: nome, cognome, provenienza, età. È una lettura che sgomenta. Tante donne, tanti bambini, tanti cognomi che si ripetono. Il senso della memoria, a decenni dai fatti, è nel significato che vogliamo attribuire a come vissero e come morirono quelle persone, vite di scarto in tempo di guerra. Non furono eroi, non combatterono il nemico e nella storia – lo sappiamo – c’è poco posto per chi resta anonimo, ma tocca a noi stabilire se il loro sacrificio può essere un monito per l’oggi e un orientamento per il domani.
Possiamo quindi provare a prendere sul serio il grido che arriva da chi perse la vita nelle azioni “eliminazioniste”, come le chiamano gli storici. È un grido di umanità e di rigetto della guerra, un rifiuto che nell’ultimo secolo ha accomunato le popolazioni civili di tutto il mondo, vittime principali e predilette dei “signori della guerra”. È un grido che si è disperso però nel vento, perché la memoria pubblica è negoziazione, lotta politica, spesso anche manipolazione, e oggi chi comanda e pilota di fatto la gestione della memoria comune è poco disposto a mettere in discussione la pretesa razionalità, potremmo dire ovvietà, dello strumento bellico, insomma la legge del più forte, del più armato, del più spregiudicato.
Ci sarebbe dunque una memoria possibile, a volte declamata ma nei fatti emarginata, che poggia sul rifiuto popolare della guerra e quindi spinge a disobbedire alle regole strettissime della politica e della geopolitica; è una memoria intensa e difficile che diventa motore di cambiamento se vissuta davvero e trasformata in azione collettiva. È una memoria, questa, che potrebbe aiutare ad aprire un varco verso una società meno violenta e più resiliente, liberata dalla soggiogante e fasulla contrapposizione fra noi, i civili, e loro, i barbari, un clima d’odio che di muro in muro, di guerra in guerra, sta trascinando il mondo in un abisso.
C’è però un’altra memoria – e va per la maggiore – che si manifesta in forma di omaggio ai caduti, di ricordo formale di una fase storica gloriosa; è una memoria che consola e non disturba più di tanto.
È la memoria – quest’ultima – che ha ispirato l’altro giorno Rex Tillerson, il quale l’ha facilmente piegata alle sue esigenze del momento. Chissà se il segretario di stato ha davvero pensato alle persone nominate nella lapide dietro l’ossario, a come vissero e come morirono, chissà se ha provato a immaginare i loro volti e il loro grido, mentre pronunciava le sue funeste e potenti parole.
Chissà se Tillerson si è reso conto che Sant’Anna di Stazzema non è un luogo di potere, ma uno spazio fisico, etico e mentale abitato dalle anime di gente senza potere, gente che meriterebbe d’essere accolta meglio e ascoltata con più rispetto da noi che siamo venuti dopo.
Fonte: comune-info.net
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.