La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 6 dicembre 2015

Pensare la guerra per fermare il delirio bellicista

di Michele Martelli 
Sempre più spirano venti di guerra. Alla coalizione bellica al canto della «Marsigliese» proposta non da Marine Le Pen, ma dal presidente socialista Hollande hanno aderito Russia, Germania, Gran Bretagna, Usa, stampa, intellettuali e partiti riformisti e conservatori, di centro-destra e socialdemocratici. La guerra è stata sempre un’avventura cieca e orribile, con esiti imprevedibili, ma lo è ancor più questa: una guerra asimmetrica, che non si sa bene come, dove, con chi e contro chi condurla.
L’Isis, uno Stato senza Stato, senza basi militari stabili, senza confini e territorio delimitato, e un terrorismo mordi e fuggi, in ipotesi ovunque assente e presente: quindi un nemico inafferrabile, liquido, come il petrolio che controlla e le cui fonti gli aerei nemici stentano a bombardare, perché troppo prezioso. E poi una coalizione divisa, con interessi e mire egemoniche contrapposte, che in ogni momento (sintomatico il caso del bombardiere russo abbattuto dalla Turchia di Erdogan e la violenta reazione di Putin) rischia di avvilupparsi in antagonismi e conflitti interni tali da scatenare un’escalation militare di proporzioni gigantesche.
E non a caso. Oggi, nell’epoca della globalizzazione, finanza, banche, industria, fonti energetiche, armamenti e informazione, così come Stati nazionali e sovranazionali, gruppi locali e tribali sono infatti intrecciati in una rete di relazioni così inestricabili che diventa arduo individuare e distinguere il nemico dall’amico, chi è con me da chi è contro di me. Ciò rende ancor più temibile l’ipotesi che la «Terza guerra mondiale a pezzetti» di cui parla papa Francesco possa trasformarsi, gradualmente e inavvertitamente, in Guerra globale. Una guerra che porterebbero a compimento finale quanto di terribile c’è stato nel Novecento, in particolare nei due conflitti mondiali.
Tra le varie, numerose e ovvie ragioni, per cui dovremmo tutti tenerci lontano da una simile prospettiva, ne elenco qui due.
A) Innanzitutto, questa futura guerra sarebbe basata, ancor più di quelle finora conosciute, sulla completa criminalizzazione e de-umanizzazione del nemico. Al criminale comune si applica il codice penale. Ma Hollande non ha detto che i terroristi di Parigi hanno perpetrato un atto criminale «contro l’umanità»? Come rapportarsi a chi si macchia di «crimine contro l’umanità»? Il primo gradino, se gli si riconosce ancora la qualifica di uomo, consiste nel processarlo e condannarlo, all’ergastolo o alla pena di morte, come è accaduto al Processo di Norimberga: un processo però anomalo, fondato su di un diritto internazionale inesistente, inventato dai vincitori. Analoga sorte è toccata a Saddam Hussein, arrestato, a lungo imprigionato e infine condannato a morte dagli Usa alla fine di un processo-farsa.
Il secondo gradino consiste nella totale de-umanizzazione del nemico, animalizzato, degradato a sotto-uomo, non-più-uomo. Nella guerra d’Algeria i generali francesi avevano lanciato contro gli indipendentisti algerini «la caccia al topo». Gli internati nei lager (ebrei, omosessuali, comunisti, rom) per i nazisti erano insetti da schiacciare. Per gli odierni fondamentalisti islamisti, chi non si riconosce nella loro concezione dell’Islam, non è muslim, musulmano, quindi non è un nemico degno della qualifica di uomo: perciò va decapitato, sgozzato, eliminato con ogni mezzo, compresa la cintura esplosiva. La nostra destra neo- e teo-con risuscitata dopo la strage del Bataclan rovescia il punto di vista: barbaro, incivile e non-uomo è chi attenta ai valori della cristianità e della civiltà occidentale. Quindi un nemico da sterminare.
In una futura Guerra globale, combattuta su scala planetaria tra le grandi potenze mondiali, le linee di divisione e contrapposizione noi-loro, civiltà-barbarie, umano-disumano, che attraverserebbero in modo imprevedibile le varie forze e campi in conflitto, porterebbe al culmine la logica dello sterminio. Il nemico, in quanto «disvalore assoluto», indegno di esistere, non avrebbe in sorte la sconfitta, ma l’annientamento.
B) In secondo luogo, sarebbe una guerra totale, assoluta, senza vinti né vincitori. Non si combatterebbe tra eserciti regolari, escludendo e salvaguardando il più possibile la vita, i diritti e i beni dei civili (come nelle guerre europee classiche dell’epoca moderna). Data la quantità e terrificante potenza delle armi di distruzione di massa oggi a disposizione degli eventuali Stati belligeranti (dalle atomiche alle bombe al fosforo alle armi batteriologiche), ogni azione di guerra finirebbe col produrre, infinitamente di più di quanto si è visto finora, stragi e massacri di massa di dimensioni immani, senza ostacoli e distinzione di luoghi, razza, età, sesso, colore o religione.
Quanto accaduto nel Novecento e agli inizi del nuovo millennio ne è la prefigurazione. Mi riferisco, soprattutto, ai bombardamenti americani indiscriminati sulle città tedesche e alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Nonché alle due Guerre bushiane contro l’Iraq di Saddam Hussein, in cui la retorica sulle «Smart Bombs», bombe intelligenti al servizio di una presunta «guerra chirurgica e pulita», capaci di distinguere gli obiettivi militari dalle infrastrutture civili, non ha potuto nascondere (soprattutto nella Guerra preventiva infinita di Bush jr) gli spaventosi eccidi di centinaia di migliaia di vittime innocenti.
Stragi di civili si continuano a compiere tuttora, ogni giorno, in Medio Oriente, con le bombe e i droni teleguidati dell’Occidente, che cadono indifferenti e «spietati» non solo sui pochi e indistinguibili obiettivi militari dell’Isis, ma anche su abitazioni, luoghi di ritrovo e di lavoro, scuole e ospedali: un’alta tecnologia – non c’è che dire –, ma con «effetti collaterali» altrettanto terroristici del terrorismo che si intende combattere. Sotto questo aspetto, si potrebbe dire che gli islamisti kamikaze, imbottiti di ideologia di morte, siano le orribili bombe e droni umani di chi non dispone di alta tecnologia.
Dunque, l’inizio di un’eventuale escalation militare, che coinvolgerebbe nelle sue spire infernali, l’una contro l’altra, le stesse potenze dell’attuale incerta e traballante coalizione anti-Isis, non potrebbe che condurre infine all’esito della distruzione totale dell’eco-sistema planetario e quindi all’estinzione della stessa specie umana. Non c’è bisogno di doti profetiche per capire che la «guerra di civiltà» da taluni fanatici tanto irresponsabilmente invocata, magari brandendo comicamente in mano presepi come arma contundente, o cantando «Tu scendi dalle stelle» come fosse un inno di guerra, sarebbe forse, o senza forse, l’ultima delle guerre, perché segnerebbe la scomparsa e la fine di ogni civiltà (comunque intesa). E di ogni parvenza di umanità sulla terra.
Due ragioni ovvie, alla portata di tutti. Ma allora perché si alimenta il delirio bellicista? Perché i tromboni di guerra continuano a soffiare sul fuoco?
Spetta a chi è immune dal delirio pensare la guerra.
Il filosofo franco-algerino Muhammad Arkoun ha distinto tre oggetti del pensiero: a) il «pensabile»: ciò che si può pensare nel quadro dei propri schemi culturali; b) l’«impensato»: ciò che esce fuori da tali schemi; c) l’«impensabile»: ciò che non si riesce assolutamente a pensare. Pensare oggi la guerra, con i suoi rischi apocalittici, significa trasporla dalla sfera dell’impensato a quella del pensabile: il che ci ispirerebbe comportamenti conformi al principio di responsabilità. Altrimenti, l’impensato può degenerare nell’impensabile: il che ci consegnerebbe al nichilismo planetario.

Fonte: MicroMega online 

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