Intervista a Cecilia Strada di Maurizio Di Fazio
"Stiamo costruendo il nuovo Centro di maternità ad Anabah, in Afghanistan, per dare più diritto alla cura a mamme e bambini e più lavoro e formazione alle donne impiegate nel Centro. E, d'accordo con la famiglia, abbiamo deciso che la nuova struttura sarà dedicata aValeria Solesin". Questo il post apparso sul profilo Facebook di Cecilia Strada, presidente di Emergency, l'organizzazione non governativa che da più di vent'anni cura strenuamente (e gratis) tutti i malati e i feriti delle guerre, della povertà, delle ingiustizie, degli interessi striscianti e del terrore nel mondo. E Valeria era una di loro.
Una scoperta, una rivelazione che è suonata così naturale. La ragazza veneziana trucidata al Bataclan di Parigi era stata una volontaria di Emergency. Perché Valeria voleva rendersi utile al mondo. Voleva contribuire a mitigarne le troppe sofferenze e convulsioni. Valeria voleva capirlo, questo mondo. A cominciare dalle ragioni degli altri, dei più distanti. Con l'ottimismo della volontà e anche quello della ragione. Prima che il suo sogno finisse come sappiamo.
Il nuovo centro di maternità in Afghanistan che sarà intitolato a Valeria Solesin è una struttura che dà lavoro a sole donne, in un Paese dove la mortalità materna è 115 volte più alta di quella italiana. La nostra intervista a Cecilia Strada parte da qui.
"È un pensiero che Emergency ha avuto subito dopo aver saputo del suo coinvolgimento in questa drammatica vicenda. Naturalmente, abbiamo aspettato di parlarne prima con la famiglia. E a loro la nostra proposta è parsa una bella cosa. A quel punto abbiamo cominciato a ragionare su che tipo di struttura dedicarle. Il nostro poliambulatorio a Marghera, vicino, quindi, a casa sua? Alla fine abbiamo deciso per il centro di maternità in Afghanistan perché si prende cura delle madri, dei bambini, della salute delle donne; e della loro piena occupazione. Tutti aspetti che per Valeria erano molto importanti: un'esperienza per la costruzione dei diritti e per le donne, per il lavoro delle donne. Un posto per non dimenticarla mai".
Valeria ha fatto parte di Emergency. Che ricordo trattenete di lei?
"È stata una nostra assidua volontaria: a Venezia prima, e a Trento poi. I volontari del gruppo di cui ha fatto parte la ricordano come una ragazza davvero in gamba, appassionata, solare, studiosa, sveglia. Una gran bella persona".
Con Valeria e gli altri ragazzi sterminati al Bataclan è stata colpita, forse deliberatamente, la "generazione Erasmus" come la definisce il premier Matteo Renzi. La nostra "Meglio Gioventù Europea". Perché proprio lei, perché proprio loro?
"Non sono in realtà particolarmente stupita per quanto è accaduto, perché l'esperienza del terrorismo, che è anche l'esperienza della guerra, è appunto sinonimo di "vittime civili". Sono vent'anni che lavoro in Emergency e non conosco una situazione di violenza, di conflitto, di terrorismo, di guerra in cui a farne le spese non siano stati i civili. Magari attraverso "bombardamenti chirurgici" e "droni intelligenti". Poi, di volta in volta tra i civili massacrati, tra quelli che non c'entrano niente puoi trovarci i ventenni, i 25enni, i bambini, i vecchi contadini... questa è la tragica realtà dei conflitti moderni. A morire non sono i combattenti. A morire nella stragrande maggioranza dei casi sono i civili".
Emergency, citandovi, "da oltre vent'anni risponde all'orrore della violenza con la pratica dei diritti". Anche la battaglia contro l'Isis può essere combattuta con un sovrappiù di civiltà? O la guerra è ormai inevitabile?
"Noi muoviamo da una considerazione inequivocabile, fermo restando che non devono essere le organizzazioni non governative come la nostra a trovare le soluzioni, ma l'Onu e gli organismi sovranazionali. Il dato di fatto è questo: sono quindici anni che il mondo è impegnato in una guerra senza quartiere contro il terrorismo, e i risultati non sono certo entusiasmanti se pensiamo a Daesh, ai morti di Beirut, Parigi, Kabul e in Siria tutti i giorni. Nella nostra esperienza la guerra non è uno strumento che ha funzionato. Per contro, sempre per il nostro vissuto personale, ci sembra che la pratica dei diritti sia un modo efficace e molto più economico di mettere in campo degli antidoti alla violenza e al fanatismo. Noi quindi andiamo avanti così".
Salvaguardare i diritti: e poi?
"Occorrerebbe anche molta onestà intellettuale. Bisogna controllare seriamente i flussi finanziari: da dove arrivano i fondi, le armi e gli appoggi politici al terrorismo? E poi, più "banalmente": chi li compra i reperti archeologici con cui i miliziani dell'Is fanno un sacco di soldi? Non certo i cittadini iracheni, o quelli siriani e afghani. E il petrolio di contrabbando dal Califfo chi se lo compra? Va potenziata l'attività di intelligence e migliorato il lavoro di chi si occupa delle attività di "deradicalizzazione...".
Un'inquietante figura si aggira e moltiplica nel cuore dell'Europa: il "foreign fighter".
"Gli ultimi attentati perpetrati su suolo europeo sono stati organizzati da cittadini europei, non da gente arrivata dall'Iraq o dalla Siria. Come è possibile che un ragazzo nato a Bruxelles si faccia saltare in aria a Parigi? Occorre allora secondo noi un maggiore impegno nell'attività di deradicalizzazione. Per esempio spiegando alle famiglie, e agli insegnanti, come riconoscere i campanelli d'allarme, come evitare gli arruolamenti e le affiliazioni, "deradicalizzandoli" prima che sia troppo tardi. Troviamo frustrante che la risposta sia sempre e soltanto questa: "Più guerra, più bombe". Così facendo continueremo a contare i morti. Anche a Parigi".
Chi arma Daesh?
"Per anni ci hanno raccontato che, grazie ai satelliti, si riesce a vedere persino un foglio formato A4 sul marciapiede sotto casa nostra. Ma allora come è possibile che non si riescano a identificare i flussi di armi? Basterebbero i semplici metodi ordinari di intelligence e di polizia; gli strumenti della lotta alla mafia. E Falcone non ha mai proposto di bombardare la Sicilia per sconfiggere la mafia".
Viviamo in un pianeta incattivito?
"È da decenni che lavoriamo in zone di guerra. Dal '99 siamo in Afghanistan, dove crescono ogni anno le vittime civili; dal '95 in Iraq, dove negli ultimi due anni abbiamo aperto dei centri sanitari nei campi degli sfollati e dei fuggiaschi dalle violenze e dai bombardamenti. Siamo in Africa, con centri di chirurgia d'urgenza per cercare di porre un argine a guerre civili combattute anche a colpi di machete. Le vittime dilagano dappertutto. La violenza va a spirali. La guerra, il terrorismo procedono per spirali: era inevitabile che prima o poi saremmo stati toccati anche in posti in cui ci sentivamo completamente al sicuro. Ma non può esserci un posto sicuro in un mondo pervaso dalla violenza".
Condivide la posizione di non interventismo aperto del governo Renzi?
"Non mi è chiarissimo quello che intende fare il governo italiano, con dichiarazioni del tipo: "Siamo al vostro fianco ma poi vedremo come". Credo che il nostro governo, al di là di essere con la Francia, debba ragionare in proprio. Chiedendosi per esempio: in quale modo le armi da noi esportate in Medio Oriente, in Nord Africa, in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo possono far sì che il mondo diventi sempre più violento? È possibile che tra i nostri alleati ci siano Stati che sostengono direttamente o indirettamente il terrorismo? Finora non ho sentito nessun discorso del genere".
Perché ci commuoviamo per le vittime di Parigi e molto di meno per chi di terrorismo muore in Mali, in Tunisia o in Palestina?
"Da un lato gioca l'immedesimazione: tutti avremmo potuto essere al Bataclan, tutti siamo stati una volta a Parigi e lo stesso non può dirsi per Baghdad o Damasco. Ma qui un ruolo assolutamente centrale lo rivestono i media. È un percorso cominciato dopo l'11 settembre. Le vittime dell'attacco alle Torri gemelle ci vennero giustamente raccontate a fondo. Conoscemmo le loro facce, i loro nomi, le loro passioni: ognuno di loro è diventato parte del nostro album familiare, della nostra storia. Lo stesso meccanismo si è replicato a Parigi, ma questo non accade quando un attentato terroristico spazza via duecento innocenti in Afghanistan o in Iraq. In quel caso i giornali si limitano a un trafiletto. Quelle vittime non vengono raccontate come tutte le vittime meriterebbero, e così non penetrano nel nostro immaginario collettivo. Non potremo mai sentirle vicine. Non potremo mai capirle".
Dopo venerdì 13 novembre sta rimontando, in tutta Europa, l'avversione nei confronti dei migranti. "Avete aperto le frontiere, queste sono diventate un colabrodo e ora non lamentatevi se in mezzo a immigrati e rifugiati regolari si annidino, a frotte, gli invasati dell'Isis" recita certa retorica destrorsa.
"Il proliferare dei foreign fighters insegna che le frontiere c'entrano ben poco. E allora, e a maggior ragione creiamo dei corridoi umanitari, controllati, delle possibilità di arrivare in Italia in modo legale, in aereo, per i richiedenti asilo e per chi scappa da guerre atroci. Non solo per salvargli la vita, ma anche per una questione di sicurezza".
La caccia al clandestino cripto-terrorista: questo è quello che desideravano gli jihadisti?
"Sicuramente il razzismo e l'islamofobia sono un grande regalo all'estremismo perché forniscono delle ghiotte occasioni di propaganda. Ogni profugo accolto in Europa è una sconfitta per Daesh. Ogni profugo respinto è un regalo che gli facciamo".
Fonte: L'Espresso
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