La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 1 dicembre 2015

La rabbia dell’America nera, a 60 anni da Rosa Parks

di Laura Antonella Carli
Nel 1955 gli autobus di Montgomery (Alabama) erano suddivisi in tre diversi settori: i primi dieci posti davanti erano destinati ai bianchi, gli ultimi dieci in fondo erano per gli afroamericani e in mezzo rimanevano sedici posti che potevano essere utilizzati da entrambi, ma con l’accorgimento che, qualora un afroamericano stesse occupando uno di questi posti e un bianco fosse salito sull’autobus e avesse trovato tutto occupato, il primo era obbligato a cedere il suo posto al secondo.
È il 1 dicembre, e la quarantaduenne afroamericana Rosa Parks, di professione sarta, sta tornando a casa dal lavoro, con i piedi doloranti. Sull’autobus i posti in fondo sono tutti occupati, così Rosa si siede nel primo posto dietro alla fila riservata ai soli bianchi, nel settore dei posti comuni.
Passano tre fermate e l'autista le chiede di alzarsi e spostarsi in fondo al bus per cedere il posto a un passeggero bianco appena salito. Lei, che è un’attivista della Naacp (National Association for the Advancement of Colored People), rifiuta. Il conducente ferma il veicolo e chiama due poliziotti per risolvere la questione: Rosa Parks viene arrestata e incarcerata.
La notte stessa, mentre già si registravano alcune reazioni violente all’accaduto, cinquanta leader della comunità afroamericana, tra cui il pastore protestante Martin Luther King, si riuniscono, e il giorno successivo ha inizio il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery, con il supporto dei tassisti afroamericani, che avevano adeguato le proprie tariffe a quelle degli autobus. Il boicottaggio termina il 21 dicembre 1956, dopo ben 382 giorni. Quel giorno, sul primo autobus in arrivo in città salgono Martin Luther King, E.D. Nixon, Ralph Abernathy e il reverendo Glenn Smiley.
A sessant’anni esatti da quando Rosa Parks rifiutò di cedere il proprio posto, la questione razziale non è affatto sparita dal dibattito statunitense. Il secondo mandato del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti ha coinciso piuttosto con un periodo di tensioni fortissime tra “bianchi” e “neri”, scatenate in larga misura dalle violenze della polizia ai danni delle minoranze. Si tratta di una contraddizione solo apparente. «L’importanza dell’elezione di Obama in termini di questioni razziali è largamente simbolica», spiega il giornalista statunitense David Rieff: «Obama non può fare nulla per cambiare le strutture che alimentano i conflitti razziali e allo stesso tempo riflettono la realtà sommersa della vita americana».
Ta-Nehisi Coates, giornalista e scrittore, è dello stesso parere. Il suo nuovo libro, Between the world and me (ancora inedito in Italia), è un grandissimo successo editoriale ed è considerato un testo fondamentale per comprendere i problemi razziali negli Stati Uniti di oggi. Il titolo è tratto da una poesia di Richard Wright e indica la distanza tra l’autore e l’american dream, «il grande sogno americano» costruito a immagine, somiglianza e uso (e qui la citazione è da James Baldwin) di «coloro che pensano di essere bianchi».
Il testo è una lunga lettera di Coates al figlio Samori. Samori ha 15 anni: è entrato cioè in quella fascia d’età in cui i giovani neri sono automaticamente associati alla criminalità, è quindi giunto il momento di fargli un discorso per spiegargli cosa significa essere un afroamericano in una società razzista e come ci si deve comportare nel rapporto con l’autorità, soprattutto quando questa è rappresentata dalle forze di polizia.
L’edizione statunitense del Guardian ha avviato negli scorsi mesi un data project, chiamato The Counted: una sorta di osservatorio in continuo aggiornamento in cui registrare tutte le persone uccise quest’anno dalle forze dell’ordine Usa. Tra le vittime ci sono anche molti minorenni, come minorenni erano Trayvon Martin, ucciso dal vigilante di quartiere George Zimmerman a Sanford, in Florida, nel febbraio del 2012 (aveva solo due anni in più di Samori); o come Tamir Rice (12 anni, tre in meno di Samori), ucciso dall’agente Timothy Loehmann a fine 2014 in un parco di Cleveland, in Ohio; o come Michael Brown (tre anni in più di Samori), ucciso da Darren Wilson nell’estate del 2014 a Ferguson, nel Missouri.
Dopo l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca è stato facile pensare che finalmente gli Stati Uniti erano entrati in un’epoca post-racial, ma la realtà è ben diversa, come documenta Coates in questo libro e nei suoi molti articoli. E la ragione affonda nella storia stessa e nel retaggio degli Stati Uniti d’America.
«Bisogna riconoscere», scrive Coates, «che il concetto stesso di essere bianco negli Stati Uniti non è stato costruito attraverso le degustazioni di vini e le feste estive a base di gelato ma con il saccheggio della vita, della libertà, del lavoro e della terra; con le fruste e con le catene, strangolando quelli che si ribellavano, distruggendo le famiglie, stuprando le madri, vendendo i figli. E attraverso tante altre azioni il cui obiettivo era, prima di tutto, negare a te e a me il diritto di gestire il nostro corpo come meglio crediamo».
L’eredità della schiavitù è ancora un marchio ingombrante, ed è ancora un’importante unità di misura nei rapporti tra afroamericani e popolazione bianca, come testimoniano episodi recenti come quello della piscina di McKinney, in Texas, dove a destare sgomento non è solo l’abuso di polizia, ma il retroterra che l’ha scatenato: il fatto che qualche bianco benpensante abbia ancora problemi ad accettare che dei neri sguazzino nella sua stessa piscina.
Poco prima della morte di Michael Brown e delle proteste di Ferguson, Coats aveva pubblicato su The Atlantic uno dei saggi giornalistici più discussi degli ultimi anni: The Case for Reparation, in cui sosteneva – attraverso una disamina articolata delle conseguenze economiche della schiavitù e della segregazione – che per risolvere i problemi razziali degli Stati Uniti era necessario fornire dei risarcimenti alle famiglie afroamericane.
La proposta ha destato molto scalpore ed è ancora oggetto di dibattito, ma nella generale impotenza, le proteste di Ferguson e Baltimora hanno smosso un po’ le acque e sono riuscite a riportare a galla il sommerso di un problema che affonda le radici nella storia di violenza e soprusi degli Stati Uniti e che oggi ristagna appena sotto la superficie. Lo stesso è successo quest’estate con la strage nella chiesa battista di Charleston, nella quale il 21enne suprematista bianco Dylann Roof ha ucciso nove persone. I fatti che ne seguirono hanno aperto il dibattito sulla controversa bandiera confederata, mettendo perciò in discussione uno dei simboli più lampanti del retaggio schiavista.
L’anno scorso, insieme al rapporto sulla morte di Brown, il dipartimento della Giustizia ha pubblicato anche un’indagine che mostrava come la polizia di Ferguson avesse per anni portato avanti una politica di discriminazione istituzionalizzata: i neri – specie se giovani e maschi – avevano una possibilità incredibilmente alta di essere fermati, multati, arrestati o molestati.
L’amministrazione Obama – anche se abbastanza timida nell’esporsi sulle questioni razziali, come ha osservato lo stesso Coates – ha approvato una serie di leggi per migliorare la situazione. Gli enti federali incaricati di fornire sussidi ai più poveri, per esempio (di cui beneficiano soprattutto gli afroamericani), sono stati potenziati ed è stato reso più difficile, per i proprietari di abitazione, rifiutarsi di vendere o affittare case per motivi razziali (fattore che dovrebbe diminuire la cosiddetta housing segregation). Ma è ancora troppo poco. E nelle persone come Ta-Nehisi Coates, che da anni si occupano di razzismo e discriminazione, domina un atteggiamento di energica e battagliera disillusione.
«Questa», scrive Coates a suo figlio Samori, «è stata la settimana in cui hai saputo che gli assassini di Michael Brown sarebbero stati lasciati liberi. Gli uomini che avevano lasciato il suo corpo in strada non sarebbero mai stati puniti. Io non mi aspettavo veramente che qualcuno fosse punito. Ma tu eri giovane, e ci credevi ancora. Sei rimasto fino alle 11 di sera, quella notte, in attesa dell’atto d'accusa, e quando invece è stato annunciato che non ci sarebbe stato, hai detto: “Devo andare”, e sei andato nella tua stanza, e ti ho sentito piangere. Sono venuto da te cinque minuti dopo, e non ti ho abbracciato, e non ti ho confortato, perché ho pensato che sarebbe stato sbagliato consolarti. Non ti ho detto che tutto andrà bene, perché non ho mai creduto che andrà tutto bene. Quello che ti ho detto è ciò che i tuoi nonni hanno cercato di dire a me: che questo è il tuo Paese, che questo è il tuo mondo, che questo è il tuo corpo, e devi trovare un modo per viverci dentro».

Fonte: Linkiesta 

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